L’Italia ha bisogno di cambiare. Non si tratta solo di superare i più gravi effetti economici e sociali della crisi che ha colpito le economie industriali, ma occorre rimediare alle troppe arretratezze, molte delle quali risalgono agli anni della Prima Repubblica, e che la Seconda, non solo non ha risolto, ma anzi ha aggravato. Occorre “Rifare l’Italia”, trasformandone la politica: compito che richiede la presenza di un’area politica caratterizzata da forti capacità riformatrici di impronta liberale e socialista.
Le macerie della seconda Repubblica.
un sistema al capolinea
La crisi finanziaria di questi anni ha reso chiaro a tutti come il sistema politico che si è andato sviluppando nel lungo corso della “Seconda Repubblica” fosse arrivato al capolinea, manifestando appieno guasti gravissimi; solo in parte le loro evidenze stanno in indicatori economico-sociali che testimoniano mancata crescita, debito pubblico pressoché insostenibile, livello eccessivo e bassa qualità della spesa pubblica, inaccettabili disoccupazione ed inoccupazione, in particolar modo per giovani, donne, e nel Sud; ed ancora, bassa mobilità sociale e sperequazioni nella capacità di spesa e nella distribuzione della ricchezza ingiustificatamente elevate.
Le difficoltà italiane non stanno solo nel cattivo stato dell’economia e della finanza pubblica seguito alla crisi che ha colpito le economie industriali a partire dal 2007; anzi, la precedono non di poco, ed investono in pieno la sfera politico-istituzionale e la vitalità stessa della società; peculiarità della crisi italiana è l’intrecciarsi ed il mutuo amplificarsi di arretratezze, disfunzioni, egoismi, che trovano insieme cause ed effetti, oltre che nell’economia, nella società, nelle istituzioni, nella politica.
venti anni perduti
Da questi punti di vista, i venti anni della seconda Repubblica sono stati venti anni perduti, con l’aggravante che quel periodo ha aggiunto danni nuovi alle arretratezze precedenti: vent’anni durante i quali lo sviluppo mancato e l’accumularsi del debito pubblico a dimensioni da emergenza nazionale erano indici sintetici e conseguenze dell’aver fallito l’occasione e le opportunità dell’euro; dell’aver privatizzato senza farne derivare fattori di apertura e liberalizzazione; dell’aver proseguito la pratica del costruire facili consensi e dell’incanalare i conflitti sociali senza liberare nuove energie e potenzialità, seguitando ad attingere ad una spesa pubblica che, eccezion fatta per la breve stagione a cavallo dell’ingresso nella moneta unica, ha continuato a crescere in dimensioni assolute e relative, ed in sprechi, mentre regrediva in quanto a qualità e capacità di produrre sviluppo, ammodernamenti, civiltà di vita; dell’essersi assuefatti al criterio di prelevare e tagliare costi ove ciò risultasse più facile e rapido se non automatico, invece che corretto nei termini di una doverosa equità ed appropriato in rapporto agli indirizzi generali di politica economica, generando progressive ingiustizie e sperequazioni che hanno frenato sviluppo, mobilità sociale, voglia di fare; dell’aver abbandonato il percorso delle grandi riforme civili e liberalizzatrici del diritto di famiglia, del divorzio, della legge 194; del non aver saputo affrontare alcuna riforma della giustizia civile e penale se non in vista degli interessi contrapposti e contingenti della maggioranza e dell’opposizione; dell’aver confuso, in una visione organicistica della società, tra l’interesse di tutti e tutti gli interessi, ivi compresi quelli corporativi di categorie, potentati, ceti che hanno prosperato su protezioni, privilegi, rendite di posizione, e sovente anche su elusione ed evasione fiscale, e che oggi protestano, refrattari alle necessità di adeguamento ad una realtà ben diversa da quella di qualche decennio fa.
