Gim Cassano
Nessun commentoIl responso dei Referendum è chiarissimo: la maggioranza assoluta degli italiani (il 54% degli aventi diritto, e quindi un numero tale da rendere impossibile l’accampare i consueti equivoci e giochi delle tre carte tra votanti, non votanti, astenuti, etc.) ha espresso un evidente NO su tre questioni determinanti nel qualificare le politiche berlusconiane dei tempi recenti e meno recenti.
Mettendo da parte tecnicismi e bizantinismi, è chiaro che gli italiani hanno letto nei quesiti loro sottoposti, più che gli aspetti tecnici e specifici, quattro domande su alcuni caratteri di fondo della trasformazione dell’Italia operata dal berlusconismo. Il quesito sul legittimo impedimento sottointendeva la richiesta di un giudizio sulla politica berlusconiana per una giustizia tagliata su misura; quello sul nucleare conteneva implicitamente la richiesta di un parere sui caratteri dello sviluppo industriale del Paese; ed i due quesiti sull’acqua, al di là della complessità di una proposta abrogativa a spezzoni, proponevano una valutazione sul ruolo delle municipalità e sulle privatizzazioni senza liberalizzazioni che caratterizzano il nostro sistema economico, anche se queste, occorre dirlo, non sono state inaugurate dal centro-destra.
In sostanza, il responso dei referendum conferma e rafforza quanto si era osservato a proposito delle recenti consultazioni amministrative: l’esito delle amministrative va letto come un secco NO, rivolto alla figura di un premier che aveva lui stesso monopolizzato il voto su di sé e radicalizzato il dibattito su temi per lui pressanti e per lui più usuali; e rivolto anche alle politiche amministrative della destra nel suo insieme, Lega compresa.
Il risultato dei Referendum, nella partecipazione e nel responso, amplifica in modo inequivocabile tale giudizio negativo, e lo estende alle scelte di fondo sulle quali il berlusconismo della decadenza intendeva indirizzare l’Italia.
Ma non si tratta solo di questo: la quantità dei SI presuppone il fatto che questa scelta abbia accomunato la quasi totalità del centrosinistra, buona parte dell’ormai tradizionale area dell’astensione, quasi tutto il centro, e pezzi più che significativi dell’elettorato di destra, e leghista in particolare. Ciò significa che oggi nel Paese esiste una maggioranza di cittadini, che in parte provengono dai settori di destra dello schieramento politico (ed ancora non è dato sapere se vi appartengano tuttora, o meno), e che comunque reclamano il diritto a dir la propria ed a partecipare, che non accettano di esser gabbati dai trucchi di chi aveva tentato di sottrarre loro il diritto di esprimersi per via di un provvedimento di rinvio dichiaratamente finalizzato all’unico scopo di tentare la cancellazione del quesito, che non accettano un’informazione carente o manipolata, che tra la mano pubblica e quella privata affidata agli amici degli amici, preferiscono la prima. In sostanza, che intendono essere, ed esser trattati, da cittadini e non da sudditi o da imbecilli.
Parte di questa “nuova” maggioranza di cittadini, di fronte ad un centrosinistra visto come incapace di innovazione, aveva a suo tempo ritenuto che da Berlusconi e dalla Lega potesse arrivare una risposta ai problemi del Paese in termini di lotta contro il burocratismo, il fiscalismo ed il centralismo, che il grande imbonitore era riuscito a far percepire come indissolubilamente connaturati alle politiche di centrosinistra.
Ma, quando è diventato evidente come la vera battaglia del berlusconismo era quella per fare a pezzi la democrazia rappresentativa e lo Stato di Diritto, affermando il cesarismo di un vecchio satrapo depravato, spergiuro e cinico, e come le politiche della destra andassero aggravando e non risolvendo i problemi del Paese il meccanismo del consenso si è inceppato.
Di fronte a questi risultati, non è sostenibile la tesi, espressa da diversi esponenti della destra, che gli stessi rappresentino una sconfitta per le posizioni riformiste e liberali. Si tratta di stabilire cosa debba intendersi per riformista e liberale, termini che in tutto il mondo implicano contenuti e comportamenti ben diversi da quelli loro assegnati da questa destra. E questa è una tesi non dissimile da quella di chi, a sinistra, dando un’interpretazione ideologica del voto referendario, tende ad appropriarsene per sostenere che la vittoria sia già conseguita, e solo sua.
