gim cassano
Nessun commentoDopo le vittorie al primo turno di Torino e Bologna, i candidati - sindaco del centrosinistra hanno vinto i ballottaggi, con scarti anche larghissimi, a Milano, Napoli, Trieste, Cagliari, Novara, Mantova, Pordenone, Grosseto, Crotone, e molte altre città. Questo è il dato complessivo di queste elezioni amministrative. E basterebbe questo a far considerare invertito un modello politico che vedeva il centrosinistra ridotto alla difesa dei resti del suo potere locale nelle tradizionali regioni rosse.
“Sono elezioni cittadine, ma forse sono ancor di più elezioni politiche nazionali”: così aveva sentenziato Berlusconi nel corso della campagna elettorale, ripetendo il gioco consueto e già altre volte riuscito della focalizzazione della campagna elettorale sulla sua persona. Il presunto padrone del paese, acciaccato dagli scandali, a capo di una maggioranza parlamentare traballante e puntellata dall’acquisto di personaggi usi al mercato di se stessi, cercava il rinnovo di un’investitura che gli consentisse di opporre il voto popolare al discredito che lo circonda in Italia ed all’estero, alle “trame” della magistratura, al rispetto dei limiti istituzionali, alla Presidenza della Repubblica, ed anche alle pretese della Lega. Il tutto, al fine di consentirgli vita tranquilla sul piano politico e giudiziario sino al termine della legislatura, onde poter portare a compimento riforme brandite come minacce nei confronti di chi gli si mette di traverso.
Se, già dopo il primo turno si era capito con chiarezza come gli italiani avessero con lucidità afferrato questo messaggio, rispondendo negativamente al plebiscito richiesto dal premier, i ballottaggi hanno confermato ed amplificato a dismisura questo dato. Un sonoro NO a Berlusconi ed alla sua idea del Paese ha accomunato, in tutte le aree geografiche, città tra loro diversissime per struttura economico-sociale, per dimensioni, per tradizioni e vicende politiche.
Questo è il primo e più evidente dato politico di queste elezioni, riguardo al quale c’è ben poco da aggiungere. Tranne un fatto significativo. La Lega, che pure aveva intuito dove si stesse andando a finire ed aveva preso le distanze dalle più evidenti forzature della berlusconizzazione della campagna elettorale, non ne esce affatto bene. Il voto di Torino, Milano, Novara, e di altre città del Nord leghista lo conferma. I suoi esponenti possono anche sbracciarsi ad affermare che, rispetto alle precedenti elezioni amministrative, i voti leghisti a Milano sono aumentati. Ma, rispetto al recente passato, sono invece diminuiti. Quella che alle ultime elezioni regionali era stata vista come un’ondata in continua crescita, a seguito della quale c’era la concreta possibilità di superare il PdL, si è smorzata. La capacità della Lega di attrarre elettorato di sinistra appare ridimensionata, e la mia impressione è che una parte dell’elettorato leghista inizi a stancarsi del populismo padano, della continua esasperazione di toni sui temi dell’immigrazione, e dell’appiattirsi a difesa delle esigenze del cavaliere. Ma soprattutto, ho l’impressione che stia iniziando a farsi strada il dubbio che il federalismo fiscale non sia affatto la panacea di tutti i mali, ivi compresi quelli del Nord. E che trovate ad effetto quale quella dei ministeri al Nord non abbiano né concretezza, né senso.
Passando a guardare le cose dalla parte dei vincitori, i ragionamenti devono farsi necessariamente più articolati: la vittoria è il risultato di fattori non tutti riconducibili ad un’unica origine.
Intanto, nel quadro di un generalizzato arretramento della destra dovuto essenzialmente ad una sua percezione negativa, per le ragioni qui sopra dette, appare evidente il successo di candidati “nuovi” ed atipici rispetto ai tradizionali apparati di partito. Se Fassino ha vinto al primo turno in quanto visto in diretta continuità con un’amministrazione considerata efficiente, Pisapia, De Magistris, Zedda, ed altri, hanno stravinto ai ballottaggi in quanto non sono stati visti dagli elettori come le espressioni di questa o di quella area o forza politica, ma come persone autonome e per bene, dotate della capacità di parlare alle loro città, cogliendone disagi ed esigenze profonde.