una volgare costituzione materiale ha sostituito quella scritta
In questi venti anni, la prassi politica ed amministrativa ha contraddetto sempre più apertamente i principii sui quali fu scritta la nostra Costituzione, avendo ridotto il Parlamento ad una funzione di frettolosa ratifica e fatto passare la concezione che i “checks and balances of powers” operino a scapito dell’efficienza, affermato il principio che l’investitura popolare superi la giurisdizione, controllato ed occupato sistematicamente ogni spazio informativo, svilito la funzione di sostegno al merito ed alla mobilità sociale di un sistema dell’istruzione pubblica gratuito, aperto a tutti, e di qualità sin dai primi livelli, continuato a favorire la scuola privata e la chiesa cattolica con elargizioni e privilegi fiscali, impedito o limitato i più privati spazi delle libertà individuali; sino a che una volgare costituzione non scritta ha sostituito senza alcun fondamento giuridico la Costituzione della Repubblica Italiana.
degrado del sistema istituzionale e della politica
Agli antichi partiti politici, oramai invecchiati, ma pur sempre riconoscibili come “partes” raccolte attorno a culture politiche distinguibili ed a posizioni, diverse, ma riconducibili a concezioni riguardanti l’interesse generale, e pur sempre dotati di vertici che erano tali in quanto scaturiti da un minimo di dibattito interno (tanto che il centralismo democratico del PCI era oggetto di critiche), si sono sostituiti partiti costruiti sull’immagine e sugli interessi di leaderships personali ed incontendibili, che riproducono su scala più ampia l’antico notabilato locale, o partiti che, in nome di un “nuovismo” pseudo-nordamericano, sono diventati partiti-contenitore dove, come in un grande magazzino, a chiunque è dato di trovare di tutto un po’.
E, essendo evidenti effetti e disfunzioni, ma non intendendo rimuoverne le cause, si è prodotto il cortocircuito logico di cercare di far passare per difetti del sistema istituzionale ai quali ovviare introducendovi scorciatoie tecnocratiche o oligarchiche, e per difetti del sistema rappresentativo da correggere con leggi elettorali barocche, quelli che invece sono difetti, incapacità, e colpe (con dolo) del sistema politico e dell’establishment che lo ha governato, dalla maggioranza come dall’opposizione.
Nessuna riforma istituzionale e nessuna riforma elettorale potranno rivitalizzare la nostra democrazia sinchè la vita interna dei partiti politici resterà quella che oggi è, sinchè questi percepiranno finanziamenti pubblici incontrollati per importi pari a circa 4 volte la media europea, e sinchè le norme che regolano l’accesso all’elettorato passivo ed all’informazione politica resteranno quelle attuali.
In questo ventennio sono state adottate due leggi elettorali nuove ed entrambe progressivamente peggiorative, e si profila la terza, a quanto è dato di capire affine alle precedenti nella ricerca del peggio; il finanziamento pubblico delle oligarchie che governano i partiti ha assunto dimensioni e forme da scandalo nazionale, senza che per ciò si siano ridotte corruzione e concussione; il proliferare di società pubbliche di diritto privato ha fornito più ampie possibilità di elargizioni discrezionali ai maggiori “clientes” ed ai fiduciari degli oligarchi.
In sintesi, tutti gli interventi su queste materie sono stati efficacemente finalizzati a svilire la vera politica e ad agevolare ai partiti-persona ed ai partiti-contenitore, in una perpetuata e lauta sussistenza, la partecipazione all’occupazione del potere.
