Fondazione Critica Liberale   'Passans, cette terre est libre' - Abbiamo scelto come logo la fotografia d'un autentico 'Albero della Libertà ancora vivente. È un olmo che fu piantato nel 1799 dai rivoluzionari della Repubblica Partenopea, Luigi Rossi e Gregorio Mattei, a Montepaone Superiore, paese dello Jonio catanzarese. La scritta &lequo;passans ecc.» era qualche volta posta sotto gli 'Alberi della Libertà' in Francia.
 
Direttore: Enzo Marzo

Dal 1969 la voce del pensiero laico e liberale italiano e della tradizione politica che difende e afferma le libertà, l'equità, i diritti, il conflitto.

"Critica liberale" segue il filo rosso che tiene assieme protagonisti come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini ed Ernesto Rossi, Einaudi e il "Mondo" di Pannunzio, gli "azionisti" e Bobbio.

volume XXIV, n.232 estate 2017

territorio senza governo - l'agenda urbana che non c'è

INDICE

taccuino
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67. paolo bagnoli, la nostra preoccupazione
68. coordinamento democrazia costituzionale, appello alla mobilitazione per una legge elettorale conforme alla Costituzione
106. comitati unitari per il NO al “rosatellum”, l’imbroglio degli imbrogli
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territorio senza governo
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69. giovanni vetritto, l’italia del “non governo” locale
73. pierfranco pellizzetti, alla ricerca del civismo perduto
79. antonio calafati, le periferie delle metropoli italiane
84. paolo pileri, molta retorica, pochi fatti
86. giovanni vetritto, post-marxisti inutili
88. valerio pocar, primo comandamento: cementificare
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astrolabio
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89. riccardo mastrorillo, finanziare sì, ma come?
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GLI STATI UNITI D'EUROPA
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93. sarah lenderes-valenti, la risorsa più grande
94. luigi somma, le democrazie invisibili
97. claudio maretto, la discontinuità paga
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castigat ridendo mores
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100. elio rindone, basta con l’onestà!
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l'osservatore laico
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103. carla corsetti, il principio di laicità
107. gaetano salvemini, abolire il concordato
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terrorismo e religione
109. pierfranco pellizzetti, jihad combattuta alla john wayne
114. alessandro cavalli,quattro cerchi
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lo spaccio delle idee
117. gianmarco pondrano altavilla, cari liberisti, chi conosce un buon medium?
118. luca tedesco, savoia o borbone? lo storico è un apolide
119. gaetano pecora, ernesto rossi, “pazzo malinconico”
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78.92.102. spilli de la lepre marzolina
116. la lepre marzolina, di maio ’o statista
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Critica liberale può essere acquistata anche on line attraverso il sito delle Edizioni Dedalo con transazione crittografata e protetta.
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comitato di presidenza onoraria
Mauro Barberis, Piero Bellini, Daniele Garrone, Sergio Lariccia, Pietro Rescigno, Gennaro Sasso, Carlo Augusto Viano, Gustavo Zagrebelsky.

* Hanno fatto parte del Comitato di Presidenza Onoraria: Norberto Bobbio (Presidente), Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Giancarlo Lunati, Italo Mereu, Federico Orlando, Claudio Pavone, Alessandro Pizzorusso, Stefano Rodotà, Paolo Sylos Labini. Ne ha fatto parte anche Alessandro Roncaglia, dal 9/2014 al 12/2016.
 
05.02.2018

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Lo spazio dei lettori.
Eventi, segnalazioni, convegni...

Un paese di formiche governato dalle cicale (note sulla “manovra”).

gim cassano

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giulio tremonti
lI vaudeville che questa maggioranza sta celebrando a proposito della manovra fiscale è l’epilogo di un fallimento che non si misura solo sul piano economico, ma anche sul piano di una sottrazione sostanziale di democrazia ai danni dei cittadini italiani, su quello della coesione sociale e territoriale del Paese, sul piano della credibilità internazionale.

