andrea cabassi
Nessun commentoRipensare l’eretico Gobetti, oggi, vuol dire vivificare il pensiero liberale, considerare tale pensiero attuale e capace di comprendere quanto sta accadendo nella modernità. Non un pensiero ottocentesco da gettare alle ortiche o scarto, bensì un corpus di riflessioni pieno di potenzialità. Leggere e rileggere Gobetti ci aiuta a gettare luce sulla contemporaneità ed anche sui profondi cambiamenti che stanno attraversando il nostro paese .
Ripensare Gobetti.
Piero Gobetti, l’eretico liberale, fu un liberale autentico. Molte sono state le polemiche sul suo pensiero, molte le critiche che sono state fatte alle sue idee. E’stato fatto passare per un criptocomunista o per uno stalinista. All’opposto Togliatti, subito dopo la Resistenza, ha tentato, opportunisticamente, di omologarlo al movimento operaio. Ma Gobetti è irriducibile a tutto ciò.
Gobetti fu un liberale autentico. Basterebbe leggere le numerose pagine che vi ha dedicato Norberto Bobbio. Nella prefazione al libro di Paolo Bagnoli (uno dei più acuti studiosi ed interpreti del pensiero gobettiano) “Gobetti” ( Passigli. 1984 ), Bobbio sostiene che Gobetti fu liberale. Se per liberalismo si intende una posizione filosofica dove è bandita ogni trascendenza, una posizione per la quale vi è netta separazione tra sfera religiosa e sfera politica ( il laicismo), una posizione per la quale il liberalismo coincide con l’economia di mercato, una posizione per cui lo Stato garantisce l’esercizio delle principali libertà civili, personali e politiche, allora Gobetti è un liberale autentico: perché è immanentista e idealista in filosofia, perché è laico nel sostenere i diritti dello Stato nei confronti della Chiesa, perché è liberista, anche se sui generis, in economia, perché è inflessibile difensore dei diritti dell’individuo contro ogni sorta di dispotismo.
Gobetti è un autentico liberale perché mette al centro del suo discorso il concetto di libertà. Non si tratta di un concetto astratto poiché la libertà è (crocianamente) incarnata nella Storia, è strettamente connessa alla cultura e la cultura è, per Gobetti, coscienza storica. Molti degli scritti di Gobetti dimostrano questi assunti: basti pensare ai suoi scritti sul Risorgimento, dove ripercorre le tappe della libertà e dell’eresia a partire dai primi moti sette-ottocentschi in Piemonte, che gli servono per comprendere l’avvento del fascismo come autobiografia della nazione.
Gobetti è un liberale autentico perché pensa alla libertà come ad un momento in cui ceti e classi entrano in conflitto. Il compromesso che ne verrà sarà l’avvento di nuove elites che si candideranno a diventare classe dirigente. Per questo egli sarà sempre violentemente antigiolittiano: Gobetti vede nel giolittismo, non il compromesso dovuto alla lotta, ma il compromesso in cui tutto si attenua, in cui le classi si ritrovano con le armi spuntate, in cui alla lotta si sostituisce la pubblica amministrazione. Il tipo di liberalismo che aborrisce
Gobetti vede nell’avvento del fascismo la fine di una democrazia conflittuale, la fine di ogni libertà, di ogni movimento della società e ne vede le cause remote nello sviluppo del Risorgimento in cui fu mancata la costruzione di una nazione e si costituì uno Stato senza nazione che non coinvolse le masse popolari nel su farsi. Visione ereticale del Risorgimento che è stata, da più parti, criticata. Vede nel fascismo un fenomeno di barbarie e di mancanza di “serietà” che percorre tutta la storia d’Italia ( la “autobiografia di una nazione”, appunto, che lo storico Emilio Gentile, in un libro recente, ( “Italia senza padri”. Laterza 2011) ha tacciato essere una trovata giornalistica, mentre era il frutto di uno studio approfondito sul Risorgimento)
Se si parte dal presupposto che il liberalismo è libertà e che la libertà è libero gioco di realtà, di ceti, di classi confliggenti, risulta evidente come per Gobetti sia importante una visone di 360° delle realtà emergenti dalla storia e come sia importante, per lui che viveva a Torino, per lui che vedeva la grande espansione che la FIAT aveva avuto negli ultimi anni, la nascita e lo sviluppo di un movimento operaio all’avanguardia, con le sue rivendicazioni, con la costituzione dei consigli di fabbrica. Egli vede in questa impetuosa crescita del movimento operaio torinese e nelle sue lotte un movimento autonomo. Un movimento autonomo dai partiti tradizionali dei quali diffida. Vede in questo movimento autonomo la nascita di una nuova classe dirigente. Una classe dirigente che mette al centro dei suoi interessi e delle sue idee il lavoro, una classe dirigente seria che ha i tratti di quel protestantesimo che era sempre mancato nella storia della cultura italiana. Vede in questo movimento operaio, in questa potenziale nuova classe dirigente quella religione civile di cui, come popolo, siamo sempre stati carenti. Una lettura che, paradossalmente, è vicina a quella dei “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri, ma che se ne allontana per i suoi esiti finali. Poiché, a dispetto degli italici sedicenti liberali che scrivono sulle righe del “Corriere” come Piero Ostellino o su quelle de “La Stampa” come Battista, Gobetti rimase sempre un liberale, anche se eretico.