coesione nazionale
La vecchia maggioranza, ivi compresi i postfascisti, e senza una reale opposizione, ha barattato l’indispensabile apporto della Lega con un intricato progetto di riforma federale del Fisco in senso più antiunitario che federale, ignoto nei costi, rivolto apertamente ad allontanare ulteriormente in interessi ed aspirazioni le aree forti da quelle deboli del Paese, dimentica del fatto che la già carente tutela dei diritti civili, economici e sociali dei cittadini non possa esser devoluta all’arbitrio ed alle risorse delle singole Regioni, ed esiga invece da parte dello Stato capacità di controllo, garanzia, ed intervento. Ed una continuata e becera, ma più che tollerata, opera di denigrazione condotta da personaggi la cui statura si misura più sulle quote-latte che in rapporto a Carlo Cattaneo, ha prodotto simbolicamente il risultato che, nell’anno in cui si è celebrato il 150° dello Stato Unitario, si è arrivati al punto che il tricolore non solo sia stato vilipeso a più riprese, ma, ancor peggio, visto da pubblici ufficiali come un simbolo provocatorio di disturbo della quiete pubblica.
coesione sociale
La crisi economica non ha fatto che sovrapporre nuove difficoltà alle precedenti ed alle criticità strutturali del sistema Italia, aggiungendo ulteriori fattori di debolezza e di disparità, di iniquità e di rottura della coesione sociale, pesantemente sottovalutati in estensione ed effetti, a quelli di una società che già prima del prorompere della crisi era caratterizzata dalla minor mobilità sociale, dalla più iniqua distribuzione della ricchezza, e dalle minori chances per donne e giovani non abbienti che fosse possibile riscontrare tra i Paesi industriali.
Mentre venivano sminuite o negate le difficoltà del Paese, molti perdevano il loro lavoro e, avviando la mobilità sociale all’indietro, si estendevano disoccupazione, inoccupazione e malaoccupazione; i già ricchi avevano visto accrescersi la loro ricchezza in termini assoluti e relativi, mentre i poveri si sono ancor più impoveriti ed il loro numero è aumentato. E il Sud ha visto crescere il suo divario nei confronti del Nord, sia a seguito dello storno di parte delle risorse destinatevi, che a causa dei pessimi criteri di gestione seguiti da non poche amministrazioni meridionali.
Larghi settori della vita economica, senza che si sia fatto nulla per ovviarvi, restano tuttora sottratti alla concorrenza, assoggettati agli interessi di oligopoli, caste, corporazioni, categorie, con quali costi per famiglie ed imprese e con quali privilegi e profitti per i pochi è facile immaginare.
diritti negati e conformismo
Tra gli effetti del secondo “ventennio”, non ultimo è l’aver visto spesso e facilmente limitati in via di fatto se non di principio, e sottoposti a pregiudizi o privilegi derivanti da censo o ruolo sociale, orientamento sessuale, credenza, razza, i diritti degli individui nelle loro molteplici qualità di persone, cittadini, lavoratori, utenti dei pubblici servizi, consumatori. Il ritardo italiano si misura anche sulla limitazione e sulla non parità per tutti dei diritti al rispetto della dignità personale, a non veder conculcate e discriminate le proprie diversità di credo e di stile e scelta di vita, ad un’informazione libera ed onesta, ad esser cittadini e non sudditi questuanti favori da politica e pubblici poteri, ad un’istruzione di qualità, alla salute, ad una giustizia equa e rapida, a scontare, quando ciò sia, pene non offensive della persona umana.
La cappa di conformismo e di avversione alle possibilità dell’individuo e del cittadino di realizzare le proprie aspirazioni e di far valere i propri diritti, a premiare il merito ed esigere responsabilità e rispetto delle regole, che di volta in volta ha tratto origine dalle concezioni autoritarie, dal razzismo, dalla timorosa avversione nei confronti dei “diversi”, dal clericalismo, dal burocratismo, dal prevalere del più furbo o del più forte, ha contribuito anch’essa a rendere immobile, incapace di crescere, iniqua, la società italiana. Su questi conformismi una destra a-civile ha costruito la propria forza, ed a questi il centrosinistra non è stato in grado di opporre risposte che avrebbero richiesto ben altra capacità riformatrice ed innovatrice.
particolarismo, populismo, qualunquismo
Figli del conformismo, ossequienti o ribelli che siano, sono dilagati i particolarismi ed i populismi, tanto improntati alla tutela unilaterale del tornaconto privato, che a carattere fortemente protestatario.
