andrea cabassi
Nessun commentoSulla mailing list del Circolo Rosselli di Milano si è, recentemente, svolto un dibattito, spesso aspro e polemico riguardo lo status del liberalsocialismo, sulla sua attualità, se non si tratti di un termine obsoleto, se si debba parlare solo di socialismo senza aggettivazioni, su come mai solo in Italia si parli di liberalsocialismo.
Sono stati riportati anche gli appunti di un convegno che si svolse a Genova nel 2007 e che porta il titolo: “Lo spartiacque tra liberalsocialismo e liberismo” e che avrebbe dovuto dare indicazioni precise su quale avrebbe dovuto essere stato lo spartiacque.
Non avendo potuto leggere gli atti al completo non posso esprimere una opinione compiuta. La mia sensazione è che sia fuorviante tracciare uno spartiacque tra liberalsocialismo e liberismo e non affrontare, nelle loro complessità, i rapporti tra liberalismo e socialismo. La mia impressione è che ci sia ancora molto da dire e da studiare su questo tema. Come faceva giustamente notare Gim Cassano, in un suo intervento nella medesima mailing list, non dobbiamo cedere alla tentazione di considerare liberalismo e socialismo sistemi chiusi. Dobbiamo vederli come sistemi aperti e sempre in grado di autocorreggersi. Il confronto può essere serrato, ma deve essere un confronto ideale, sulle prassi, sui programmi. Non ha nessun senso cadere nella sterile polemica o nella falsificazione dei dati storici..
Fatta questa premessa vorrei spendere una parola sul fatto che solo in Italia è esistito ed esiste il liberalsocialismo. Ci si stupisce di questo perché nel resto d’ Europa si parla di socialismo tout court, di socialdemocrazia, di laburismo. Io credo che il termine e le teorie liberalsocialiste rappresentino una ricchezza per il pensiero politico italiano e che esse nascano da pensatori eretici, fuori dagli schemi, come furono Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Guido Dorso, Calogero e Capitini per citarne solo alcuni: sarà la loro riflessione, insieme a quella di tanti altri e ad altri filoni di pensiero, a portare alla nascita del Partito d’Azione.
Cercherò di addentrarmi, ora, in alcune questioni che la teoria e la prassi liberalsocialiste sollevano senza avere la pretesa di dire qualcosa di nuovo, ma con il desiderio di mettere in fila alcuni nodi che devono essere affrontati e, possibilmente, sciolti. Per farlo affronterò sinteticamente i cambiamenti che si sono verificati con l’avvento della società post/fordista e la globalizzazione ed utilizzerò, per un maggior approfondimento, il bel libro di Giovanni la Torre “La comoda menzogna” (ed. Dedalo. 2011)
Ripartirò, però, ancora una volta, da Gobetti scusandomi se citerò alcune cose da me già scritte recentemente su questo sito.
Breve excursus su Piero Gobetti.
Credo che sia necessario partire da Gobetti, l’eretico Gobetti che pubblicò nel 1924 su “Rivoluzione liberale” un articolo di Carlo Rosselli che si intitolava “Liberalismo socialista” (C, Rosselli:“Liberalismo socialista” in “Rivoluzione Liberale”. A3, n.29, 1924), l’eretico Gobetti che, proprio per la sua eresia, non è stato considerato paradigmatico per lo studio del pensiero liberale. Al contrario, io credo la sua eresia dimostri tutte le potenzialità del liberalismo e dimostri quali possano essere gli agganci con il socialismo.
Gobetti, quel Gobetti che ci si è, troppo spesso, sforzati, in buona e malafede, di espungere dalla tradizione liberale e considerarlo altro da essa, è un eretico liberale, ma pur sempre liberale.