1-    La vicenda.
Tutto il 2009 ed il 2010 sono stati sprecati dalla maggioranza di governo negando quel che era invece evidente a tutti in Italia e fuori: che si potesse parlare di declino italiano; rifiutandosi di ammettere che la crisi internazionale e la stagnazione italiana (quest’ultima ampiamente preesistente alla crisi), potessero creare problemi strutturali alla nostra finanza pubblica ed economia; affermando anzi che l’Italia fosse in condizioni migliori di altri in rapporto alla crisi; annunciandone di volta in volta il superamento; rispondendo alle critiche tacciando l’opposizione di disfattismo antinazionale; descrivendo il Paese come il migliore dei mondi possibili; non assumendo, quindi, alcun provvedimento selettivo e dotato di un minimo di serietà e di efficacia, né da un punto di vista espansivo, né dall’opposto punto di vista del rigore di bilancio. Infatti, tra il 2008 ed il 2010, pur in presenza della forte riduzione dei trasferimenti agli Enti Locali, dei cosiddetti tagli orizzontali, e di una riduzione di oltre il 35% negli investimenti pubblici, non vi è stata alcuna riduzione della spesa pubblica: segni questi che, mentre l’entità della spesa cresceva, la sua qualità peggiorava fortemente.

Eppure, in quegli anni, qualcosa si sarebbe potuta fare, ponendo in essere una seria opera di contenimento della spesa, iniziando, solo per fare qualche esempio, dalla riduzione allo stretto essenziale (cioè pressoché a zero) della pletora di incarichi, consulenze, sinecure a tutti i livelli della Pubblica Amministrazione, invariabilmente ricoperti da famigli e compari, e dall’impedire la proliferazione di società pubbliche, ma di diritto privato, che gravitano attorno ai Ministeri ed alle Amministrazioni Locali: dai famosi Enti inutili, siamo passati a SpA altrettanto inutili e poco trasparenti (valga per tutte l’esempio di Difesa Servizi SpA); bloccando il completamento dell’istituzione delle più recenti Provincie, ed avviando studi e ragionamenti seri sulla loro generalizzata eliminazione, sulla redistribuzione delle loro scarse funzioni verso l’alto (Regioni) ed il basso (Comuni e loro Consorzi), sulla riduzione delle strutture periferiche delle Amministrazioni Centrali; procedendo all’adeguamento della tassazione delle rendite finanziarie; ridimensionando, posponendo, cancellando, analogamente a quanto si è fatto altrove, programmi plurimiliardari di spese militari come quello da 14 miliardi degli aerei F35, che si sarebbero potuti rimpiazzare con investimenti in infrastrutture; e, una volta deciso lo sconcio dello scudo fiscale, almeno tassarlo in termini più adeguati e conformi ad un principio di equità.
Invece, si è scelta la strada, anche qui facendo solo qualche esempio, di procedere con i favori ai “capitani coraggiosi” di Alitalia, agli evasori e riciclatori dello scudo fiscale, alla Chiesa ed alla scuola privata, di generalizzare l’esenzione ICI sulla prima casa, di agevolare la chiusura semigratuita di contenziosi tributari come quello di Mediaset, di sottrarre alle normali procedure sugli appalti gli interventi di una Protezione Civile che dilatava a dismisura il suo ruolo coi risultati che poi si sono visti, di stanziare miliardi per l’amico Gheddafi, e via dicendo. E, sul fronte del contenimento della spesa, senza peraltro riuscire a contenerla, ci si muoveva essenzialmente secondo tre linee: i “tagli orizzontali”, quelli alla scuola, alla ricerca, alla cultura, ai trasferimenti agli Enti Locali, e la fortissima contrazione degli investimenti pubblici.