I localismi padani o neoborbonici, la sfiducia negli strumenti della democrazia e dello Stato di Diritto, la logica del “tanto sono tutti eguali”, il qualunquismo giustizialista e quello dell’antipolitica, l’esasperazione dell’ambientalismo luddista, il mito dell’uomo forte, la ricerca di scorciatoie, furbizie e favori come palliativi ai diritti negati, il subire passivamente amministrazioni locali pessime, il vedere nelle diversità culturali, religiose, razziali, di stili di vita, un pericolo per la sicurezza e per i presunti “valori” tradizionali ai quali si dovrebbe improntare la società italiana, sono tutti atteggiamenti acritici che, da destra e da sinistra, si manifestano parimenti di ostacolo allo sviluppo di una democrazia della quale cittadini consci e responsabili siano i protagonisti.
La caduta di Bisanzio.
2010-2011: più di un anno di vita vegetativa
A partire dalla seconda metà del 2010, un sistema arrivato con tutta evidenza al collasso finanziario, economico e politico, ha sciupato a danno di tutti oltre un anno (il più deleterio della già pessima era berlusconiana), impegnato nell’accanimento terapeutico di far sopravvivere, insieme alla figura di un leader screditato e ridicolizzato in Italia e fuori, un esecutivo che già era un cadavere, accantonando ogni problema e producendo l’estremo degrado della seconda Repubblica: quello di improvvisate formazioni minori autocostituitesi, in funzione di merci nel mercato del voto parlamentare, a sostegno irresponsabile di una maggioranza non più esistente.
Quanto in una normale democrazia sarebbe stato doveroso ed utile -l’immediato ricorso alle urne- non era possibile, pena il tracollo finanziario, nell’Italia del 2011: a definitiva conferma dell’essenza antidemocratica dell’età berlusconiana sta il fatto che l’ultimo suo lascito stia nell’averne impedito la dichiarazione di fallimento seguendo i canoni di una normalità democratica.
il governo Monti: continuità e discontinuità
Per por termine a questo stato di cose si è dovuto ricorrere ad un governo, quello di Mario Monti, che nella sua singolarità impersona la certificazione politica della bancarotta della seconda Repubblica ed il massimo della discontinuità possibile; nell’intento di evitare il baratro e di restituire all’Italia un minimo di credibilità internazionale, si sono posti in essere provvedimenti la cui durezza testimonia lo stato d’emergenza che ci si è trovati a dover affrontare, ma la cui scarsa equità e più di un cedimento ai limiti imposti dalla destra (mancata applicazione di una sia pur moderata imposizione sui grandi patrimoni e conseguenti aumenti di IVA ed accise, “salvataggio” dall’IMU della scuola privata, arretramenti nei confronti di singole categorie e professioni, rinunzia a ridurre drasticamente le spese militari, ritardi nel contenere i costi della politica), testimoniano i limiti insiti ad una maggioranza formata sui principali azionisti della repubblica bipolare, dei quali l’uno proclama la continuità con la precedente Amministrazione, e l’altro la discontinuità.
Se quindi il governo in carica va sostenuto nel necessario compito di puntellare la casa per evitare che questa crolli, tale sostegno non può significare che si debbano considerare gli attuali equilibri parlamentari come adeguati ad una ristrutturazione della casa che sia durevole e volta a renderla a lungo conforme alle necessità ed alle aspettative della maggior parte degli italiani.
Rifare l’Italia.
una vera maggioranza politica
A condurre in modo coerente e compiuto la ricostruzione e l’ammodernamento del Paese è necessario che questi siano guidati da una maggioranza politica reale e che non risenta dei limiti fisiologici di una maggioranza costruita sull’emergenza.
Definirne gli indirizzi, i metodi, i contenuti, la composizione, è la vera domanda alla quale gli italiani attendono una risposta chiara dalle prossime elezioni politiche.