Scrivevo in “Ripensare Gobetti”: “ Gobetti fu un liberale autentico. Basterebbe leggere le numerose pagine che vi ha dedicato Norberto Bobbio. Nella prefazione al libro di Paolo Bagnoli (uno dei più acuti studiosi ed interpreti del pensiero gobettiano) “Gobetti” ( Passigli. 1984 ), Bobbio sostiene che Gobetti fu liberale. Se per liberalismo si intende una posizione filosofica dove è bandita ogni trascendenza, una posizione per la quale vi è netta separazione tra sfera religiosa e sfera politica ( il laicismo), una posizione per la quale il liberalismo coincide con l’economia di mercato, una posizione per cui lo Stato garantisce l’esercizio delle principali libertà civili, personali e politiche, allora Gobetti è un liberale autentico: perché è immanentista e idealista in filosofia, perché è laico nel sostenere i diritti dello Stato nei confronti della Chiesa, perché è liberista, anche se sui generis, in economia, perché è inflessibile difensore dei diritti dell’individuo contro ogni sorta di dispotismo”.(www.spazioliblab.it/p=2903 ; www.criticaliberale.it/news13695 ).
E in: “Perché non possiamo non dirci gobettiani”riprendevo una definizione di Umberto Morra: “Umberto Morra di Lavriano amico e biografo di Gobetti e che scrisse una delle rare biografie (“Vita di Gobetti” Utet 1984) del liberale torinese, purtroppo lasciata a metà per la morte sopraggiunta improvvisa, diede questa calzante definizione del liberalismo di Gobetti: “L’aggettivo “liberale” nel linguaggio gobettiano vuol dire propriamente “liberato” o “liberantesi”, non è mai una posizione di fatto ma una aspirazione, una spinta. Sta a significare l’esigenza che qualcosa, qualcuno “si liberi” di continuo, che il processo si rinnovi sempre, che scaturiscano in perpetuo forze nuove, e tale è il moto eroico che egli intende abbia la storia, la storia che gli è cara e di cui è direttamente parte”. (U. Morra, “Il messaggio di Piero Gobetti”, Roma, Associazione per la libertà della cultura. 1952. pag. 17). (www.spazioliblab.it/?p=2955).
Recentemente è apparso su “Critica liberale” (www.criticaliberale.it/news 14597) un articolo di Livio Ghersi dal titolo “La democrazia in Val di Susa” che affronta il problema della Tav, ma che esula dalle tematiche che si vogliono affrontare in questo scritto. Tuttavia è interessante ed importante notare come anche Ghersi, sui temi della democrazia, citi Piero Gobetti. L’autore dell’articolo afferma: “ Come scriveva Piero Gobetti (anche lui torinese): “Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà ed unanimità: il vizio storico della nostra formazione politica consisterebbe nell ‘incapacità di pesare le sfumature e di conservare nelle posizioni contraddittorie un’onesta intransigenza suggerita dal senso che le antitesi sono necessarie e la lotta le coordina invece che sopprimerle”. Signori della Destra, continuate pure a baloccarvi con la formula della “Rivoluzione Liberale” e noi vi continueremo a ricordare che quella formula fu inventata da Gobetti, martire antifascista, liberale amico di Antonio Gramsci”.
A queste citazioni vorrei aggiungere due osservazioni per fare un quadro più completo della complessità e della modernità del pensiero di Gobetti..
La prima: Gobetti si definiva liberista, come Einaudi, che considerava un maestro. Ma il liberismo di Gobetti deve essere declinato molto diversamente dal neoliberismo attuale. Il liberismo di Gobetti aveva una funzione propulsiva, si contrapponeva al protezionismo giolittiano, era la risposta ai dazi doganali che, ad esempio, avevano provocato una profonda crisi in Sardegna impedendo a quella regione il libero scambio con altri paesi come la Francia.
La seconda: nella riflessione di Gobetti e nel suo scambio con Gramsci emerge una diagnosi molto pessimista sulla borghesia italiana e sulla sua abdicazione ad essere classe dirigente. Secondo Gobetti solo pochi industriali non avevano abdicato a questo ruolo e avevano assunto le loro responsabilità. Egli, poi, vedeva nella classe operaia di Torino, con la sua autonomia, nella sua serietà al lavoro che gli ricordava quella Riforma Protestante che l’Italia non aveva mai avuto, la nuova élite, quella élite che avrebbe potuto farsi classe dirigente e con gli industriali più avanzati avrebbe potuto portare avanti un ammodernamento della fabbrica che, per quei tempi, avrebbe significato l’attuazione piena del taylorismo.