Si è giunti così al 2011, pur dopo aver ridotto gli investimenti pubblici del 37% in due anni e praticato i tagli appena citati, con un debito pubblico che supera i 1900 miliardi ed un deficit pari al 4,5% del PIL senza che da un lato siano state introdotte misure di sostegno all’economia, né dall’altro lato misure di sostegno alle famiglie; con una spesa per interessi crescente e prevista in ulteriore crescita da circa 70 ad oltre 80 miliardi (nella migliore delle ipotesi) per effetto dei concomitanti aumenti generalizzati dei tassi e dello spread sui titoli di stato; con un tasso di crescita del PIL inferiore all’1% (il più basso tra i principali Paesi industriali); e senza alcuna idea chiara su come e dove reperire le risorse ed individuare i tagli per assicurare il rispetto degli impegni europei sul risanamento entro il 2014.
Limitandoci all’aspetto fiscale, questa assenza di idee è stata poi puntualmente testimoniata dalla girandola di proposte, annunci, delibere del Consiglio dei Ministri, regolarmente rientrate o modificate, succedutesi nel corso dei mesi da maggio ad agosto di quest’anno: taglio delle deduzioni, aumento delle imposte indirette, IRPEF al 20/30/40, contributo di solidarietà: proposte diverse, ma tutte accomunate da un forte tasso di iniquità e dall’esser fortemente deflattive, quando ci si rifiutava, per ragioni puramente ideologiche, di prendere in considerazione qualsiasi forma di imposizione patrimoniale (la meno deflattiva di tutte, agendo questa in sostanza sul cumulo dei redditi passati e non su quelli in via di formazione, e l’unica in grado di reintrodurre qualche elemento di equità, operando sul patrimonio a prescindere dal fatto che questo si sia formato per via di lavoro dipendente, autonomo, o di rendite finanziarie ed immobiliari).

Nel frattempo, la crisi greca mostrava a tutti le incongruenze europee e la debolezza della governance finanziaria del sistema-euro, aprendo vaste praterie a movimenti speculativi che, ovviamente, andavano ad aggredire prioritariamente il debito dei Paesi meno solidi da un punto di vista finanziario e, soprattutto, meno  credibili sul piano della capacità e volontà politica, e che, altrettanto ovviamente, era del tutto vano cercare di esorcizzare con anatemi, esorcismi, e grida di stampo manzoniano.

Il governo italiano, dopo aver come di consueto minimizzato, inventava un nuovo strumento di politica finanziaria: quello della manovra annunciata. Definitane in circa 45 miliardi l’entità (peraltro insufficienti), l’esigenza di Berlusconi di non aggiungere al proprio discredito personale anche il venir meno dei consensi di aree sociali e di interessi sulle quali si centra il suo elettorato, faceva sì che l’applicazione del grosso dei tagli e degli inasprimenti fiscali, tutti avvolti da un velo di incertezza ed aleatorietà, venisse previsto per dopo le future elezioni politiche (poi ci si penserà, noi o qualcun altro, ma comunque dopo aver superato lo scoglio delle elezioni).
Peccato che i mercati non abbiano apprezzato un tale, clownesco, gioco di prestigio: come un tempo si diceva nella Napoli dei bassi, “chiacchere e tabacchiere di legno il Banco (di Napoli) non le impegna”.
In pochi giorni i rendimenti dei nostri titoli di Stato sono arrivati ad uno spread di quasi il 4% rispetto al Bund tedesco. Questa incoscienza, pur considerato il successivo calo dello spread rispetto alle punte massime, comporterà a regime un ulteriore aggravio di oltre 10 miliardi per il nostro bilancio pubblico: si è così “mangiata” buona parte dell’entità della manovra, per il solo fatto di averla annunciata senza peraltro volersi assumere la responsabilità di porla rapidamente in essere, aggravando ulteriormente la situazione.
A questo punto, si è arrivati al vaudeville di Agosto: dopo aver approvato nel panico ed a tempo di record, dietro le pressioni di un Presidente della Repubblica che nell’interesse del Paese si vedeva costretto ad intervenire energicamente, e di una BCE che minacciava di disinteressarsi della questione, una manovra che necessariamente veniva ampliata nella sua portata e riportava l’avvio dei provvedimenti dal futuro remoto a quello prossimo ed al presente, incassato un minimo di approvazione europea, assistito al rallentamento dell’ondata di sfiducia, sono puntualmente riprese le discussioni e le prese di distanza interne alla maggioranza.