Ove questa dovesse mancare o disperdersi nei tatticismi della politica italiana, il Paese vedrebbe il proprio futuro affidato non ad una democrazia autorevole, aperta, e partecipata, ma all’unica alternativa tra un’oligarchia tecnocratica ed il populismo; oggi, quindi, i partiti impiegherebbero più utilmente il loro tempo nel prepararla, rendendo così un servizio utile ai cittadini, che nello studiare il modo di salvare insieme la faccia ed il proprio potere con una finta e barocca riforma elettorale.
Ciò presuppone la capacità di misurarsi, invece che su tattiche rivolte ad assicurarsi prospettive, sui grandi temi dell’evoluzione del Paese, in rapporto ai quali produrre una classe dirigente capace di amministrare in modo rigoroso ed oculato, di assumersi responsabilità e di parlare chiaramente pur quando ciò possa risultare impopolare, poco gratificante, o poco produttivo di consenso. Dopo quasi venti anni di populismo demagogico e di comodo, che ha ampiamente contaminato anche le forze di opposizione, questo è il primo cambiamento oggi indispensabile: una classe dirigente è tale se è in grado di esprimere e dirigere indirizzi dichiarati, sui quali si può generare consenso o dissenso, ma riguardo ai quali non possono esser fatte concessioni alla demagogia o all’opportunismo.
per una “nuova frontiera”
Occorre una nuova maggioranza, che abbia la capacità, la statura, e la volontà di costruirsi nel proporre al Paese una sorta di “Nuova Frontiera” che indichi, accanto ai sacrifici necessari al non rinviabile risanamento, anche l’equa ripartizione dei relativi pesi e delle politiche di inclusione e tutela sociale, la rimozione dei privilegi corporativi, e quelle politiche di sviluppo, valorizzazione, liberazione delle energie e delle capacità italiane, che diano ai cittadini il senso dell’utilità e della condivisione dei loro sacrifici e la convinzione fondata di stare tutti operando per un futuro e per un’Italia migliori. Tali furono gli anni della ricostruzione dalle macerie della guerra: quelle attuali sono di diversa natura, ma pur sempre macerie da spalar via.
Nella necessità improrogabile di ridurre il peso del debito pubblico, e nella conseguente impossibilità di proseguire in usi della spesa pubblica poco accorti e distorsivi, ai quali per di più è seguito il venir meno di coesione territoriale e sociale, a maggior ragione a ripristinarle deve intervenire un’amministrazione oculata, nella quale il rigore sia criterio generale, e costi e benefici attengano strettamente a bisogni e necessità, funzionale alle priorità ed utilità del Paese, alle non più rinviabili esigenze di ammodernamento infrastrutturale, di sviluppo dell’istruzione pubblica e della ricerca, di protezione dell’ambiente e delle nostre città, di attenzione a meriti, capacità, e bisogni dei cittadini, di sviluppo di un’amministrazione efficiente.
assenza di moderne capacità riformatrici
In Italia manca oggi una forza riformatrice moderna ed in grado di affrontare in termini complessivi e congiunti i fattori del ritardo civile, sociale ed economico che ci separano dalle grandi democrazie.
Questa non può trovare corpo negli ideologismi di una sinistra massimalista.
Ma non per questo essa ha trovato sostanza adeguata nel formarsi di un PD costruito sul rapporto biunivoco tra gli epigoni della tecnocrazia popolare e di quella comunista, elidendo all’interno e tentando di cancellare all’esterno tutto quanto potesse disturbare tale rapporto; il cosiddetto nuovismo si è tradotto via-via nella cosiddetta vocazione maggioritaria, nell’uso fatto della pessima legge elettorale in vigore, in una concezione proprietaria nei confronti dell’opposizione, nelle posizioni vecchie e recenti sui sistemi elettorali europeo e nazionale, in comportamenti e linee troppo spesso contradditori. L’ampio astensionismo di sinistra, prima vittoria della destra, ne è stato la logica conseguenza politica.
