Fondazione Critica Liberale   'Passans, cette terre est libre' - Abbiamo scelto come logo la fotografia d'un autentico 'Albero della Libertà ancora vivente. È un olmo che fu piantato nel 1799 dai rivoluzionari della Repubblica Partenopea, Luigi Rossi e Gregorio Mattei, a Montepaone Superiore, paese dello Jonio catanzarese. La scritta &lequo;passans ecc.» era qualche volta posta sotto gli 'Alberi della Libertà' in Francia.
 
Direttore: Enzo Marzo

Dal 1969 la voce del pensiero laico e liberale italiano e della tradizione politica che difende e afferma le libertà, l'equità, i diritti, il conflitto.

"Critica liberale" segue il filo rosso che tiene assieme protagonisti come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini ed Ernesto Rossi, Einaudi e il "Mondo" di Pannunzio, gli "azionisti" e Bobbio.

volume XXIV, n.232 estate 2017

territorio senza governo - l'agenda urbana che non c'è

INDICE

taccuino
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67. paolo bagnoli, la nostra preoccupazione
68. coordinamento democrazia costituzionale, appello alla mobilitazione per una legge elettorale conforme alla Costituzione
106. comitati unitari per il NO al “rosatellum”, l’imbroglio degli imbrogli
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territorio senza governo
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69. giovanni vetritto, l’italia del “non governo” locale
73. pierfranco pellizzetti, alla ricerca del civismo perduto
79. antonio calafati, le periferie delle metropoli italiane
84. paolo pileri, molta retorica, pochi fatti
86. giovanni vetritto, post-marxisti inutili
88. valerio pocar, primo comandamento: cementificare
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astrolabio
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89. riccardo mastrorillo, finanziare sì, ma come?
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GLI STATI UNITI D'EUROPA
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93. sarah lenderes-valenti, la risorsa più grande
94. luigi somma, le democrazie invisibili
97. claudio maretto, la discontinuità paga
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castigat ridendo mores
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100. elio rindone, basta con l’onestà!
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l'osservatore laico
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103. carla corsetti, il principio di laicità
107. gaetano salvemini, abolire il concordato
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terrorismo e religione
109. pierfranco pellizzetti, jihad combattuta alla john wayne
114. alessandro cavalli,quattro cerchi
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lo spaccio delle idee
117. gianmarco pondrano altavilla, cari liberisti, chi conosce un buon medium?
118. luca tedesco, savoia o borbone? lo storico è un apolide
119. gaetano pecora, ernesto rossi, “pazzo malinconico”
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78.92.102. spilli de la lepre marzolina
116. la lepre marzolina, di maio ’o statista
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Critica liberale può essere acquistata anche on line attraverso il sito delle Edizioni Dedalo con transazione crittografata e protetta.
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* Hanno fatto parte del Comitato di Presidenza Onoraria: Norberto Bobbio (Presidente), Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Giancarlo Lunati, Italo Mereu, Federico Orlando, Claudio Pavone, Alessandro Pizzorusso, Stefano Rodotà, Paolo Sylos Labini. Ne ha fatto parte anche Alessandro Roncaglia, dal 9/2014 al 12/2016.
 
05.02.2018

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Lo spazio dei lettori.
Eventi, segnalazioni, convegni...

la politica dell'incultura e lo spirito dogmatico

valerio pocar

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E' stata recentemente ripubblicata, a distanza di più di mezzo secolo dalla prima edizione, l'opera di Renato Treves Spirito critico e spirito dogmatico. Il ruolo critico dell'intellettuale[1]. Non intendo qui farne la recensione, sia perché le recensioni implicano giudizi e mi risulta particolarmente difficile valutare il lavoro di chi mi è stato maestro senza evitare la tentazione agiografica sia perché ottime recensioni, sotto diversi profili, sono già i saggi che accompagnano la nuova edizione del volumetto[2]. Senza contare che il volume raccoglie saggi che non concernono materie nella quali mi sento sicuro nel dire: Treves è stato certamente un maestro tanto della sociologia quanto della filosofia e della sociologia del diritto, ma questi suoi saggi toccano temi piuttosto di filosofia della scienza o, meglio ancora, di filosofia e sociologia della conoscenza, di filosofia e sociologia del sapere.