A turno, sino ad arrivare all’accordo di Arcore, subito (il giorno dopo) rimesso ulteriormente in discussione, si è parlato di pensioni, di taglio dei trasferimenti agli Enti Locali poi ridimensionati, di aumento dell’IVA, di contributo di solidarietà, di prelievo sulle cooperative, di ticket, di eliminazione, poi riduzione, poi neanche quella, delle Provincie, in una girandola di cifre in continuo mutamento. E si è cercato di gettare fumo negli occhi dei cittadini, facendo l’occhiolino all’antipolitica, con la ridicola vicenda del numero dei parlamentari.
Resta il fatto che ai saldi stabiliti prima di Ferragosto, ed approvati in sede comunitaria, mancano tuttora (2 settembre) circa 6 miliardi, fideisticamente coperti dalla previsione di un maggior gettito derivante dall’inasprimento della lotta all’evasione: alias, non coperti.
Per la quarta volta consecutiva, si sono annunziati, con tanto di conferenza-stampa, provvedimenti di volta in volta risolutivi, conditi da inutili modifiche costituzionali, che regolarmente il gioco tutto interno alla maggioranza degli interessi elettorali di questo o di quello, e l’interesse di Berlusconi alla propria sopravvivenza politica, hanno smentito la settimana (se non il giorno) dopo.  

Sarà forse il caso di riepilogare, per sommi capi, i dati essenziali relativi alla finanza pubblica negli anni dal 2007 (ultimo anno governo Prodi) al 2011, e la tendenza al 2012, tenuto conto dei prevedibili effetti della manovra in corso di approvazione ad inizio settembre 2011.

ANNO              2007          2008          2009          2010          2011          2012
(stime)       (previsione
ponderata)
PIL (incremento)    1547,2 (+1,5%)    1567,8 (+1,3%)    1519,7 (-3,1%)    1548,8 (+1,9%)    1563,0 (+ 0,9%)    1580,0 (+ 1,1%)

Spesa Pubblica
primaria (%PIL)      676,3 (43,7%)      708,3 (45,2%)      727,5 (47,9%)      721,9 (46,6%)      720,0 (46,1%)      715,0 (45,3%)
Interessi              77,1  ( 5,0%)        81,2  ( 5,2%)        71,3  ( 4,7%)        70,2  ( 4,5%)        80,0  ( 5,1%)        85,0  ( 5,4%)
TOTALE          753,4 (48,7%)      789,5 (50,3%)      798,8 (52,6%)      792,1 (51,1%)      800,0 (51,2%)      795,0 (50,7%)

Entrate Pubbliche
Amministraz. (%PIL).      723,7 (46,8%)      748,7(47,8%)       718,3 (47,3%)      720,3 (46,5%)    735,0 (47,0%)      750,0 (47,5%)

Avanzo
primario (%PIL)     + 47,4 (+3,1%)    + 40,4 (+2,6%)     -     9,2 (- 0,6%)    -     1,6 ( - 0,1%)    + 15,0 (+1,0%)    +  35,0 (+2,2%)

Deficit (%PIL)     -  29,7 ( -1,9%)    -  40,8 (- 2,6%)    -    80,5 (- 5,3%)    -   71,8 ( - 4,6%)     -  -65,0 (-4,2%)    -  -45,0 ( - 2,8%)

Debito
Pubblico (%PIL)    1602,1 (103,6%)    1666,6 (106,3%)    1763,9 (116,1%)    1843,0 (119,0%)    1910,0 (122,2%)    1955,0 (123,4%)

Ove si consideri che tra il 2009 ed il 2011 la spesa pubblica ha registrato una contrazione degli investimenti di oltre il 35%, risulta evidente come la spesa corrente sia in continuo e progressivo aumento.
Bastano questi pochi e sommari dati per comprendere come il governo Berlusconi ha seguito una linea di finanza pubblica del tutto dissennata e tale da minare la credibilità finanziaria del Paese. Nel novero dei luoghi comuni consolidati dal pressapochismo nostrano vi è sempre stata la convinzione che governi e politiche di destra dovessero tendere al rigore economico, al contenimento dell’inflazione, alla riduzione della spesa e del prelievo fiscale; e che invece governi e politiche di sinistra guardino piuttosto alla spesa ed al prelievo fiscale come fattori redistributivi, mentre un certo tasso di inflazione possa essere anche visto come un prezzo modesto da pagare a fronte di politiche espansive.
Basta esaminare i dati qui sopra riportati per dover concludere come la prima convinzione risulti del tutto priva di fondamento: il governo Berlusconi ha aumentato la spesa corrente, ha ridotto gli investimenti, non ha ridotto il prelievo fiscale sul reddito, ha aumentato le iniquità tra coloro per i quali l’esazione od il taglio di spesa fosse facile ed automatico (lavoro dipendente, alcune forme di lavoro autonomo soggette di fatto alla richiesta di fatturazione, enti locali) e coloro per i quali ciò non avviene, ha aumentato l’indebitamento pubblico. La giustificazione della crisi internazionale non trova fondamento in presenza di una spesa pubblica primaria aumentata di oltre 50 miliardi tra il 2007 ed il 2009.

