aldo zanca
Nessun commentoA partire da qui nascono i problemi e la necessità di una militanza laica per vigilare che lo Stato non attribuisca alle religioni un peso e un valore indebiti. In Italia questo rischio riguarda esclusivamente la chiesa cattolica, poiché le altre religioni hanno fatto e continuano a fare una gran fatica per poter fruire della tutela pubblica. Allora bisogna chiedersi quali sono i criteri usati per attribuire la giusta rilevanza ad ogni religione per concedere l’accesso ai benefici a carico di tutta la collettività nazionale.
Durkheim sostiene che una religione è «un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, […[ le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti quelli che vi aderiscono». Sistematicità, riferimento a cose considerate sacre e organizzazione comunitaria sono dunque i tre criteri che intercettano una religione. I pubblici poteri non solo debbono evitare di prendere per buone le dichiarazioni autoreferenziali ma procedere ad un accertamento obiettivo della consistenza reale delle varie chiese. Così come i versamenti dei lavoratori determinano la rappresentanza dei sindacati o i voti ottenuti determinano la misura dei contributi ai partiti.
Anche a limitarsi al solo criterio organizzativo, già siamo fuori da ogni idea di equità. Per esempio: grazie ad un astuto meccanismo, nella ripartizione dell’8 per mille la chiesa cattolica percepisce anche oltre il 90% del gettito, malgrado che i contribuenti che esprimono l’opzione per essa si aggiri intorno al 35%, mentre più o meno il 60% non esprime nessuna opzione. La furbizia sta nel fatto che viene ripartito l’intero gettito proporzionalmente alle opzioni effettivamente espresse ed ecco che un 35% diventa un 90%. Il meccanismo funzione come nelle elezioni, dove le astensioni non incidono sulla distribuzione dei seggi. In sostanza la chiesa cattolica, in questo caso, si appropria della stragrande quantità di risorse pubbliche pur essendo una minoranza.
Le cose si mettono sicuramente peggio se andiamo a sondare l’applicazione dei criteri circa il «sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre». Sono numerose le indagini che hanno dimostrato che i cattolici credono a quello che vogliono, mettendo in crisi il sedicente carattere istituzionale della chiesa, cioè l’oggettività di un credo che può riscontrare la legittimità di una rappresentanza “politica”. Per scrivere il mio ultimo libro (Religione e morale. Filosofia del condizionamento religioso, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2011) ho avuto alcune conversazioni con cattolici colti e conoscitori della dottrina. In tutti i casi è stato dichiarato il rifiuto del peccato originale e dell’inferno, quanto dire il nucleo essenziale della dottrina, così come è stata elaborata da Paolo e Agostino e trasmessa presso che inalterata fino ad oggi, almeno se l’autentico insegnamento della chiesa è quello che si legge nel Catechismo. La professione di fede di moltissimi sedicenti cattolici non osserva su punti essenziali il credo insegnato dalla chiesa.
Dal punto di vista ideologico il cattolicesimo si presenta come una nebulosa, in cui c’è poca fede ben fondata, pochissima obbedienza alla gerarchia, moltissimo conformismo, dilagante neo-paganesimo. Sociologicamente, anche tenendo conto di una certa gradazione di intensità, è oggi impossibile tracciare con decente approssimazione l’identikit del cattolico, fatta salva una ristrettissima fascia di militanti nell’ordine di alcune centinaia di migliaia e degli appartenenti al clero.
Uno studio recentissimo (Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, il Mulino, Bologna 2011) getta nuova e interessante luce su questa nebulosa, che, a seconda dei parametri utilizzati, può oscillare da un minimo di 18 milioni, bambini compresi, a non più della metà degli italiani. Il fatto che la quasi totalità di essi sia battezzata non dice granché sull’effettiva adesione al credo cattolico. Viene fuori che il cattolicesimo sempre di più si addensa nelle aree del sottosviluppo economico, dell’inefficienza della pubblica amministrazione e del degrado civile. Il cattolicesimo sembra prosperare nelle situazioni di disgregazione sociale e di carenza di presenza dello Stato, cioè nel sud dell’Italia, dove il cattolicesimo si presenterebbe come «subculturale, tradizionalista, carismatico, miracolistico o forse anche celebrato popolarmente in superstizioni e magie» (Giancarlo Zizola).