Qui vorrei, allora, solamente svolgere alcune riflessioni rispetto al presente, suggerite da un lavoro che nasce dal passato, un passato, sembra di poter dire, capace di ripresentarsi sotto nuove vesti, anche se, per non smentire la vecchia barba di Treviri (Trèves, già), non privo, nel suo ripresentarsi, di aspetti grotteschi e farseschi.

Parlando del ruolo dell'intellettuale Renato Treves si rivolgeva anzitutto ai "chierici", agli intellettuali per professione, agli universitari, ma non solamente a loro. Il suo ammonimento suona di particolare significato in questo volger di tempo, quando il ruolo stesso della professione dell'intellettuale sembra essere sotto attacco e ancor più sminuita appare la sua funzione di formazione delle nuove generazioni, intellettuali e non solo. Ci tocca di costatare l'affermarsi della politica dell'incultura, che si esprime anzitutto nelle scelte governative, ma risponde anche a un andazzo più generale. In particolare, la penalizzazione della scuola pubblica, a ogni livello, dalle materne all'università, rivela una diffusa suggestione di un "pensiero unico" che mostra i tratti di un “neofascismo” (non sono ancora riuscito a "sdoganare" né la parola né il fatto) strisciante. I tagli dei bilanci universitari, che si riflettono in primo luogo sulla riduzione dei fondi per la ricerca, non soltanto la rendono difficile o impossibile, ma ne minano soprattutto la libertà. Le problematiche che ancora Treves sollevava mezzo secolo fa, nella introduzione al volume da lui curato Sociologi e centri di potere in Italia (1962), si ripresentano ora, aggravate dalla politica dell’incultura. Se penso alla mia generazione, posso riconoscere ch'essa ha fatto ricerca con fondi pubblici e liberi, magari pochi, ma liberi. Ma, come ricorda lo stesso Treves,

“oggi, in determinati campi del sapere (e forse non soltanto in quello delle ricerche fisiche e nucleari) molti di coloro che vogliono sviluppare delle indagini e far conoscere i risultati delle medesime debbono disporre di mezzi tali che possono essere forniti loro soltanto dalla stato, da forti gruppi monopolistici o in genere da enti che, il più delle volte, esigono degli impegni che non rispondono al reale sentimento di coloro che ricorrono al loro aiuto, ma solo al particolare e ben calcolato interessi di quegli enti (p. 47).

La ricerca, sia nelle scienze umane sia nelle scienze "dure", si va privatizzando e fatalmente non sarà né libera né libera di esprimersi, perché non soltanto mancheranno i fondi per ricercare, ma anche i fondi per rendere pubblici i risultati della ricerca. Si tratta di due facce della stessa medaglia che Treves mette, ben a ragione, sullo stesso piano, come due elementi imprescindibili della libertà di pensiero e di ricerca.

Quando manca il diritto dell'uomo alla conoscenza per l'imposizione dogmatica di certe determinate verità, viene a mancare anche il diritto al libero uso di essa in quanto l'uomo non può più esprimere e comunicare le proprie conoscenze e molto spesso viene a trovarsi di fronte all'alternativa di dover scegliere tra la menzogna, che è un'espressione diversa dal pensiero, e il silenzio, che è un pensiero privo di espressione. Quando manca il diritto dell'uomo alla libera espressione della conoscenza, viene a mancare inevitabilmente anche il diritto alla conoscenza in quanto viene abbandonata la regola che rende possibile la comunicazione e il confronto dell'esperienza nostra con l'esperienza altrui e in quanto lo spirito critico, in un clima di silenzio e di menzogna, finisce sempre con l'essere sopraffatto dallo spirito dogmatico (p. 40).