2-    Le conseguenze
Questo modo di concepire una delle più importanti funzioni della politica -il quanto chiedere ai cittadini, e come ed a qual fine spendere i loro quattrini: quella funzione a partire dalla quale si è avviata la storia del ruolo dei parlamenti come limite all’arbitrio del sovrano di disporre delle vite e dei beni dei sudditi- comporta quattro ordini di guasti, molto difficilmente riparabili.

*        *        *
Il primo guasto sta, ovviamente, nelle inevitabili conseguenze sull’economia e sulle prospettive del Paese nel suo insieme, che, data la loro ovvietà, non credo occorra qui stare ad analizzare. Basti osservare che il 5% e più del PIL assorbito dal servizio di un debito riesploso ad oltre il 120% del PIL, comporta di per sé un forte freno allo sviluppo, e non può non condizionare tutte le scelte di finanza pubblica.
Il fatto che il debito sia allocato per circa la metà all’estero, significa che quasi 3 italiani su cento (tra tutti quelli che sono in età lavorativa) lavorano tutto l’anno unicamente per pagare interessi ai detentori esteri, e che ogni italiano che oggi nasca, sa sin d’ora di avviare la propria esistenza avendo sulle spalle un fardello di 32.000 euro di debito pubblico.
Ciò comprime la possibilità di investire per lo sviluppo, di creare infrastrutture, di sviluppare la ricerca, di estendere il welfare a chi ne è escluso, di fornire un’istruzione pubblica di qualità, di promuovere la mobilità sociale.
Responsabilità di questo governo è di aver coscientemente sottovalutato la situazione, aggravandola a danno di tutti, ma soprattutto dei più deboli, di coloro che non godono di adeguate forme di protezione sociale o ne sono del tutto esclusi, dei redditi più bassi; in sostanza, di coloro che più di tutti gli altri avrebbero bisogno e beneficerebbero di accettabili tassi di sviluppo.
A meno che ci si voglia porre al di fuori delle “fair rules” di un mercato al quale, comunque, siamo costretti a ricorrere per il rifinanziamento delle emissioni in scadenza (circa 300 miliardi/anno), ed a meno che si intenda dare soluzioni di tipo argentino al “rientro” del nostro debito pubblico, dovrebbe esser chiaro come la graduale riduzione dell’enorme indebitamento pubblico si presenti come un’autentica emergenza nazionale che riguarda indistintamente tutti, e che è soluzione resa obbligata dagli esistenti vincoli europei, cui non sarebbe né ammissibile, nè soprattutto, utile, sottrarsi.
Né è pensabile che l’assistenza europea possa estendersi a coprire o garantire con Eurobonds il debito di Paesi che hanno condotto politiche prive di qualsivoglia razionalità, o in assenza di politiche economiche, di finanza pubblica, e fiscali, tendenzialmente convergenti negli aspetti qualitativi, oltre che nei saldi di bilancio, il che sarebbe peraltro cosa auspicabile per infinite altre ragioni.