Postfordismo, crisi globale, liberalsocialismo
Gobetti non poteva prevedere che il capitalismo sarebbe mutato radicalmente, non poteva prevedere che ci sarebbe stato il radicale passaggio dal fordismo ( a Ford, per altro, aveva dedicato un bel saggio in “Rivoluzione Liberale”: “Ford” in “Rivoluzione Liberale”, A4. n. 10, 1925) al postfordismo, non poteva prevedere l’avvento della globalizzazione che avrebbe scompaginato tutte le carte in tavola. Tuttavia il suo pensiero rimane attualissimo e tenterò, più avanti, di dimostrare il perché.
Gli anni che vanno dagli 80 ad oggi hanno rappresentato un cambiamento epocale nella ristrutturazione del mondo capitalistico. Hanno visto sorgere, svilupparsi ed affermarsi una società post/industriale complessa. Hanno visto affiorare e consolidarsi conflitti inediti che non possono più essere circoscritti a quello tra capitale e lavoro che ha caratterizzato il fordismo. Questo tipo di società ad alta complessità è attraversata da nuovi ed altri conflitti di cui si avvertivano le prime timide avvisaglie negli anni 80 e 90. Proverò ad elencarne qualcuno scusandomi per la schematicità e per le eventuali omissioni.
Esiste un conflitto tra produzione e finanza che si traduce, spesso, in una trasformazione del profitto non in nuovi investimenti, ma in investimento finanziario del profitto. Il sociologo Marco Revelli, nel suo libro “Poveri, noi” ( ed. Einaudi 2010), mette in evidenza come questa trasformazione abbia favorito le aziende e non i lavoratori poiché ,ad un forte aumento dei profitti, non è corrisposto un aumento dei redditi da lavoro. Inoltre investire in finanza non ha prodotto occupazione, ricerca, innovazione. Da qui un altro conflitto: quello tra capitale/lavoro/conoscenza.
Fenomeno tipico della società in cui stiamo vivendo è quello dell’esternalizzazione, dell’outsourcing La grande impresa delocalizza alcune delle sue attività in luoghi dove la manodopera costa meno, dove , in altri termini, il costo del lavoro è più basso. Questo spostamento sposta, anche il conflitto che può scaricarsi tra coloro che lavorano nell’impresa madre e coloro che lavorano nelle aziende delocalizzate.
Esiste un conflitto tra la piccola e grande impresa. La territorializzazione e il localismo diventano la difesa della piccola impresa che deve, comunque, fare i conti con la globalizzazione poiché, senza accedere al mercato globale, la piccola azienda rischia il fallimento.
Esiste un conflitto lavoro autonomo/lavoro dipendente, lavoro materiale/lavoro immateriale.
Il passaggio dal fordismo al post/fordismo ha significato tutto questo. In tale passaggio nuove classi -ma la parola classe può risultare obsoleta- nuovi ceti sono comparsi sulla scena del mondo economico: quello delle partite Iva, quello delle microimprese, quello che rappresenta il lavoro autonomo, quello del lavoro immateriale che, secondo Revelli, trova, ora, la sua rappresentanza nel movimento di Beppe Grillo. Ci troviamo a doverci confrontare con classi emergenti, nuovi ceti, nuove povertà, nuovi conflitti disseminati nei gangli più disparati della società.
La comparsa di nuovi ceti e classi ci deve far riflettere se esistano ancora le classi come le pensavamo in passato perché quando il conflitto capitale/lavoro non è più centrale ( pur essendo ancora presente) il senso del capitalismo, della fabbrica e della vita in fabbrica muta: la fabbrica non è più il luogo unico in cui borghesia e classe operaia si confrontano, non esistono più solo classe operaia e borghesia che si fronteggiano, c’è un disseminarsi di luoghi di conflitto che esce dai muri perimetrati della fabbrica ,vi è una scomposizione tale per cui si può parlare di operai, ma non di classe operaia, non vi è più il senso di una appartenenza condivisa con altri per mancanza di quella prossimità che si attuava in fabbrica, ma una atomizzazione che ha condotto a privilegiare battaglie per i diritti individuali e a mettere in secondo piano quelle per i diritti sociali, che ha condotto a percepire il sindacato come qualcosa di lontano, impossibilitato a comprendere le nuove esigenze, le nuove dinamiche economiche.