La tendenza che segnalo ha come effetto, in primo luogo, l'inaridimento della ricerca pubblica, che è poi quella di qualità. Non possiamo dimenticare che il risultato delle tante valutazioni fatte in merito alla bontà della ricerca e dei centri di ricerca è sempre stato, nonostante che si sia fatto uso di metodi di valutazione spesso anche molto diversi fra loro (qualche volta anche inappropriati se non anzi cervellotici, come l'abuso dell'impact factor), che il pubblico batte di gran lunga il privato: la ragione c'è e consiste proprio nella libertà della ricerca.

Questa tendenza si rivela, poi, particolarmente insidiosa, perché mina non soltanto la libertà, ma anche lo "spirito" d'indipendenza del ricercatore, specialmente nella prospettiva del prossimo futuro. Quanto ai tagli dei fondi alla scuola, non c'è bisogno di argomentare, ma per ciò che concerne i tagli dei fondi all'università occorre tener conto anzitutto dello scarto generazionale e del venir meno della continuità delle "scuole", la cui esistenza può talora presentare modesti aspetti patologici (molto meno diffusi di quanto non si voglia pretestuosamente far sembrare), ma costituisce anche uno strumento insostituibile di formazione e di trasmissione del sapere. La mia generazione, quella che ha avuto la fortuna di trovarsi allieva di maestri come Renato Treves, la generazione che, per limitarmi alla mia disciplina, ha diffuso, dato corpo e istituzionalizzato la sociologia del diritto, è ormai in scadenza per ragioni di età, scadenza oltretutto anticipata da scelte non sempre chiare e spesso improvvide dei ministri di turno. A fronte dei moltissimi giovani e giovanissimi che vorrebbero accedere all'attività di ricerca e per merito dovrebbero accedere od uscire dal precariato, la generazione intermedia è scarsa, secondo una distribuzione a forma di clessidra. Non voglio escludere responsabilità dei miei coetanei e magari anche di me stesso, ma non è possibile non rilevare una diffusa scarsità di attenzione nei riguardi dei più giovani studiosi, dei quali non sempre viene fomentata l'autonomia oltre che il rigore, col rischio che essi tendano appunto ad adeguarsi alle richieste del contesto che li circonda e magari li opprime. La battaglia che i giovani studiosi vanno conducendo, purtroppo con successi inversamente proporzionali al loro impegno e al loro disagio, è semplicemente giusta.

In questo contesto, però, è agevole comprendere le ragioni della tendenza, in mancanza di maestri veri vicini, ad adottarne di lontani e quindi ad aderire a mode del pensiero, vale a dire a "maestri" di comprovata capacità rassicurativa e assicurativa. Tendenza certo non nuova e, per ciò che riguarda la mia disciplina, chi non ricorda il rifarsi a Parsons e al neomarxismo negli anni ’60, poi nei decenni a seguire a Luhmann, a Foucault..., grandi classici contemporanei che qui non sono in quanto tali in discussione, ma l'insegnamento dei quali non viene usato in modo critico, ma piuttosto esegetico, fino alla noia. Vero è che, per riprendere l’esempio della mia disciplina, si può sempre ricorrere al paracadute della ricerca empirica, fine sovente, però, a sé stessa, quasi che l’aggettivo giustifichi e possa legittimare qualsivoglia indagine, sia sotto il profilo della sua rilevanza e della sua utilità sia sotto quello del suo rigore metodologico[3]. Ci sono state, probabilmente, carenze nostre nel formare i giovani e forse talora i più giovani non hanno avuto la forza e il coraggio di ribellarsi e di formarsi con spirito di autonomia e così non è stato fomentato lo "spirito critico", anima della libera ricerca. Ma certamente i giovani - e di ciò si tratta - non sono stati né saranno favoriti dalle scelte di "politica culturale" dell'incultura.

