la lepre marzolina
Nessun commentoAvevamo appena dato notizia dei risultati definitivi a Milano quando un gentile lettore, E. M., ci ha scritto:
«Cara Lepre marzolina, questa volta hai preso lucciole per lanterne. Come fai a dare come certa la notizia della vittoria di Pisapia a Milano? Al massimo si possono fare delle previsioni e delle deduzioni. Certo, l'esercito berlusconiano è in rovinosa rotta, il capolista ha dimezzato i suoi voti, ormai - deriso da tutto il mondo - straparla a caso fino a sconfessare la sua stessa candidata. La quale replica rinnegando il suo partito. Non mi nascondo neppure che Moratti, dopo essersi dimostrata sleale e calunniatrice, è riuscita a fare ancora di peggio rivelando l’assenza anche solo di un filo di dignità personale, prima rifiutando il consiglio di devoti amici quali Ferrara e il Corrierone sulla necessità di porgere le scuse a Pisapia, per poi ripensarci su, solo dopo la sconfitta, dicendola lunga sulla sua confusione tra sincerità e opportunismo. Se si perde la dignità personale è facile dilagare oltre ogni limite. Si è arrivati così al punto finale del "berlusconismo come fase suprema del laurismo" e addirittura al ridicolo dei falsi periti che vanno a misurare terreni per false moschee, dimostrando quale disprezzo assoluto avesse la candidata per gli elettori.
Altresì, non è che non abbia notato come Bossi abbia esagerato nel continuare a dare pessima prova di sé pretendendo, tra una pernacchia e un rutto, di assommare ai nuovi carrozzoni clientelari regionali dei nuovi spezzoni di mangiatoie pubbliche. Il ministro Calderoli – innocente e ignorante come un pupo - non si è accorto nemmeno di aver dimostrato al mondo tutto di essere all'oscuro persino del significato della parola “rappresentanza”. Ma che si può pretendere di più dall’autore della Porcata? Che dire poi che il sedicente schieramento “moderato” annovera tra le sue fila un serbo massacratore di nome Borghezio? Non aiuta nemmeno lo spettacolo del nuovo governo Berlusconi-Scilipoti, la cui componente salvifica, quella dei Responsabili-Mercenari, si scanna quotidianamente in pubblico sulla spartizione della refurtiva. Riconosco che è plateale che siamo arrivati agli scampoli di fine stagione, alla disgregazione e al suicidio della più truffaldina e dilettantesca cricca di potere che si sia impossessata del nostro paese nell'ultimo mezzo secolo. (Ma stiamo attenti agli ultimi colpi di coda disperati, né torniamo a sottovalutare l’idiozia di quel Pd - e a Napoli anche dei vendoliani - che canta vittoria come se avesse vinto e non avesse invece visto proprio in queste elezioni la più severa bocciatura della sua strategia politica ed elettorale).
Mi rendo conto anche che dovrebbero provare un po' di imbarazzo coloro che per anni hanno sostenuto la tesi bislacca, da populismo demagogico grezzo grezzo, che il favore elettorale superasse la forma di Stato di diritto del costituzionalismo liberale e fosse una sorta di candeggina con la virtù miracolosa di ripulire le fedine penali e di trasformare i corruttori in perseguitati. Se fosse coerente con questa convinzione, ora Berlusconi dovrebbe riconoscere che al dimezzamento delle sue personali preferenze corrisponde il raddoppio delle sue responsabilità penali.
Cara Lepre marzolina, come vede, ho una visione chiara dell’abisso in cui ci hanno fatti precipitare. Ma tra ipotesi assai probabili di sconfitta e la certezza ce ne corre».
Gentile lettore E. M., lei ha perfettamente ragione: gli indizi, ancorché gravi, non costituiscono prova. Ma da parte nostra non c'è stata alcuna superficialità. Pisapia ha infatti vinto. Lo possiamo annunciare ancor prima che si aprano le urne perché in nostro possesso abbiamo la “prova regina”, quella che azzittisce tutti e assurge a prova incontrovertibile.
Ma facciamo qualche passo indietro. I liberaloidi costituiscono una specie solo italiana, che si fonda sulla regola ferrea di predicare le teorie generali delle liberalismo per poi genuflettersi per quasi vent'anni di fronte a un monopolista che faceva strame di ogni regola dello Stato di diritto. L’incaponimento, contro ogni evidenza, a non riconoscere i disastri che il berlusconismo provocava - e provoca - sul tessuto politico, sociale, etico e delle regole ha costituito (assieme all'opportunismo dei vari ex-piccisti D'Alema, Violante, Veltroni e Fassino) la più grave colpevole complicità con il Cavaliere, perché gli ha fornito una “copertura” ideologica e uno status di politico “normale”.