*        *        *
Il secondo guasto sta nei caratteri qualitativi che dal punto di vista dell’equità e dal punto di vista degli effetti recessivi sono riscontrabili nelle proposte e nell’azione del governo, culminata nell’ultima versione della manovra.
E’ un fatto che i pesi ed i costi delle molteplici incapacità, della disonestà della mente e della tasca, del corporativismo, della commistione tra potere pubblico ed interessi particolari, elettorali, di clientela, di casta, della collusione con i potentati finanziari, dell’acquiescenza nei confronti di chi non rispetta leggi e norme, e non parlo solo di quelle fiscali, sono stati trasferiti sui gruppi più deboli contrattualmente e meno utili elettoralmente, ivi compresi i giovani e coloro che devono ancora nascere, e su coloro per i quali sia più facile la riscossione, determinando per questa via una duplice iniquità: quella tra gruppi sociali, e quella tra  generazioni. Ogni italiano che, lavoratore dipendente o meno che sia, paghi le proprie tasse, sa perfettamente di esser chiamato a pagare imposte di circa un 13% più elevate di quanto, a parità di condizioni, dovrebbe pagare ove tutti pagassero il dovuto in base alle norme vigenti, e di circa un 20% più elevate di quel che potrebbero essere, ove venissero efficacemente combattuti sprechi, favoritismi, elusione fiscale.
Al di là dei singoli annunci dei provvedimenti che di volta in volta sono stati presentati, questi sono comunque caratterizzati dal costante filo conduttore di una strutturale iniquità ai danni dei più deboli e dei più esposti dal punto di vista fiscale. Questa verrebbe ulteriormente rafforzata dal ventilato incremento dell’IVA, cui probabilmente, alla fine, si farà comunque ricorso per mantenere invariati i saldi già previsti e sui quali ci si è impegnati: ciò deprimerebbe i consumi e graverebbe in misura proporzionalmente maggiore sulla capacità di spesa delle famiglie meno abbienti.
Ragionamento analogo vale per la riduzione delle deduzioni fiscali e per gli aumenti dei tickets. In quanto al famoso contributo di solidarietà, poi rientrato, per i redditi oltre i 90.000 ed i 150.000 euro, va detto che esso avrebbe colpito soprattutto dipendenti e pensionati ad alto reddito, ed in misura molto inferiore gli autonomi, accentuando le sperequazioni.

Ma, mentre si procede al prelievo o ai tagli ove ciò risulti più facile e meno dannoso elettoralmente agli interessi della maggioranza, non si fa nulla per tagliare i “veri” costi della politica, che non sono dati dal numero dei parlamentari, ma dalla pletora di incarichi, consulenze, consigli di amministrazione, tutti ben retribuiti, tutti affidati a personaggi facenti parte o gravitanti attorno alla “casta”, quasi nessuno dotato di una reale necessità. E, naturalmente, non si toccano i contributi ed i rimborsi ai partiti ed ai loro fogli, o alla stampa cosiddetta politica, a Radio Padania ed a Radio Maria, e via dicendo. E non si fa nulla per iniziare con determinazione il ragionamento sulle Provincie e sulla redistribuzione delle loro competenze, che sono state oggetto del farsesco balletto dal “quelle che….”, ad “alcune”, al “vedremo un domani” (cioè nessuna). Non si parla di tagliare sostanzialmente le spese militari strenuamente difese da un sottobosco affaristico che si colloca tra Difesa e industria degli armamenti. Non si parla di riordinare per funzioni ed accorpare gli organi di Polizia e sicurezza: per la strada si può esser fermati dalle pattuglie di 5 organi diversi e per mare, dalle vedette di 4 organi diversi, con quali costi ed efficienza è facile immaginare.
In funzione del ricatto del consenso elettorale, non si fa nulla per eliminare i privilegi fiscali concessi alla Chiesa Cattolica (ICI, IRES), ed eliminare le regalìe ad essa a più riprese destinate, ad iniziare dallo sconcio dell’8 per mille; e, visto che si intende tagliare sulla scuola, per iniziare dall’eliminare i contributi alla scuola privata che, lungi dall’incentivare il pluralismo, contraddicono il “senza onere per lo Stato” di crociana memoria.

Sarebbe invece del tutto logico dal punto di vista del raggiungimento dei saldi necessari, ed elemento tale da ripartire più equamente i pesi, rendendo più accettabile l’insieme dei provvedimenti, il ragionare seriamente su un contributo di solidarietà, destinato esclusivamente al rientro dal debito, e fondato sull’imposizione fiscale sul patrimonio immobiliare e finanziario, ivi compresi i cosiddetti capitali scudati. Come detto in precedenza, gli effetti recessivi sarebbero inferiori a quelli di altre forme di imposizione fiscale, e si avrebbe il sostanziale vantaggio di non distinguere tra le forme di reddito attraverso le quali si sono formati i patrimoni.