Questi cambiamenti radicali rappresentano un vero e proprio mutamento antropologico nella vita dei cittadini .una vera e propria “Apocalisse culturale” nel senso che dava al termine l’etnologo Ernesto De Martino: spaesamento, mancanza di rifermenti precisi e solidi, crollo di un mondo di certezze, con tutte le ricadute sul piano psicologico e sociale a cui tale apocalissi può portare.
E’ all’interno di questi cambiamenti del mondo capitalistico che si è avuta la crisi globale culminata nel 2009, che è lungi dall’essere terminata e che sta, ancora, colpendo diversi paesi.
Questa crisi, con le diverse interpretazioni che ad essa è stata data, è ben descritta d Giovanni la Torre nel libro “La comoda menzogna” (op. cit).
L’autore passa in rassegna le posizioni di diversi economisti: quelli che incolpano la finanza della grande crisi, gli iperliberisti e coloro che ritengono che la crisi sia stata il frutto di problematiche a livello economico di cui la crisi finanziaria è stata solo la conseguenza. La Torre appartiene a questo ultimo gruppo e fa spesso riferimento ad un documento redatto nel 2009 con il titolo “Le vie di uscita dalla crisi e la costruzione di un mondo più coeso”( reperibile su: www.sbilanciamento.info) da un gruppo di economisti di tutto il mondo autodenominatosi Shadow GN, con il coordinamento del premio Nobel 2001 Joseph Stiglitz. e dell’economista francese Jean Paul Fitoussi. Documento poco noto, non pubblicizzato.
Secondo l’autore le radici della crisi vanno ricercate nella crisi di sovrapproduzione che si determinò negli USA a ridosso della crisi petrolifera degli anni 70 e delle politiche neoliberiste attuate dalla Thatcher e da Reagan negli anni 80. La crisi di sovrapproduzione rimanda alla scarsità della capacità di acquisto che, a sua volta, rimanda ai problemi della redistribuzione del reddito. Problemi di redistribuzione che emersero quando la Thatchter e Reagan attuarono politiche che favorivano i profitti e attaccavano in modo violento i redditi da lavoro provocando un impoverimento delle classi medio basse. Come già fatto notare da Revelli, in tutto questo lungo periodo, i redditi da lavoro si spostarono sui profitti, i salari crebbero meno dei profitti. Non solo: “E’ appena il caso di osservare che quando si parla di spostamento dei redditi dal lavoro ai profitti non si fa solo riferimento a quello che è accaduto all’interno delle imprese dove i salari sono cresciuti meno dei profitti, cosa che senz’altro è avvenuta,ma anche a modi diversi di organizzare in generale l’attività d’impresa, modi che hanno contribuito anch’essi a mortificare il lavoro. Prendiamo per esempio i call center. Un volta i “telefonisti”erano all’interno delle stesse aziende e prendevano un salario come gli altri. Oggi invece le imprese con le stesse cifre pagano un’altra impresa che organizza degli “schiavi” cui vengono corrisposti salari da fame e la differenza viene incamerata dai titolari come “profitti” (G, La Torre op..cit. pag 134).
Aggiungerei a quanto descritto così bene e vivacemente da La Torre che esiste un problema che riguarda il precariato. Anche i precari possono accedere al consumo limitatamente e quando possono. Il precariato è una condizione non solo umana, ma psicologica e antropologica. E’ capitale umano lasciato a sé stesso, è capitale umano che può essere soggetto a profonde crisi depressive, è sperpero di capacità, è, per usare il termine di Ernesto De Martino, già utilizzato in precedenza, crisi della presenza che significa crisi di significato nel proprio essere nel mondo.
Secondo La Torre a globalizzazione ha favorito l’umiliazione e la sottomissione dei percettori di reddito da lavoro ( che era la politica della Thatcher e di Reagan) attraverso la minaccia dell’outsourcing, a cui si è fatto cenno precedentemente, cioè lo spostamento della produzione in luoghi dove il costo del lavoro è più basso.