E’ evidente che ciascuno dei candidati ha la sua storia culturale e politica, ma è altrettanto evidente che il successo è stato determinato dalla capacità che questi candidati hanno avuto di rappresentare agli elettori istanze molto più vaste di quelle delle specifiche aree di appartenenza politica. Ad esempio, per Pisapia, quelle della tradizione municipale e riformista di una Milano aperta, colta, laica e tollerante, il cui senso della misura si è trovato a stridere con i bunga-bunga, le Minetti e con un’amministrazione incapace e sfacciatamente orientata al connubio tra politica, occupazione di ogni spazio di potere, e grandi interessi immobiliari. L’appello liberale per Pisapia, che ha visto convergere le adesioni di “veri” liberali, a prescindere dai loro attuali riferimenti politici (API, Radicali, PD, PSI, o nessuno), e dal fatto che abbiano sostenuto la candidatura di Pisapia alle primarie, al primo turno, od al ballottaggio, significa esattamente questo.
Analogamente, per quanto riguarda De Magistris, quella di una Napoli onesta alla ricerca di correttezza amministrativa e di legalità che voleva cambiar pagina senza per questo affidarsi ad una destra in rapporto di contiguità con ambienti più che sospetti. E che, dopo il tonfo delle primarie truccate, aveva affidato al primo turno la funzione di scegliere il candidato del centrosinistra.
Se quindi era giusto, durante la campagna elettorale, il respingere come pretestuose le accuse della destra a Pisapia o a De Magistris di essere espressione della sinistra estrema o del populismo giustizialista, sbaglia chi oggi, a vittoria conseguita, intenda targarne e sfruttarne i successi come propri, piegandone il significato a sostegno di una visione parziale del centrosinistra. L’intervento del Presidente della Regione Puglia in Piazza del Duomo a Milano, mentre ieri pomeriggio si festeggiava la vittoria di Pisapia, cioè del 55% dei milanesi, è apparso andare in questa direzione, traendo dalla vittoria di Milano (di Napoli non poteva, avendo SEL appoggiato Morcone) le motivazioni per rilanciare la propria candidatura alle primarie del centrosinistra, con toni ben diversi dallo stile col quale Giuliano Pisapia aveva lanciato a suo tempo la sua. Siamo così sicuri che questa sia la strada giusta da percorrere, e che non sia invece il caso di porsi prima il problema di consolidare il centrosinistra su un comune progetto e strategia?
In termini di valutazione politica interna al centrosinistra, non vi sono trionfatori. I voti di lista ottenuti dal PD, tranne che a Napoli, indicano un suo buon risultato, pur se le primarie (o il primo turno a Napoli) hanno bocciato i candidati designati da questo partito. Per contro, i risultati inferiori alle attese delle liste di SEL e IdV, che pure hanno espresso i candidati vincenti a Milano, Napoli, Cagliari, non legittimano nella maniera più assoluta l’affermazione fatta da alcuni che abbiano prevalso le spinte più radicali.
Quindi, se il netto NO a Berlusconi è chiaro a tutti, è molto meno facile dire quale o quali SI possano corrispondere a questo voto: se si vuole avere un minimo di onestà intellettuale, non è possibile stabilire quale “linea” del centrosinistra sia uscita vincente da queste elezioni. Ma è chiara una cosa: che il centrosinistra ha ottenuto i migliori risultati dove, a prescindere dalla provenienza politica dei singoli candidati, si sono impostate liste il più possibile aperte, campagne elettorali tendenti a parlare all’intera cittadinanza, e programmi di stampo più chiaramente riformista.