Nelle vicende politiche dell’Italia repubblicana, la ricerca del rapporto tra cattolici intesi come categoria politica e comunisti, dapprima nel riconoscimento reciproco delle rispettive egemonie sui sistemi solari di cui erano il centro, e poi nel mito del loro incontro, è stato un ostacolo costante frapposto al confronto ed all’incontro riformatore tra le concezioni liberali e quelle socialiste, la cui ricerca è rimasta circoscritta a gruppi minoritari ed a intellettuali, ma la cui concretizzazione si è dovuta limitare alle grandi riforme sulle libertà individuali e sui diritti civili, una delle quali unisce i nomi del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini.
Nel prevalere degli opposti conformismi e di visioni consociative e corporative, il venir meno di tale confronto ha impedito di combattere i fattori di arretratezza e chiusura della politica e della società italiana; le divisioni di quella che un tempo si chiamava “area laica”, lungi dall’avvantaggiare qualcuno, hanno indebolito tutti; ne è stata conseguenza duratura ed evidente il prevalere dell’avversione ai metodi, concezioni e comportamenti propri di un liberalismo moderno e di un socialismo riformatore di stampo europeo, incompatibili con ogni razionalizzazione della società dettata da modelli tendenti ad evitare dinamismo, conflittualità ed apertura.
tra liberalismo e socialismo
A rendere compiutamente coerente una proposta riformatrice e di trasformazione del Paese che caratterizzi una nuova maggioranza che possa condurla, non può mancare la presenza ed il concorso di un’area politica connotata sulle potenzialità riformatrici ed innovatrici delle culture politiche a partire dalle quali si sono sviluppate le grandi democrazie dell’Occidente, e che hanno improntato il progresso e le conquiste di civiltà del mondo moderno: quella liberale e quella socialista.
Nel corso di due secoli di evoluzione dal primo parlamentarismo alla democrazia e di trasformazioni della società industriale, sono venute meno molte delle ragioni storiche che hanno determinato differenze che le hanno viste l’una propugnare l’idea del primato del mercato, l’altra l’idea di uno Stato onniregolatore, l’una il primato dell’azione individuale, l’altra di quella collettiva, per giungere ambedue, per vie diverse, a considerare inscindibili i criteri di libertà dell’individuo e di giustizia sociale insiti all’una ed all’altra.
Entrambe non hanno altro strumento e criterio che l’uso critico ed empirico della ragione umana, nella convinzione che i dogmi terreni ed ultraterreni non conducano ad altre conseguenze che ad illibertà ed ingiustizie. Esse convergono nella considerazione che una società aperta alla pluralità ed al conflitto di soggetti economici e politici individuali e collettivi sia condizione necessaria allo sviluppo economico ed al progresso civile e sociale. Entrambe sono aperte ad una visione non pessimista sulla possibilità di umanizzare ed aprire la società industriale, dove il pluralismo economico è una delle premesse di quello politico. Entrambe rifuggono le concezioni consociative ed assistenziali su cui è andato costruendosi il terreno di elisione delle conflittualità e di regolazione di tutti gli interessi che ha improntato la scena italiana. Entrambe confliggono con la concezione di uno Stato onnipotente, onnipresente ed onnisciente, e con l’idea di un mercato non controllato da regole pubbliche.
E nell’Italia di oggi, le gravi condizioni del Paese fanno sì che le responsabilità verso di esso e verso le proprie tradizioni e ruoli impongano alle forze di democrazia laica, liberale, socialista, la consapevolezza comune di dover insieme far sentire la loro voce, unendo all’affinità delle idee la comunanza di comportamenti e proposte: la difesa della democrazia liberale e della sua cornice istituzionale, il risanamento e la rimessa in movimento del Paese, il tradurre le istanze di libertà e di giustizia nella sostanza di adeguate politiche riformatrici, sono improrogabili e comuni esigenze.