Un esempio del pressapochismo e della superficialità con cui è stato condotto il vaudeville della manovra è offerto da quanto segue. Nell’ultima versione (2 settembre) della manovra, eliminati il contributo di solidarietà ed i risparmi sulla questione del ricongiungimento pensionistico, e ridotti leggermente i tagli agli Enti Locali, mancavano all’appello 6 miliardi. Dove trovarli? Presto detto: come per un colpo di bacchetta magica, questi si materializzano con l’annuncio che sarebbero “arrivati” dall’inasprimento della lotta all’evasione fiscale.
Prescindiamo dall’elementare considerazione fondata su un criterio di equità che quanto recuperato dall’evasione fiscale (cioè da chi non ha mai pagato, o ha pagato meno) sarebbe opportuno andasse ad alleggerire il carico su chi ha sempre pagato tutto. Ma, dal momento che questi 6 miliardi entrano a far parte dei saldi di bilancio sui quali ci si impegna di fronte al Paese ed ai nostri partners, sarebbe utile sapere in base a quale ragionamento si è stabilito che tale recupero sia di 6 e non di 2 o di 20 miliardi; e sarebbe utile conoscere la tempistica di tale recupero, atteso che i precedenti al riguardo (ivi compreso quello del famigerato scudo fiscale) consiglierebbero di non assimilare entrate incerte nell’entità e nei tempi ad entrate certe e strutturali.

Occorre poi considerare i danni indotti dagli effetti recessivi di una manovra, che peraltro rischia anche di essere inadeguata in quanto per molti aspetti basata su stime non necessariamente attendibili.
Intendiamoci: se si deve ridurre il disavanzo -e lo si deve- non c’è che aumentare il prelievo fiscale, o ridurre la spesa, o tutte e due le cose insieme. Ed è assodato che l’una e l’altra azione hanno carattere recessivo; ma questo è più marcato e diretto nel caso dell’aumento del prelievo fiscale, e molto meno nel caso della riduzione della spesa: in particolar modo di quella corrente. Il fatto che il governo abbia ritenuto preferibile agire più sul fronte del prelievo (circa il 60% della manovra) che su quello della spesa, ne accentua quindi il carattere recessivo.
E, né in termini di spesa, né in termini di riforme a costo zero, come potrebbe essere la liberalizzazione delle cosiddette libere professioni, è previsto alcunché di atto a compensare, almeno in parte, misure che per loro natura sono di freno allo sviluppo.

In sostanza, mentre occorrebbe adottare le misure meno inique e meno recessive che sia possibile, gli atti del governo, e la valutazione, per quanto è dato sapere, dei provvedimenti più volte annunciati, modificati, e ritirati, ci dicono che sta avvenendo esattamente il contrario.
Proseguire in tal modo significa minare alla radice le basi della coesione sociale, di quella tra le generazioni, e di quella territoriale, del Paese.

*        *        *
Il terzo guasto, non meno importante dei primi due, è quello di aver minato le basi stesse della democrazia rappresentativa. Cioè di quel patto che lega governanti e governati non in un rapporto unilaterale tra sovrano e sudditi ma in un rapporto bilaterale tra governanti scelti direttamente o indirettamente da cittadini coscienti che eleggono i loro rappresentanti.
Il che presuppone, come ha opportunamente ricordato di recente il Presidente della Repubblica, un rapporto fondato sulla lealtà e sulla chiarezza. Non è ammissibile che, in funzione della propria sopravvivenza e della propria convenienza, un governo menta per anni ai cittadini ed al Parlamento, nascondendo al Paese la reale gravità della situazione; e non è possibile che, una volta costretti dalle circostanze ad agire, tardivamente e con grave danno per il Paese, si producano nel giro di un mese e mezzo quattro diverse versioni dello stesso provvedimento, sulla base del prevalere degli interessi di questa o di quella componente della maggioranza.
In queste condizioni, viene meno il primo dovere dei governanti: quello di fornire al Parlamento, all’opinione pubblica, indicazioni chiare ed impegnative sulla situazione e sui provvedimenti che si intende assumere per fronteggiarla, accettando critiche e, se del caso, anche il discredito.
In simili frangenti, qualsiasi governo democratico rispettabile e che si rispetti, (ma questo non lo è), avrebbe il dovere di parlare chiaro, di affrontare la situazione, di rischiare l’impopolarità, di avviare nel Paese e nel Parlamento una seria discussione sull’entità e sulla ripartizione dei sacrifici.