Adesso, con l'aiuto del mentore occulto della linea dei liberaloidi, Giuliano Ferrara, va per la maggiore (o andava fino a queste elezioni amministrative) una grande mitica favola che si può riassumere in quattro parole: Berlusconi era la grande “rivoluzione liberale”, ma i suoi alleati e certa sua inconcludenza gli hanno impedito di realizzare per quasi due decenni ciò che voleva con tutte le sue forze da statista illuminato: liberalizzare l'Italia, battere le corporazioni e santificare il libero mercato. Questa leggendaria vulgata, la si fa risalire a un imprecisato “spirito del ‘93”, che è un mito infantile cui si può credere solo per fede. Non esiste traccia non dico di provvedimenti ma anche solo di “annunzi” che non siano stati ispirati al più esasperato illiberalismo. Chi sostiene il valore del mito avrebbe il dovere di produrre documentazione. Va dato atto invece a Berlusconi d’essere stato chiaro fin dall'inizio e di aver mantenuto integralmente le sue promesse. Berlusconi nel ‘94 ebbe l’onestà di affermare: «Se non entro in politica, finisco in galera e fallisco per debiti». È solo questo “lo spirito del ’93-‘94”. Coerentemente B. non ha fatto altro. E infatti si è costruito le sue belle leggi personali per evitare la galera e ha moltiplicato il suo patrimonio, alla faccia anche di chi a bocca aperta e pancia piena credeva alla favole. I “liberali immaginari”, ovvero i liberaloidi, avrebbero avuto migliaia di occasioni per denunciare le violazioni continue di ogni elementare regoletta liberale. Invece hanno sopito, coperto, avallato, come veri compagni di merenda. Non hanno mai voluto riconoscere che in Italia si era creata una “anomalia” che distorceva sia i rapporti tra le forze politiche, e tra poteri dello Stato, sia la formazione dell'opinione pubblica informata. Pur di continuare a fiancheggiare hanno preferito fare la figura delle talpe. Qui mi piace ricordar loro soltanto il silenzio sulla riforma della successione testamentaria, che avrebbe provocato addirittura un malore a Luigi Einaudi. Ma gli Ostellino, i Panebianco, i Romano, giù giù fino ai Battista e ai Polito, avevano altro da fare. Con l'occhio fiso sul microscopio per denunciare qualunque minima pagliuzza degli avversari, non si accorgevano delle travi. Ora tutto ciò è finito. L'estrema difesa di Berlusconi, i liberaloidi l'hanno ingaggiata quando Fini ha rotto l'alleanza nel Polo e ha rivendicato un più o meno probabile tentativo di creare una destra non truffaldina. Quella è stata l'ultima vera cartina di tornasole: ma i liberaloidi hanno perduto anche quell’occasione e hanno continuato a fiancheggiare, con qualche timido distinguo, il Cavaliere e a ostentare un’enorme diffidenza verso la frattura finiana. Si sa, sono proprio i cortigiani ad accorgersi per ultimi dei sommovimenti. Poi gli scricchiolii sono diventati assordanti. E i liberaloidi corrono ai ripari. Ma in malo modo.
Commovente è in questi giorni Ostellino, che per non affrontare il nodo drammatico della politica liberale e della sostanza del berlusconismo ora al capolinea arriva addirittura a far suoi il linguaggio e i luoghi comuni del più banale marxismo. Da qui la conferma che il liberalismo, quando si immiserisce in un gretto e rampante economicismo, si ritrova assai prossimo, e con tutti i difetti, alla parte più caduca del pensiero comunista. Forse avremmo potuto leggere analisi simili su “Società” degli anni ‘50. Ma comprendo: il panico è il panico. Lo stesso Ostellino strafà e arriva a scrivere oggi che, per via delle tasse, «i cittadini, per ora, si limitano a far mancare il loro consenso elettorale ai candidati del centro-destra; in futuro potrebbero manifestare la loro rabbia con insurrezioni popolari». Davvero esagerato. Speriamo proprio di no, anche perché queste «insurrezioni popolari» non saprebbero distinguere tra i politici di regime e gli intellettuali loro complici. Certo, sembra replicare il mio gentile lettore E. M., il panico che porta all'esagerazione è un buon segnale, ma non è ancora la “prova regina”, ci vuole, cara Lepre marzolina, la certezza.
