pierfranco pellizzetti
Nessun commentoMiei cari citoyens, concittadini di Critica, posso esprimervi in grande amicizia un parere "critico" sul dibattito che avete testé aperto, a proposito de "il partito (liberale) che non c'è (ancora. O non ci sarà mai più)"?
Con molta franchezza: a me pare questa una pura e semplice operazione nostalgia. Nostalgia di quando avevamo vent'anni e militavamo da anti-malagodiani nel Partito Liberale d'antan (o nel Partito Radicale pannelliano); forse nostalgia di un buon tempo antico (ma era davvero "buono"?) che per taluni risale magari a Camillo Benso di Cavour e compagnia risorgimentale della Destra Storica, per talaltri alla "civiltà delle buone maniere" (del resto il caro John Stuart Mill non è stato forse definito da Isaiah Berlin "l'istitutrice vittoriana"?).
Ho un grande rispetto per la nostalgia, sentimento che - tra l'altro - permea il carattere melanconico con cui convivo e di cui è intrisa la mia personale biografia spirituale, segnata da importanti permanenze (ovvio, importanti per me) nell'area franco-maghrebina (cafard) e latinoamericana (saudade).
Ciò nonostante, dubito che tale rispettabile inclinazione, proprio a causa del suo intrinseco orientamento al ripiegamento nell'idealizzazione del passato, possa tramutarsi in sonda critica; tantomeno in leva di cambiamento. Al contrario ritengo sia fonte di pericolosi fraintendimenti, come andrò a dire.
Rendiamoci - dunque - conto del tempo in cui viviamo. Da post-postmoderno penso avesse ragione decadi fa Jean-Francois Lyotard annunciando la fine dei grands récits, ossia "l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni ideologiche" (lasciando da parte i narcisismi debolistici di quel movimento filosofico molto rive gauche e ora agli sgoccioli, compreso quanto Mauro Barberis definisce ironicamente "vattimismo"). Pur essendo "strutturalista debole" (con Pierre Bourdieu: le strutture sociali "non sono un destino"), condivido l'analisi sulla complessità di Niklas Luhmann, secondo cui "nelle società informatiche e multimediali si realizza un incremento così elevato della autonomia e dello specialismo degli apparati, tale da far coincidere la legalità formale con la legittimazione politica". Da qui l'obsolescenza, sotto il profilo della concettualizzazione corrente, di nozioni classiche della tradizione liberaldemocratica, come quelle di opinione pubblica, di consenso e di controllo politico; nel caso nostro, di concorrenza tra i partiti.
Ma veniamo al punto: il Liberalismo, inteso come metanarrazione ideologica connotativa di una organizzazione politica che ad essa si richiama, è nient'altro che un equivoco evaporato da lunghissima pezza. Anche perché sprovvisto di qualsivoglia baricentro attorno al quale fare emergere una visione del mondo da trasformare in progetto strategico.
Il Liberalismo come teoria che propugna l'autonomia/priorità dell'individuo rispetto allo Stato? Dall'epoca welfariana abbiamo appreso che lo Stato può essere invece un potente alleato per promuovere libertà inclusiva.
Il Liberalismo come pensiero della borghesia in quanto soggetto "rivoluzionario" di modernizzazione? Grossomodo dal 1848 i ceti borghesi hanno rinunciato al ruolo di "classe generale", compromettendosi con l'aristocrazia e diventando forza di conservazione dell'ordine che avevano istituito.
Il Liberalismo come ideologia della proprietà? L'identificazione tra libertà e possessività smette di essere proponibile con il compimento della Grande Insurrezione inglese in Gloriosa Rivoluzione.
Insomma, dovendo parteggiare (persesi le tracce di quella "borghesia colta" in cui John Maynard Keynes avrebbe voluto identificarsi, annegata nel mare limaccioso della neoborghesia free rider, accaparrativa all'insegna di "avido è bello") il liberale odierno non potrebbe che ripetere la scelta del grande economista inglese: stare dalla propria parte. In quanto il pensiero liberale (critico e vagamente misantropico) è refrattario alla logica di "parte collettiva", seppure con annessa etichetta "liberale"; quel soggetto drammaticamente anacronistico chiamato "forma-partito", inteso come struttura preposta a costruire organigrammi pubblici e dare "la linea".
Tutto questo sempre perché nel pensiero liberale non è possibile individuare qell'arrivano i nostri salvifico (il punto d'arrivo storicistico/deterministico dell'umana vicenda) che costituisce l'ubi consistam di qualsivoglia ideologia (il Comunismo nel Marxismo, la Società Organica nella Dottrina Sociale della Chiesa, il Sangue e la Razza nel Nazionalismo e così via). Infatti - ce lo siamo detti tante volte - il Liberalismo, non è ideologia ma metodo; con Mannheim "utopia positiva". Un metodo che attraversa (o meglio, sarebbe auspicabile attraversasse) l'intero spettrogramma delle posizioni politiche democratiche, orientandole ai principi di Giustizia e Libertà; allo smascheramento attraverso la decostruzione (ermeneutica del sospetto) di ogni forma di conculcamento, materiale o virtuale che sia: pensiero liberante. Dunque, innanzi tutto "mentalità". Un atteggamento mentale orientato - appunto - alla critica come rottura del continuum Vetità-Potere ("Il Potere come discorso di Verità, la Verità come pratica di Potere", dice - grosso modo - Michel Foucault); alla valorizzazione del conflitto come primaria ipotesi di una trasformazione che conquista diritti e apre all'inclusione nella cittadinanza (massì, "le lotte del lavoro" care a Luigi Einaudi).