La Torre è anche molto duro rispetto alla flessibilità: “ Visto come sono andate le cose, viene ad essere smentita anche una delle giustificazioni, la più forte, che veniva data per rendere flessibile il lavoro. E cioè che essa avrebbe consentito un uso più efficiente delle risorse attraverso una maggiore innovazione del capitale e delle tecnologie. Tutto questo non è avvenuto. Le imprese hanno preferito sfruttare il ribasso verificatosi nel costo del lavoro per indirizzarsi verso produzioni a maggior intensità di lavoro”. (op. cit. pagg. 145-46). E poco più oltre “ …la stessa liberalizzazione dei movimenti dei capitali, l’altra grande novità degli ultimi decenni, ha imposto ai paesi sviluppati una forte moderazione salariale onde evitare che i capitali fuggissero all’estero. Contemporaneamente a questo i profitti continuavano a crescere (ibidem. pag. 146).
Secondo l’autore la grande crisi finanziaria è intervenuta, negli USA, dopo quella economica quando le famiglie, per mantenere il proprio status, hanno cominciato ad indebitarsi ed i prestiti venivano elargiti a tutti, anche a coloro che si sapeva che non avrebbero mai potuto pagare il loro debito. Scrive: “ … l’economia mondiale, e soprattutto quella americana, versava da tempo in una situazione di sovrapproduzione, o di sottoconsumo, a causa delle variazioni intervenute nella distribuzione dei redditi a favore delle classi ricche e a scapito dei ceti medi e bassi. Questa situazione è stata nascosta per un certo periodo proprio dall’espansione dell’indebitamento privato, di cui i cosiddetti mutui subprime sono una categoria, ma si è alfine conclamata nel momento in cui detti debiti hanno dovuto essere rimborsati, facendo emergere la limitatezza dei redditi dei ceti che li avevano contratti; il fatto che la crisi di domanda fosse stata nascosta dall’indebitamento e che poi vi sia stata la crisi di questo, ha dato l’impressione che l’indebitamento stesso e l’eccessiva finanza fossero la vera causa della crisi. La finanza invece ha solo nascosto una crisi che era già nei fatti, consentendo all’economia di continuare a crescere attraverso il sostegno dei consumi che senza i debiti sarebbero crollati da tempo ( op. cit. pag. 129).
L’analisi è chiara e stringente.
La Torre arriva, poi, ad analizzare uno dei nodi fondamentali del discorso che, qui, si vuole affrontare: il rapporto tra democrazia e mercato. La Torre fa proprie le riflessioni di Fitoussi, pubblicate in alcuni articoli sul quotidiano “La Repubblica”. Sostiene La Torre che “ la caratteristica del capitalismo che gli ha consentito di sopravvivere tanto tempo è proprio quella di aver saputo sempre trovare una via di mezzo tra le esigenze del mercato e quelle dell’eguaglianza. E tutto questo è stato assicurato grazie alla “democrazia”. L’economia deve accettare di nuovo di sottomettersi alla democrazia. Democrazia e mercato devono essere considerate due entità complementari e non conflittuali. Infatti “impedendo al mercato di generare esclusione, la democrazia rafforza la legittimità del sistema economico; e il mercato favorisce l’adesione alla democrazia limitando l’incidenza del politico sulla vita del cittadino” ( op. cit. pag. 138. Le parti virgolettate dall’autore si riferiscono a JP Fitoussi. “Se torna l’etica nel capitalismo”, “la Repubblica, 23 Febbraio 2009).
Nel documento degli economisti coordinati da Stiglitz e Fitoussi essi propongono: 1) di instaurare una progressività delle imposte soprattutto per i redditi molto alti; 2) una lotta incessante ai paradisi fiscali; 3) cooperazione tra gli stati per impedire la competizione fiscale; 4) rinforzare l’intervento pubblico; 5) ridefinire il sistema di Welfare per condurlo ad una funzione redistributiva.