Fermo restando che concordiamo, come ci pare ovvio, sulla necessità che la persona di cultura aderisca alla prospettiva dello spirito critico, credo però che meriti di approfondire piuttosto l’analisi dello spirito dogmatico, che non è solo l’oggetto specifico del saggio di Treves sulle origini e le motivazioni del fenomeno fascista.

Lo spirito critico è definito con chiara e semplice sintesi[4], caratteristica dello stile espositivo di Treves:

E intendiamo qui per spirito critico quello spirito che conduce l'uomo di scienza e di cultura a respingere, da un lato, ogni verità dogmaticamente imposta, ogni affermazione arbitraria, ogni conclusione precipitata e che lo conduce, dall'altro, a non considerare mai come definitivi e inconfutabili i risultati della proprie ricerche rimanendo sempre disposto ad accogliere ogni critica e ogni teoria diversa dalla propria quando sia solidamente fondata e rigorosamente dimostrata (p 39).

Treves non dà, invece, una definizione esplicita dello spirito dogmatico, che possiamo però, immaginando ch'esso rappresenti il contrario dello spirito critico, ricavare rivoltando la definizione di quella: “e intendiamo qui per spirito dogmatico quello spirito che conduce l'uomo [di scienza e di cultura] ad accogliere, da un lato, una verità dogmaticamente imposta, affermazioni arbitrarie, conclusioni precipitate e che lo conduce, dall'altro, a considerare sempre come definitivi e inconfutabili i risultati delle proprie ricerche rimanendo sempre ostile ad ogni critica e ogni teoria diversa dalla propria, nonostante che sia solidamente fondata e rigorosamente dimostrata”.

Dunque, lo “spirito dogmatico” non è solamente quello che ispira coloro che credono nei dogmi, ma è molto di più e di peggio. Il fenomeno più da temere, infatti, è che così

si è formato e si è subito rapidamente diffuso un tipo psicologico di uomo nuovo, il tipo di uomo massa che Ortega ha descritto con tratti incisivi. E' questo, egli dice, l'uomo soddisfatto di sé, che non cerca di migliorare perché si ritiene perfetto, è l'uomo che non ha dubbi perché "ha le idee più tassative su tutto quanto avviene e deve avvenire nell'universo", è l'uomo che non ascolta gli altri perché crede di sapere tutto quanto gli occorre ed è soprattutto l'uomo che "non vuole dar ragione e non vuol neppure aver ragione e che si dimostra solamente deciso a imporre le proprie opinioni (p. 44).

Non è questa la perfetta descrizione del tipo antropologico frutto dell’instupidimento televisivo e dell’impoverimento comunicativo che contraddistingue buona parte della nostra società? e anzi addirittura dello stesso prototipo del modello che le appiattite comunicazioni di massa propongono e col quale il suddetto tipo antropologico tende a immedesimarsi, pronto a incensarlo, ad onta di qualsivoglia argomento di valore o di fatto recato a confutazione?

Del resto, non si cerca di procedere ora, tramite l’impoverimento della ricerca e dei luoghi di formazione dell’opinione, a un’opera di asservimento del pensiero e soprattutto di coloro che avrebbero il dovere di pensare con tecniche non troppo dissimili da quelle che Treves denuncia esaminando il fenomeno del fascismo? Certo non c’è più il Tribunale Speciale (che, anzi, non si vorrebbe più alcun tribunale affatto!) e i nomi delle cose sono cambiati, ma, insieme al coma dell’università pubblica prossimo venturo, troppi sono i servi di regime, transfughi dalle loro idee non certo per ribellioni di coscienza e ripensamenti intellettuali, ma proni alle