Le elites del movimento operaio sarebbero state la classe dirigente che avrebbe avuto il compito, con strati della borghesia industriale, di dare piena attuazione al taylorismo, di razionalizzare il lavoro di fabbrica, di rendere consapevole la borghesia dei suoi compiti storici. A riprova basta rileggere, con la dovuta attenzione, quella parte di “La rivoluzione liberale” dedicata ai rapporti tra classe operaia e borghesia( Pagg. 146-150 Einaudi, 1964). Un esito che, alla lunga, mi ricorda l’attuale cogestione delle aziende in Germania.
Snodo cruciale del pensiero di Gobetti è il rapporto tra libertà e avvento di una nuova classe dirigente. L’avvento di una nuova classe dirigente è possibile solo nella libertà. Il fascismo ha reso impossibile tale dialettica tra libertà e democrazia conflittuale. Per questo , e, come dicevo più sopra, per la sua mancanza di serietà, esso va combattuto con intransigenza. Solo nel confronto, anche molto duro, può nascere una nuova classe dirigente, una elite. Ma una volta che una elite si afferma non resterà per sempre al potere. Non c’ nulla di statico in Gobetti. Tutto è movimento. Tanto che si può trovare equivalenza tra movimento e concezione dello Stato. È lo stesso movimento che, per certi versi, si fa statuale.
Le minoranze attive hanno il compito fondamentale di riconoscere le nuove classi le cui elites si possono candidare ad essere classe dirigente. Di riconoscere, di stimolare, di allearsi perché sono le minoranze che hanno questo compito storico. E “la Rivoluzione liberale” come rivista ed i suoi gruppi hanno una funzione propulsiva in questa ottica. Tali gruppi, con un forte afflato etico, dovrebbero saldarsi alle forze autonome che salgono dal basso. Il 2 Dicembre 1924, anno dell’assassinio Matteotti, su “Rivoluzione liberale” esce l’appello per la costituzione dei “Gruppi di Rivoluzione Liberale”: “Queste organizzazioni devono formarsi nel modo più rapido possibile: in settimana noi vorremmo che tutti gli amici che sono in grado di costituire un gruppo nelle loro città ci scrivessero perché ci sia possibile metterli in comunicazione con gli altri amici nostri del luogo”. La sintesi programmatica: i gruppi devono essere incentrati sulla “irreducibile ripugnanza al fascismo e al mussolinismo da un lato, e formazione di una classe proletaria politicamente intransigente”.
I gruppi si formarono in molte città ma non riuscirono a celebrare il loro congresso nazionale nel novembre 1925 come era stato previsto. Non sappiamo cosa sarebbe accaduto se questo si fosse verificato. Sarebbe nato un nuovo partito politico? Di sicuro i gruppi ebbero vita difficile e non riuscirono a diventare una incisiva realtà politica: precari i collegamenti tra i gruppi. Differenziate le aree politiche. Se il congresso fosse stato celebrato i “Gruppi di Rivoluzione liberale” avrebbero potuto diventare l’embrione di quello che sarà, poi, il Partito d’Azione?
Da quanto detto emerge una contraddizione che non è solo di Gobetti e che, forse, non è risolvibile: il rapporto tra minoranze e autonomia. Esso è, per molti versi, simile al rapporto che si instaura tra un certo tipo di giacobinismo e lo spontaneismo delle masse. Dicotomia che si trascina anche in GL e, soprattutto, nel Partito d’Azione dove l’autonomia è uno dei punti di forza del programma del partito. Ma a propagandarla è un piccolo partito, anche se formato dalle migliori intelligenze del Paese
Ripensare Gobetti oggi.