«All’antica frattura tra zona bianca e zona rossa – spiega Cartocci –, separate dal Po […], si è sostituita una nuova frattura, che corre più o meno da Roma ad Ascoli» (p. 138). La ricerca socio-economica individua una correlazione positiva tra secolarizzazione e sviluppo: «L’indice di secolarizzazione è strettamente legato agli indicatori di sviluppo economico, di rendimento delle istituzioni e di dotazione di capitale sociale. Le aree più cattoliche – conclude l’autore – sono anche quelle in cui si cumulano ridotto sviluppo, inefficienza delle istituzioni locali e della sanità regionale […] più religione meno capitale sociale» (p. 139), cioè il meridione. Ammonendo che la correlazione non significa causazione, si rileva che «gli elevati livelli di pratica religiosa e di fiducia nella chiesa costituiscono la veste culturale di quelle realtà italiane che sono nelle condizioni più critiche: ridotto sviluppo, inefficienza dei servizi, scarso capitale sociale. […] si presenta comunque, ineludibile, la sovrapposizione tra diffusione dei comportamenti conseguenti alle indicazioni della chiesa cattolica, da una parte, e i valori più bassi dello sviluppo economico, della qualità delle istituzioni locali e dello stock di civismo» (pp. 139-141).
Gli indicatori che Cartocci utilizza per la costruzione dell’indice di secolarizzazione, intesa come recessione della pratica religiosa cattolica, sono: il tasso di matrimoni civili sul totale dei matrimoni, l’incidenza delle nascite di figli al di fuori del matrimonio sul totale, il tasso di studenti non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica e la percentuale di contribuenti che non indica la chiesa cattolica come destinataria del finanziamento dell’8 per mille sul totale delle preferenze valide. L’autore mette in guardia dal rischio di sovrastimare certi grandi numeri, che sembrerebbero deporre a favore di un cattolicesimo largamente diffuso e radicato. Infatti «sulla scelta di avvalersi o meno gravano certamente motivazioni di natura extrareligiosa, come innanzitutto la mancanza di alternative didattiche adeguate e la convinzione [errata!] di molte famiglie che questa offerta didattica costituisca comunque un arricchimento morale e culturale» (pp. 154-155). Aggiungiamo noi che, per esperienza personale, c’è anche la preoccupazione che, soprattutto i più piccoli, non diventino oggetto di pratiche discriminatorie. E anche «sposarsi in chiesa può essere una scelta su cui incidono [moltissimo!] anche considerazioni profane e di tipo ritualistico e conformistico» (p. 159). Sulla scelta dell’8 per mille pesano sicuramente la rinuncia dello Stato di fare la stessa propaganda che la chiesa fa e l’uso scorretto che esso (meglio: il governo) fa della sua quota, in massima parte dirottata a favore della chiesa cattolica. Chi scrive ha, per questo, da tempo cessato di destinare il proprio 8 per mille allo Stato, preferendo la chiesa valdese.
I cattolici sono oggi, secondo tutte le indagini serie, anche di campo cattolico stesso, una grossa minoranza, che però gode di una favorevole sovraesposizione grazie all’azione congiunta del conformismo sociale e del sostegno dei pubblici poteri, non solo di tipo economico-finanziario. I grandi numeri che si riferiscono al cattolicesimo (battesimi, matrimoni, ora di religione, 8 per mille ecc.) sono il risultato di procedimenti drogati, che non rispecchiano affatto la reale consistenza sociologica e statistica delle adesioni al cattolicesimo in termini di comportamenti osservabili e di fedeltà dottrinale.
In questa nuova situazione, che si cerca di tenere celata o di mascherare, viene meno ogni giustificazione politica e giuridica del regime concordatario, che può avere un senso solo in una società monoculturale e monoreligiosa, in cui altri raggruppamenti appaiono marginali e ininfluenti. L’argomento secondo il quale il cattolicesimo sarebbe la religione della maggioranza degli italiani sarebbe corretta se a “maggioranza” si aggiungesse l’aggettivo “relativa”, a fronte della quale c’è una stragrande maggioranza assoluta di conformisti, opportunisti, indifferenti, appartenenti ad altri credi religiosi e filosofici. Si tratta di applicare una buona volta validi e corretti criteri e strumenti di rilevazione.
In questa nuova realtà, profondamente diversa rispetto a non molto tempo fa, in cui il cattolicesimo appare eroso dall’esterno dalla secolarizzazione e dall’interno dal vacillare dei capisaldi dottrinali, sarebbe corretto, nel quadro di un sano esercizio della laicità, cessare di accordargli l’attuale favore che si rivela scandalosamente sovradimensionato in relazione alla sua effettiva consistenza sia organizzativa che ideologica. Cominciando ad assegnare alla CEI la quota dell’8 per mille nella reale misura delle opzioni espresse, e arrivando, chissà quando, all’abolizione del regime concordatario, autentico obbrobrio civile.
Un gesto di per sé modesto, ma carico di significato simbolico ai fini di testimoniare la laicità dello Stato, sarebbe quello di non prevedere più nelle cerimonie pubbliche la presenza delle “autorità religiose”, che sono solamente quelle cattoliche, discriminando tutte le altre, e di cancellare le parti relative del decreto del presidente del consiglio dei ministri del 14 aprile 2006. Nei posti riservati alle autorità il cittadino italiano non cattolico ha il diritto di non vedere personalità che per lui non rappresentano alcuna autorità.
{ Pubblicato il: 27.08.2011 }