L’analisi di La Torre, il rapporto stretto tra democrazia e mercato, le proposte degli economisti coordinati da Stiglitz e Fitoussi non hanno nulla a che fare con il liberalsocialismo? Possono essere sussunte da una teoria e da una prassi liberalsocialista luogo dove il mercato permane, ma deve fare i conti con la democrazia e con la redistribuzione del reddito. Si tratta di una prassi socialista, laburista, liberale, liberalsocialista?
Dilemmi gobettiani, dilemmi liberalsocialisti.
Ritorniamo per un attimo a Gobetti. Umberto Morra definiva il liberalismo di Gobetti come qualcosa di “liberantesi”, come una espansione sempre maggiore della libertà: una libertà che, espandendosi, sarebbe entrata in conflitto con la libertà di altri ed avrebbe portato al conflitto, ad una democrazia conflittuale dalla quale doveva nascere la nuova classe dirigente, una classe dirigente all’altezza della nazione. Che ancora non era apparsa all’orizzonte.
Caliamo questi dilemmi nella attuale società globalizzata, postfordista, dove l’outsourcing è, ormai, diventata prassi comune, dove il conflitto capitale/lavoro non è più centrale, ma il conflitto è disseminato nei vari gangli della società.
La prima e fondamentale dicotomia è come conciliare la libertà d’impresa con i diritti dei lavoratori. La libertà della delocalizzazione per diminuire il costo del lavoro è una scelta che va in corto circuito con i diritti sociali e che porta a sfruttare chi è più debole sul mercato.
I profitti, che sono aumentati molto più dei salari negli ultimi anni, perché i redditi da lavoro sono stati attaccati fortemente a partire dagli anni 80 dalle politiche della Thatcher e di Reagan, non sono stati utilizzati per l’innovazione e nuovi investimenti produttivi, ma nella finanza. Ancora una volta come è possibile conciliare profitti e salari, mercato e redistribuzione del reddito sapendo che la redistribuzione del reddito è la via maestra per un aumento della domanda, per una crescita dei consumi?
Cosa possiamo fare perché democrazia e mercato stringano una alleanza forte ed agile ad un tempo?
Come liberalsocialista, che crede alle analisi di Gobetti, come devo pormi di fronte ad un capitalismo come quello italiano che no ha mai brillato per innovazione e tecnologie, come devo pormi di fronte ad una classe imprenditoriale che non ha saputo farsi classe dirigente (come non lo è, di certo, la classe politica che ci troviamo ad aver oggi in Italia) e dove non esiste più quella classe operaia che poteva essere l élite auspicata da Gobetti perché oggi esistono gli operai, ma non la classe operaia nel momento in cui tutto si è disseminato, non esiste più la fabbrica come luogo centrale di elaborazione teorico- politica e di conflitto.
Io penso che, da liberalsocialisti, dobbiamo porci questo problema, lavorare per la formazione di una nuova classe dirigente, ma dobbiamo soprattutto “entrare” nelle dicotomie che ho elencato precedentemente per cercare di scioglierne i nodi in modo pragmatico e senza essere accecati dalle ideologie.
Ribadisco che condivido in pieno quello che afferma Gim Cassano quando sostiene che liberalismo e socialismo non devono essere considerati sistemi chiusi. Non sappiamo dove stiamo andando e non possiamo prevederlo, la società è sempre più frammentata, ipotizzare una società futura è impossibile e, forse, sbagliato. Né il liberalismo, per la sua stessa natura, né il socialismo possono ambire a sintesi definitive. Credo che sia necessario muoversi affrontando i problemi che si presentano in modo concreto, ma sforzandoci di coniugare e mai abdicare ad una società in cui ci sia sempre più giustizia, sempre più libertà. Ed è quello che non sta avvenendo, in questi giorni con la discussione e l’approvazione della manovra finanziaria in Parlamento, manovra che va nell’opposta direzione di quella indicata da Cassano nel suo puntuale scritto: “ Manovra, riforma fiscale e sinistra” (http://www.spazioliblab.it/?p=2960).
da spazioliblab.it 15-07-2011
{ Pubblicato il: 16.07.2011 }