In quanto al Terzo Polo, i suoi risultati al primo turno sono stati più che modesti. Ovviamente, si è detto e si continuerà a dire che i loro voti sono serviti in diversi casi a mandare al ballottaggio i candidati della destra; ma se questa era l’intenzione e la funzione politica della loro presenza, perché non dichiarare ufficialmente l’appoggio ai candidati del centrosinistra in sede di ballottaggio? In realtà, il Terzo Polo deve ancora chiarirsi le idee sulla propria vocazione politica. Ma questo è un altro discorso.
Oggi il centrosinistra deve evitare il rischio di commettere l’errore capitale di ritenere, nel suo insieme, di aver già conseguito la vittoria sulla destra. Gli errori compiuti dopo la vittoria alle regionali del 2005, ridottasi un anno dopo a 24.000 voti di scarto, deve far riflettere. Se Berlusconi ha focalizzato su di sé queste elezioni, ricevendone un sonoro ceffone, non si può cogliere questo dato per quel che in effetti non è: si tratta di un voto ancora pre-politico, utilissimo e necessario, ma non del voto per un’ipotetica maggioranza di governo. Un voto che, preceduto dalla manifestazione del “Se non ora, quando?” delle donne italiane il 13 febbraio, e da quella dei precari il 9 aprile, ha iniziato a manifestare un mutamento del clima del Paese, la voglia di cambiamento, la razionale consapevolezza che così non si possa andare avanti. E’ uno stop chiarissimo all’idea della politica e della società che il berlusconismo rappresenta e, in questo senso, può essere l’inizio della fine di un’era, ma non sappiamo ancora a quale nuova era possa preludere.
Insieme alla soddisfazione per questo risultato, occorre essere ben consapevoli del fatto che, se si è vinta una battaglia, ancora non si è vinta la guerra di liberazione: il problema cruciale del centrosinistra, quello di conquistare la maggioranza politica del Paese su un voto “per” e non su un voto “contro”, resta aperto. Come un cancro con le sue metastasi, gli effetti del berlusconismo ormai pervadono profondamente il Paese: opportunismo, trasformismo, personalizzazione della politica, corporativismo territoriale e di casta si sono, in questi anni, fortemente radicati, anche in settori ed aree politiche che, per proprio DNA, avrebbero dovuto esserne esenti.
Il centrosinistra non può limitarsi ad indicare soluzioni tattiche alle difficoltà attuali: occorre che una sinistra in grado di interpretare la modernità sappia dare al Paese il senso della necessità e dell’utilità di un comune impegno per un’opera riformatrice e di ricostruzione, rivolta allo sviluppo civile, economico e sociale della nostra democrazia, ed improntata alla libertà, all’equità, alla coesione sociale e territoriale. Ed occorre che le forze che realmente intendono rimettere in movimento il Paese sappiano coalizzarsi e conquistarne il consenso su questa scommessa.
Una democrazia nella quale una parte risulti vincente per demeriti, indegnità od incapacità dell’altra, e non perchè la propria capacità di proposta venga ritenuta più adeguata di quella altrui, è una democrazia ammalata, che fatalmente involve verso la stagnazione, ed apre la strada al populismo o alla tecnocrazia. E’ quello che in Italia sta avvenendo dal 1994. Oggi, gli elettori hanno detto di NO a Berlusconi: occorre saper trasformare questa presa di coscienza in un SI ad un progetto ed a un’idea di società.
Per rendere possibile questa prospettiva, continuo a ritenere che, come si indicò nel 2008 nelle premesse alla costituzione di Alleanza Lib-Lab, sia necessaria la presenza nel centrosinistra di una forza politica autonoma e fondata sull’incontro “della tradizione laica e democratica, della liberaldemocrazia, del socialismo liberale”.
Oggi questa prospettiva è resa concretamente resa possibile dai rapporti che si sono stabiliti, e che si vanno consolidando, tra il PSI ed una parte del mondo liberale, laico e liberalsocialista che fa capo, appunto, ad Alleanza Lib-Lab, tra cui non pochi dei firmatari dell’appello liberale al voto per Pisapia. E’ questione di volerlo fare.
{ Pubblicato il: 01.06.2011 }