Sicché per una volta (e solo per questa volta) mi sento crociano: il pensiero liberale è e può essere soltanto il patrimonio culturale/civile che si declina nella prassi secondo le modalità di un pre-partito, un mood che si diffonde come microclima dell'agire pubblico. Non certo - ribadisco - la grund norm fondativa di un partito tradizionale. Soprattutto in un'età postideologica quale l'attuale; in cui i soggetti politici, nel migliore dei casi, si qualificano sulla base di issues.
Mi attendo l'obiezione: e la grande (terribile) stagione del Neoliberismo, da cui stiamo faticosamente uscendo, non ha significato il dominio di un'ideologia (mercatista) tradotta in "pensiero unico"? Rispondo: il NeoLib non ha prodotto partiti, semmai ha funzionato da agente ideologico per la colonizzazione mediatica del Politico al servizio dell'egemonia dell'Economico (nella sua versione finanziarizzata).
Comunque la vicenda ci ha insegnato qualcosa di cui tenere ben conto: il conflitto centrale odierno si svolge nella sfera dei modelli di rappresentazione; come produzione di "pensiero pensabile" (la formula è di Noam Chomsky). Ed è proprio qui che vedo l'urgenza di militanza attiva.
Voi dite che oggi nella politica c'è un preoccupante deficit di pensiero liberale? Condivido. Ma allora l'impegno è quello di promuovere uno stile di pensiero (metodo più valori), non concorrere alla costruzione di organigrammi pubblici; tenendo sempre a debita distanza il lavoro intellettuale dalle pratiche amministrative e decisionali concrete (con i loro inevitabili carichi compromissori che necessitano acuite funzioni di smascheramento a fungere da contrappeso).
Così facendo - credo - recupereremmo con coerenza il nocciolo vivo dell'araba fenice chiamata "pensiero liberale", che è in primo luogo la critica attiva dei rapporti di dominio. E per farlo non vale la pena di perdere tempo a vagheggiare coalizioni che assicurino a qualche amico un insignificante seggio da peone in Parlamento (a qualcuno interessa rifare il Pancho Pardi in IDV?) o il posto di assessore in qualche moritura (speriamolo) Provincia.
Concludendo: invece di perdere tempo a vagheggiare revival più che improbabili o ipotizzare entrate in arene popolate da politicanti esausti (nella migliore delle ipotesi; mentre, nella prevalenza dei casi, ignobili carrieristi), non sarebbe invece più utile domandarsi(ci) come aumentare la potenza di fuoco di una posizione "altra" e più "alta": il ruolo di chi pensa politica andando oltre il quotidiano, impegnato nella difficile arte che intreccia innovazione e testimonianza?
Mi sembra di ben maggiore urgenza rinforzare la rivista e consolidare il nostro network, sapendo che il compito che ci siamo dati è quello dell'influenza. E il cammino da compiere per riuscire ad essere essere efficaci influenzatori è ancora lunghissimo. Tanto per dire: ad oggi quanti under sono coinvolti nella palestra di Critica Liberale? Quali strategie di visibilità e promozione abbiamo messo a punto? Cosa dobbiamo fare concretamente per essere riconosciuti come soggetto significativo nel dibattito pubblico? Come possiamo incidere a livello di cultura politica nel desolato/desolante panorama nazionale? E così via.
Francamente sono molto più interessato a questi temi che non ritrovarmi a dover litigare, dopo mezzo secolo, con sedicenti liberali, intellettualmente deprimenti, tipo Alfredo Biondi o Umberto Bonaldi redivivi. A dover spiegare come mai anche gli orridi Piero Ostellino o Antonio Martino si definiscono "liberali", eppure io resto un'altra cosa.
Ad meliora.
Il cittadino Pierfranco Pellizzetti
P.S. Mentre correggevo queste note ho ricevuto il numero 4/2011 della rivista Il Mulino con il saggio "Ipotesi sulla liquefazione del liberalismo italiano" che l'autore, il carissimo amico Mauro Barberis, mi aveva già fatto pervenire in bozza. Ne trascrivo solo le conclusioni, che si rivolgono a tutti noi con straordinario tempismo: "dobbiamo continuare tutta la vita a rimpiangere quel che avrebbe potuto essere e non è stato? Possiamo continuare a sognare il Partito Liberale di Massa in un paese che ha metabolizzato persino Berlusconi? O dobbiamo accontentarci di combattere le nostre sacrosante battaglie di minoranza, come fanno i miei fratelli di Critica Liberale? Rassegnamoci, il mondo non va nella nostra direzione".
{ Pubblicato il: 27.09.2011 }