... singole verità affermate dogmaticamente dal fascismo: l'infallibilità del capo, l'eticità dello stato, la natura corporativa dell'uomo ... i mezzi con cui queste verità (che erano semplici miti) sono state diffuse e inculcato nello spirito delle masse: la stampa e la radio controllata, il ministero della cultura popolare, i corsi di preparazione politica, la scuola di mistica. Quando questi mezzi di diffusione e di propaganda si dimostravano insufficienti come avveniva nei casi in cui dovevano applicarsi non più alle masse, ma alle élites, più resistenti per loro natura ad accogliere i miti e più gelose del loro diritto a ricercare autonomamente la verità, il regime italiano ricorreva poi, come è noto, ad altri mezzi più atti ad impedire l'esercizio di questo diritto: si pensi, da un lato, alle lusinghe e alle promesse di ricompense e di onori che poteva indurre gli ambiziosi alla menzogna e si pensi, dall'altro, al boicottaggio sociale ed economico, al confino di polizia, alle condanne del tribunale speciale che poteva ridurre al silenzio anche gli spirito più ribelli (p. 45).

Come osserva Treves con riferimento al passato, ma con sguardo preveggente verso il futuro, non soltanto

si può constatare come oggi, in molti paesi, gli stessi regimi liberali e democratici che rifuggono dai sistemi repressivi usati dalla dittature … si vedono costretti ad usare dei sistemi di diffusione organizzata e insistente delle proprie idee e delle proprie opinioni che sono sostanzialmente analoghi a quelli usati dalle dittature (p.47),

ma, ciò che più da vicino ci riguarda,

si può facilmente constatare come oggi, nei paesi retti da istituzioni liberali e democratiche, gli uomini di cultura e di scienza, se non si trovano costretti ad accettare e a diffondere una verità imposta, come avviene sotto le dittature, si trovano però molto spesso sottoposti ad un rigoroso controllo di atti e comportamenti che li conduce a prendere degli atteggiamenti e a fare delle pubbliche dichiarazioni in difesa della libertà che dovrebbero essere del tutto fuori luogo in paesi retti da quelle istituzioni (p. 47).

Ed eccoci qui, appunto, a dire che lo svuotamento dell’università pubblica presenta anzitutto precisamente questo rischio.

Insomma, il messaggio di Renato Treves riguarda da vicino la condizione dell’intellettuale di oggi, se crediamo che l’attività intellettuale non possa rinunciare al pensiero critico e possa o, meglio, debba avere una funzione critica. Le sue parole sono un invito

rivolto a tutti gli uomini di scienza e di cultura perché si rendano conto dell'importanza e del peso delle proprie responsabilità. S tratta di un richiamo rivolto a questi uomini affinché non dimentichino che la regola del proprio lavoro (che li conduce a respingere ogni affermazione arbitraria e dogmatica, che li obbliga a confrontare e a controllare i risultati delle proprie esperienze e che esige da loro e dagli altri una perfetta coerenza fra il pensiero e la sua espressione), non è soltanto una regola della scienza e della cultura, ma è anche una regola della vita sociale e politica la quale deve essere estesa il più possibile e deve diventare il patrimonio comune di tutti.  E per questa ragione, gli uomini di scienza e di cultura, come depositari di questa regola che, come sappiamo, è la regola dello spirito critico, hanno il dovere indefettibile di osservarla rigorosamente e di far di tutto perché venga rigorosamente rispettata dagli altri. L'intellettuale che, per vanità o per debolezza di carattere, accetta e diffonde una verità soltanto perché gli è imposta da una chiesa, da uno stato, da un partito o da una classe, abbandona questa regola e tradisce la scienza e la cultura (pp.49 sg).

La ricerca e l’attività intellettuale, fondate sullo spirito critico, non possono - sembra ovvio - non ispirarsi al relativismo e al prospettivismo, i quali però non vanno intesi nel significato, riduttivo e volgare, d' indifferenza morale e intellettuale, significato che certe gerarchie cattoliche vanno continuamente proponendo per negare il loro valore e il loro senso, metodologico ed etico, di rifiuto attivo dello spirito dogmatico che li ispira.