“Spirito Libero, verso una Convenzione laico-liberale-socialista”
Proponendo, nel metodo di uno “Spirito Libero” ed in direzione di una Convenzione Nazionale laico-liberale-socialista, l’incontro della tradizione laica e democratica, della liberaldemocrazia, del socialismo riformatore, del liberalsocialismo, dei movimenti e dell’associazionismo per la tutela dei diritti e delle libertà civili, dell’ambientalismo non ideologico, si fonda la possibilità di costruire una forza modernizzatrice e riformatrice degna di questo nome, che si caratterizzi per l’attenzione concreta ai fatti dell’economia, del lavoro, dell’impresa, al progresso civile e sociale, ai diritti (ed ai doveri ad essi correlati) degli individui in ogni loro qualità, dei corpi intermedi della società, alla partecipazione democratica dei cittadini, assente dall’offerta politica che sinora è stata espressa.
Le radici culturali si trovano nel liberalismo come teoria critica ed empirica della realtà; nelle esperienze sociali del socialismo empirico, democratico, e riformista; nella tradizione del pensiero democratico.
Ne sono connotati e criteri di metodo l’imprescindibilità dei diritti umani nei loro aspetti individuali, civili, sociali, il diritto-dovere di tutti a dare alla società, ed a veder tutelato, il proprio apporto sotto le forme della cittadinanza, del lavoro, del sapere e dell’arte, del contributo economico, il diritto di tutti ad un’esistenza libera e decorosa, il pluralismo dei corpi intermedi della società e dei soggetti politici, economici, culturali, dell’informazione, della solidarietà, a loro volta plurali al loro interno, la concezione aperta e dinamica della società e dell’economia nel loro divenire, l’inclusione sociale e la protezione dal bisogno, la promozione del merito e dell’equità, la laicità, l’avversione a caste, monopoli e corporazioni, la concezione laica dello Stato di Diritto e quella di una democrazia rappresentativa indenne da tecnocrazia e populismo, la tutela delle differenze, il buon amministrare i beni pubblici, la visione europea, cosmopolita, non razziale.
Lo scopo è quello di assicurare a quest’area la presenza nel Paese e nel Parlamento, come forza politica autonoma anche da un punto di vista elettorale e quale che sia la futura e più o meno onesta legge che governerà le prossime elezioni, in rapporto di alleanza con le altre forze riformatrici, consci del fatto che la definitiva chiusura del ciclo berlusconiano non può passare né per una destra che, magari facendo a meno del suo artefice, si renda disponibile a riesumare l’alleanza con gli ex-alleati centristi, né per un centro che guardi indifferentemente o strumentalmente verso l’una o l’altra parte.
Costruire quest’area richiede un grande lavoro di elaborazione e di organizzazione politica, e non può limitarsi al tentativo di mettere insieme schegge di antichi partiti dell’area laica e socialista o alla somma di nostalgie e di metodi notabilari di lavoro politico: ne sono presupposti criteri di aggregazione innovativi, condotti con spirito aperto e rispettoso di individualità ed autonomie, verificati su convergenze, capacità e comportamenti dell’oggi e del domani, più che nel ricordo delle identità di ieri, e caratterizzati da un rapporto confederativo ed orizzontale, in termini politici ed in termini territoriali, che valorizzi i caratteri, le specificità di interessi e di campo di azione, le autonomie di tutti coloro che a titolo individuale o collettivo, contribuiscono a questo processo.
Vanno individuati nuovi metodi di lavoro politico, che partono dalla definizione e cultura, nella politica, nei corpi intermedi della società, e nel Paese, di ogni possibile convergenza ed iniziativa utile a portarle avanti. Questo manifesto ne è solo la preliminare anticipazione di indirizzi e metodi.
Roma, 22-03-2012
{ Pubblicato il: 31.03.2012 }