Vabbè, eccola qui. Il giorno 18 maggio è una data storica. Sul “Corriere della Sera” Pierluigi Battista firma il più vergognoso articolo giornalistico che sia apparso in tutti questi anni a favore di Berlusconi (a parte, è chiaro, la produzione degli impiegati del “Giornale” e di “Libero”, ma sono sicuro che nemmeno loro hanno il coraggio di considerarla ancora giornalistica). Anche qui il succo di Battista è spiegabile in poche righe: la sinistra sta vincendo e ora deve fare autocritica perché proprio le sue vittorie smontano di fatto tutte le accuse che sono state rivolte contro il “regime” che se riesce a perdere vuol dire che “regime” non è. Una frase per tutte: «Se si dice che le elezioni in Italia sono costitutivamente truccate per via del conflitto di interessi che grava su Berlusconi, bisogna spiegare come mai il trucco talvolta viene svelato e talvolta no». «Basta col vittimismo», invoca Battista. «Se si dice che non c'è più libertà democratica bisogna spiegare come è possibile vincere con i mezzi della democrazia». Altro che «emergenza democratica», viviamo in un paese che più normale non potrebbe essere. Addirittura le opposizioni possono vincere alcune elezioni: «L'Italia resta una democrazia normale dove si vince e si perde e se si perde la colpa è di chi ha perso e non del destino cinico e baro». «Come avviene in tutte le democrazie normali».
Solo in un paese retto da un barzellettiere scurrile si possono scrivere certe amenità senza doversene vergognare per il resto della vita. Infatti si alza un bambino dell'asilo e fa notare che alla sua età già sa che se si gioca con un baro patentato si ha meno possibilità di vincere, ma se per caso si vince non vuol dire che non è vero che il baro non è un baro ma solo che anche i bari possono perdere. Ma – continua a far notare il frequentatore dell’asilo – forse ha sempre più possibilità di vittoria chi gioca con cinque assi o con l'informazione televisiva in mano. Tanto è vero che il baro – infatti - se ne frega delle tesi del suo battista e gioca spregiudicatamente con tutti gli assi che ha tra le mani. Violando leggi e regolamenti. Se perde, non vuol dire che non c'è «anomalia democratica», ma solo che ha superato ogni limite di impudenza.Fin qui – si dirà - siamo nella norma. È il solito gioco della sfacciataggine logica di liberaloidi. Ma deve essere accaduto qualcosa di straordinariamente nuovo che è riuscito a rompere questa quiete così tipica di tutte le «democrazie normali».
Passano cinque giorni, cinque giorni soli, e Battista con un nuovo abito fiammante compie una vera rivoluzione copernicana e debutta con un violento attacco alla politica berlusconiana. Non quella degli ultimi giorni, ma quella di sempre. Il suo giudizio è senza appello: c'è stata «una lunga e inarrestabile mutazione genetica». I dirigenti pidiellini improvvisamente sono assimilati ai «papaveri della gerontocrazia castrista». «È stata posta con la cacciata di Fini una pietra tombale su ogni traccia di spirito liberale». Non ricordo di aver letto parole simili sul “Corriere” durante la crisi politica dell’estate scorsa. E poi ancora espressioni di fuoco contro “il federalismo fiscale”, contro «l'istituzione di Kommissioni [con il K, residuo di antichi passati giovanili] governative appositamente concepite per la censura preventiva dei libri scolastici». Voi non ci crederete, ma sono stati sufficienti cinque giorni per far accorgere a Battista che «il garantismo [berlusconiano] è solo per uno o per pochi che si stringono attorno all'uno». Perspicace. Battista è scatenato. Intuisce che «si è inabissata una politica estera di marca atlantista» e ricorda persino «la rilassata frequentazione di dittatori indicati come modelli positivi e affidabili partner». Tralasciamo gli ultimi ritagli, anche se alcuni sono proprio divertenti, però non possiamo non riportare l'ultima micidiale accusa contro colui che è sempre stato “il liberale normale normale”: «L’elettrizzante follia del “milione di posti di lavoro” si è deformata nella promessa di campi da golf a Lampedusa». «Altro che toni sbagliati», sentenzia severo Battista. Ci sono voluti ben cinque giorni per trasformare il “liberale normale normale” in quel pagliaccio che è sempre stato.
Ora, gentile lettore E. M., una confessione gliela devo proprio fare: è vero, non so ancora i risultati elettorali. Ma mi fido di Battista, che con certezza li conosce.
{ Pubblicato il: 29.05.2011 }