Ora, ritornando di proposito su questo punto, e cioè sul significato morale e sociale dello spirito critico, mi pare che sia opportuno di prevenire ancora una grave obiezione che può essere sollevata contro il principio affermato dalla Columbia University [5] così come lo abbiamo interpretato. Si può cioè obiettare che respingendo, come qui facciamo, ogni verità definitiva ed assoluta ed affermando la provvisorietà e la discutibilità di ogni conoscenza, ci salviamo, evidentemente, dai gravi pericoli del dogmatismo, dell'assolutismo e dell'intolleranza, ma non ci salviamo dai pericoli non meno gravi dello scetticismo, del disorientamento e dell'inerzia. A questa obiezione si può però facilmente rispondere rilevando che, con l'escludere la possibilità di una verità assoluta e con l'affermare  la provvisorietà e la discutibilità di tutte le concezioni, non si afferma, come farebbe lo scettico, che a nessuna di queste concezioni si può legittimamente applicare un giudizio di verità, ma si afferma sostanzialmente il contrario: si afferma cioè che, per quanto riguarda la verità, tutte le concezioni hanno il loro valore e la loro importanza perché tutte riflettono determinati punti di vista e particolari esperienze di vita e si avverte che esse cadono in errore soltanto quando pretendono di essere le uniche vere. Come lo spirito critico non conduce necessariamente allo scetticismo, così esso non conduce neppure al disorientamento e all'inerzia. Chi nega ogni possibilità di affermare una verità, sia essa teoretica o pratica, non diversamente da chi ne accetta una definitiva e dogmaticamente imposta, può forse rimanere inerte perché può giudicare inutile ogni sforzo proteso verso una verità che è irraggiungibile o che ci è già completamente rivelata. Chi al contrario non nega la verità, ma ritiene che questa verità non sia mai definitiva e si riveli sempre in forma provvisoria nella discussione e nella reciproca comprensione, non può invece rimanere inerte e deve continuamente agire partecipando alla discussione e promuovendo la comprensione (pp. 40 sg).

La ricerca e l’attività intellettuale - questo il messaggio - non soltanto si fondano sullo spirito critico, ma debbono contrastare attivamente lo spirito dogmatico, assumendosi un ruolo (politico, certo: della politica della cultura) di critica della società. Il messaggio di Treves, essenzialmente metodologico, riveste dunque anche un significato politico e, di conseguenza, anche pedagogico (del resto, esistono discorsi metodologici che non siano anche pedagogici e quindi anche politici?)

Vorrei sottolineare, infine, ancora un aspetto che rivela la capacità di prevedere gli sviluppi delle cose, che tanto ha caratterizzato il ruolo di animatore culturale svolto, come da pochi altri, da Treves. Nell’ottica relativistica e prospettivistica possiamo, invero, trovare la chiave di lettura di problemi del presente e anche una chiave per la loro soluzione, in una con la soluzione dei problemi e dei rischi sopra descritti: alludo alla dimensione internazionale, per sé stessa relativa e prospettica. Renato Treves è stato ben definito “cittadino del mondo” e tale certamente è stato nell’esperienza concreta della sua vita, ma più ancora è stato cittadino del mondo per l’apertura mentale e la volontà di relazione nei confronti dei paesi stranieri. Non per caso pochi anni dopo aver scritto i saggi raccolti in questo volume ebbe a fondare, con William Evan e Adam Podgórecki, il Research Committe on Sociology of Law dell’International Sociological Association, avendo da sempre mantenuto più di chiunque altro in questo paese, almeno per ciò che concerne i campi dei suoi interessi, legami stretti con studiosi stranieri e con organizzazioni internazionali. Il suo contributo e la sua adesione all’esperienza dell’Instituto Internacional de Sociología Jurídica di Oñati (una ventana abierta, come ebbe a definirlo), pochi anni prima della morte, sono l’estrema testimonianza della sua apertura al mondo.