Ripensare Gobetti oggi significa considerarlo un pensatore ancora attuale che può darci indicazioni importanti sulla realtà politica contemporanea.
Ripensare Gobetti oggi significa porsi il problema fondamentale della selezione di una nuova classe dirigente e le sue riflessioni possono illuminarci non solo nella teoria, ma anche nella prassi.
Ripensare Gobetti oggi significa fare un parallelo con il passato. Ai tempi di Gobetti erano Mussolini e il mussolinismo a bloccare la dialettica della libertà. In questi anni sono stati Berlusconi e il berlusconismo anche se con modalità completamente diverse. Il monopolio di giornali, televisioni, editoria, la scelta di programmi ad hoc che sono serviti ad anestetizzare le coscienze hanno, se non bloccato, completamente deviato quella che ho chiamato la dialettica della libertà. I continui voti di fiducia hanno esautorato il Parlamento dalle sue funzioni. L’attacco sempre più violento contro la Costituzione è stato un continuo slittamento della democrazia fino ad arrivare agli avventuristi approdi del golpismo. Per un lungo periodo abbiamo assistito ad un tentativo di bloccare la circolazione delle idee, di criminalizzare il confronto e la conflittualità che stanno a fondamento del pensiero gobettiano.
Tutto questo, se si aggiunge alla nota autoreferenzialità della classe dirigente italica, ha impedito che emergessero nuove elites, ha impedito che fossero “colte” da uno sguardo acuto come poteva essere quello di Gobetti, anche a causa della naturale “distrazione” che sembra insita nel DNA dei nostri intellettuali.
Pare che le cose siano cambiate con le ultime elezioni amministrative. Ma gli esiti delle ultime elezioni amministrative non sortiscono, come per magia, dal cilindro di un prestigiatore. E’ necessario andare alle manifestazioni delle donne del 13 febbraio, alle continue manifestazioni in difesa della Costituzione, alle manifestazioni dei precari. Tutto questo movimento ha prodotto gli smottamenti che hanno portato ai risultati elettorali che conosciamo. E’ accaduto altro di molto importante che Nadia Urbinati ha ben descritto nel suo articolo su “Repubblica” del 2 Giugno intitolato “La TV del potere sconfitta dal voto”: con l’avvento della Tv via cavo, con lo sviluppo sempre più intenso della rete, con l’utilizzo di Facebook si è sgretolato il dominio del duopolio (che, poi, è un monopolio) Rai, Mediaset. Non solo. Dal libero confronto avvenuto sulla rete sono nati gruppi, movimenti, attive minoranze che dal virtuale sono diventate reali, fatte di uomini e donne veri che hanno riempito le piazze, che hanno fato sentire le loro voci. Poco alla volta, attraverso questi strumenti, si sta selezionando una classe dirigente che può pressare i partiti tradizionali, che può condizionarne le decisioni. Le stesse primarie, con tutti i limiti che esse hanno, contribuiscono al confronto, al conflitto sano, a quella democrazia conflittuale di cui Gobetti era fautore. Non è un caso che siano stati eletti sindaci uomini come Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, De Magistris a Napoli. Essi vanno oltre i partiti tradizionali che li hanno appoggiati. Senza farsi troppe illusioni, come era accaduto all’epoca della “Primavera dei sindaci”, credo che questi uomini, queste donne siano il risultato della selezione di quelle elites che devono costituire la nuova classe dirigente e che Gobetti avrebbe visto con simpatia.
Ai tempi di Gobetti egli vedeva le elites nascere dal movimento operaio di Torino. Erano i tempi del fordismo dove fondante era la contraddizione capitale/lavoro. Nelle società post/fordiste dove tutto è disseminato, dove la rete ha assunto una importanza sempre più grande, dove la borghesia produttiva sta avendo fenomeni di forte scomposizione e ricomposizione, necessariamente, la selezione di una nuova classe dirigente deve avvenire per canali nuovi e diversi. Ciò non toglie che il liberal-libertario Gobetti avesse colto con grande profondità quale era uno degli endemici problemi dell’Italia e che oggi esprimerebbe soddisfazione a vedere questa nuova classe dirigente, ancora in fieri, ancora in maturazione. E che le consiglierebbe di non disperdere il suo patrimonio in sterili giochi di palazzo e nel desiderio, a stento trattenuto-se trattenuto- di mettere il cappello alle vittorie elettorali.
In tutto questo il liberalismo eretico di Piero Gobetti ha ancora molto da insegnarci e farci capire.
{ Pubblicato il: 21.06.2011 }