Ora, sarebbe superficiale e frettoloso affermare che questo voto possa indicare il fatto che nel Paese esista una nuova maggioranza politica. Quale, e su quali indirizzi politici, quando questi sono tutti da costruire? Il voto delle Amministrative e le indicazioni dei Referendum sono messaggi importanti, ma vanno decrittati e tradotti nella proposta politica di un Centrosinistra che si impegni a guidare il Paese, che è ancora tutta da confezionare.
Ed occorre tener conto di un altro fatto significativo, cui sinora si è data ben poca evidenza. Cioè del fatto che questi voti, quello amministrativo di maggio, ed i referendum del 12 giugno, non sono arrivati improvvisi come temporali d’estate, e sono stati invece preceduti da due segnali importantissimi: il “Se non ora, quando?” delle donne del 13 febbraio, ed “Il nostro tempo è adesso” dei giovani e precari del 9 aprile.
Sono stati segnali che hanno indicato volontà di partecipazione e di mobilitazione nel seguire idee e concetti critici, pensieri, anche velleità, più che i volti di aspiranti leaders o le bandiere di partito, e che devono, soprattutto a sinistra, far pensare e far dare risposte moderne ed adeguate ai tempi. Giovani e donne hanno compreso come più di altri essi siano penalizzati da un’economia stagnante, da una società immobile, dal mancato riconoscimento di meriti e capacità, da una dimensione civile che tende a far prevalere privilegi, ruoli, consuetudini e diritti consolidati. Ed a queste consapevolezze, a queste realtà impreviste, non si riesce a dare risposte restando all’interno dei tradizionali riferimenti ideologici della sinistra italiana. Né si può rispondere fideisticamente che sia sufficiente realizzare il compimento del tramonto dell’età berlusconiana e l’apertura di un nuovo ciclo politico. Che è condizione necessaria, ma non di per sé sufficiente a rimettere in movimento, da tutti i punti di vista, il Paese.
Se il voto di maggio e di giugno indica uno spostamento a sinistra del baricentro del Paese, non si tratta ancora di uno spostamento politico: si tratta di una presa di coscienza ancora prepolitica, alla quale è necessario che le forze di centrosinistra sappiano dare risposta e sbocco in proposte politiche definite e coerenti.
La battaglia per un paese civile è tutt’altro che vinta, infatti. Il sultano è alla fine di un ciclo, e lo sa bene: conosce troppo bene vizi e virtù degli italiani per non rendersene conto. Ma cercherà in tutti i modi di ritardare e pilotare la transizione verso un berlusconismo senza Berlusconi, che si presenta oggi, in prospettiva, come l’unica prospettiva per alcuni, ed il rischio concreto per altri. Se ne vedono già le premesse negli atteggiamenti della Lega e nella cosiddetta Riforma Fiscale che Tremonti considera come un accettabile punto di incontro tra le esigenze di chi chiede di aprire comunque i cordoni della borsa e quelle del rispetto degli impegni europei (e che, negli effetti, prosegue una ormai tradizionale linea di iniquità fiscale, spostando il peso sui consumi e sulle detrazioni, sia pur in cambio dell’alleggerimento del prelievo sulle imprese e sulla rimodulazione delle aliquote).
Al più che probabile tentativo delle forze di destra, eventualmente cercando non improbabili alleanze centriste, di mantenere il controllo sul Paese attraverso un berlusconismo de-berlusconizzato, occorre rispondere con la capacità dell’intero centrosinistra di proporre al Paese politiche e proposte credibili e tali da ripristinare coesione sociale e territoriale e rimetterlo non solo in carreggiata, ma anche in movimento. La scarsa mobilità e l’eccessiva disparità sociale, la mortificazione del merito e delle capacità individuali, i pesi corporativi ed oligopolistici, i costi, le lentezze e le farragini burocratiche, l’iniquità fiscale, lo svilimento del lavoro produttivo e dell’impresa che adempie alle proprie responsabilità, sono altrettante sfide cui le forze democratiche, progressiste, riformatrici sono chiamate a dare una risposta.
Che non arriverà certo dai tentativi di appropriarsi del successo, nè dalla proposizione di alchimie, formule e relativi leaders, ma solo dalla capacità di adeguare contenuti, metodi e comportamenti a quanto gli italiani stanno cercando di far capire alla politica.
{ Pubblicato il: 17.06.2011 }