Ora, se lo spirito critico improntato al relativismo e al prospettivismo è per sé, in certo qual modo, una garanzia che il pluralismo delle idee e degli orientamenti venga rispettato all’interno di una determinata società e di una determinata cultura, a maggior ragione il relativismo e il prospettivismo critici si rivelano di capitale importanza per rispondere alle sfide del multiculturalismo che a passi da gigante va ridisegnando i tratti essenziali delle società occidentali e non solamente di queste. Non mi par dubbio che le chiusure comunicative e l’ostilità nei confronti dello straniero, e in particolare dello straniero migrante siano, prima di ogni altra cosa, anche una manifestazione di spirito dogmatico nei confronti delle culture altre, acuito dalla paura dell’ignoto e da gretti timori ispirati dal portafoglio. Guardare, con interesse genuino e sincera volontà di comprensione, all’interno e all’esterno dei propri confini, compresi quelli della propria cultura e magari addirittura della nostra specie, è, prima di ogni altro, un còmpito dell’intellettuale in questa temperie. E, al tempo stesso, lo sguardo volto allo spazio internazionale, allo spazio fuori di noi, è per sé correttivo di entrambi i rischi che ho ritenuto di segnalare sopra.

Sono i rischi – non i soli, purtroppo - che primi si sono presentati netti alla mia mente nel rileggere, dopo tanti anni, le parole di Renato, parole nelle quali mi è parso di dover cogliere, nella loro evidenza di discorso, ma ancor più in un'interiorità psicologica profonda, piuttosto l’accorato timore di rigurgiti o ritorni di "spirito dogmatico" che non forse persino l’omaggio sincero alla libertà del pensiero e della ricerca che si nutrono dello "spirito critico". Un timore dell'oggi.



[1] Franco Angeli, Milano 2009, pp. 144. La prima edizione, presso Nuvoletti, Milano, risale al 1954. Nel volume sono raccolti tre saggi: Il diritto dell’uomo alla conoscenza e al suo libero uso; Politica della cultura e sociologia della conoscenza; Interpretazioni sociologiche del fascismo.

[2] A. Giasanti, “Il ruolo critico dell’intellettuale”; V. Ferrari, “Lo spirito critico di un cittadino del mondo”; D. Narducci, “Sul ruolo politico e morale della scienza: Renato Treves e il relativismo scientifico”; G. Martinotti, “Gli italiani sono fascisti e (forse) non lo sanno”.

[3] Mi è capitato di ascoltare, nella discussione di una tesi di dottorato, una giovane studiosa dichiarare di aver esaminato “circa tredici casi”, redigendone poi accuratamente le relative tabelle, con le percentuali calcolate al secondo decimale… Si dovette pregare il non poi troppo severo presidente della commissione, noto anche per ottime sue ricerche empiriche, di non aggiungere alla bocciatura espressioni di scherno.

[4] L’amore di Renato Treves per la chiarezza dell’esposizione e della comunicazione del pensiero, che presuppone la chiarezza delle idee, è rimasto proverbiale. Se mi è concesso di riferire un episodio personale, ricordo il giudizio col quale Renato mi restituì, nel suo salotto di via Lusardi 2, lo scartafaccio della minuta della mia tesi di laurea (allora, si riceveva solo il titolo e si portava al relatore la tesi bell’e finita, per l’approvazione o il rifiuto): “Una tesi chiara”. Lì per lì, dato che ci avevo anche lavorato un pochino, l’asciutto congedo mi fece restare maluccio. Solo a distanza di qualche tempo mi resi conto che Renato aveva voluto riservarmi un giudizio, ai suoi occhi, forse il più lusinghiero.

[5] Il primo saggio raccolto nel volume venne scritto in risposta al tema proposto appunto dalla Columbia University, in occasione dei festeggiamenti per il suo secondo centenario (1754-1954).


{ Pubblicato il: 03.02.2011 }




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