Se gli attuali nostri governanti fossero gli amministratori di una qualsiasi società di capitali, già da tempo sarebbero stati oggetto di un’azione di responsabilità da parte degli azionisti. Nella società politica italiana non avviene nulla di simile. Essa non si fonda su amministratori centrali e periferici che, bene o male, rispondono ai cittadini, ma su amministratori che rispondono solo a se stessi, per lo meno nel periodo che passa tra un’elezione e l’altra, senza che nel frattempo l’organo di controllo (un Parlamento che ha perso ogni autonomia nei confronti dell’Esecutivo) sia in grado di esercitare tale funzione.
Si è scambiato il concetto di governabilità con il venir meno del ruolo e del numero dei partiti e con il venir meno della funzione parlamentare intesa come rappresentanza dei cittadini-elettori e come capacità di indirizzo e controllo sugli atti dell’Esecutivo. Oggi osserviamo  come una maggioranza scaturita da una legge elettorale bipolare e fortemente maggioritaria si sia sfaldata e non riesca a produrre alcun serio indirizzo di politica economica: anzi la confusione è totale, in un via-vai di norme annunciate, introdotte, modificate, ritirate, rinviate, a seconda del prevalere di questo o quell’altro interesse di parte.

L’incombere delle difficoltà economiche non deve farci dimenticare come a più riprese numerosi esponenti dell’attuale maggioranza, ad iniziare dal  capo del governo, abbiano proposto riforme tese ad ridurre il peso delle funzioni di garanzia e di controllo che la nostra Costituzione assegna a Presidenza della Repubblica e Parlamento.
Vi si aggiunga la prassi oramai abituale del legiferare per decretazione di urgenza, con provvedimenti di conversione in legge regolarmente sottoposti a fiducia e che sovente coprono emendamenti nei quali si infila di tutto, per capire come oramai i principii democratici dell’autonomia dei poteri, del controllo e della discussione parlamentare, della responsabilità nei confronti dei governati e dei rappresentati, della corretta informazione, siano completamente venuti meno. E si osservi, ancora, l’abitudine a non tener alcun conto dei rilievi di Organismi indipendenti, a ciò deputati, quali la Banca d’Italia o la Corte dei Conti, della quale ultima è istruttiva la lettura della Relazione (28-06-2011) sul rendiconto relativo all’esercizio finanziario 2010.

Riguardo a questi ultimi aspetti, non si deve scambiare per l’affermazione di un principio di moralità la prevista (e procrastinata) riduzione del numero dei parlamentari che, andando incontro ad un chiodo fisso del cavaliere (quello di sminuire il potenziale rappresentativo e politico del Parlamento), vi abbina il grande vantaggio di strizzare l’occhio all’antipolitica. Si tratterebbe di una riforma poco significativa dal punto di vista finanziario, ma molto significativa dal punto di vista politico: sarà il caso di ricordare come a più riprese l’attuale Presidente del Consiglio, simile a chi parlò di “aula sorda e grigia”, abbia dileggiato il Parlamento e la sua funzione di rappresentanza e di controllo, sostenendo che ad assicurarne le funzioni potevano bastare i capigruppo. Nulla di strano che tale proposta venga utilizzata come foglia di fico dichiarata necessaria a ridurre i costi della politica, ma in realtà utile ad altri scopi, col beneplacito del PD.

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E, quarto e non ultimo guasto, non c’è affatto da stupirsi se, in queste condizioni, il discredito internazionale che circonda il nostro governo sia ampio e diffuso, e tale che in Europa si veda oramai l’Italia come un problema, politico, ancor prima che economico, che rischia di compromettere le prospettive europee e della moneta unica.
L’impressione di furbesca incertezza, di valutare prioritariamente gli interessi di parte, di non sapere o non voler mantenere la parola data, i continui richiami della BCE a non cambiar le carte in tavola hanno prodotto due effetti devastanti: quello di aver approfondito il solco tra l’Italia e l’Europa, e quello di aver creato le premesse della nostra debolezza di fronte agli attacchi speculativi.
Non ci si deve stupire se i movimenti speculativi colpiscano i nostri titoli. E chi dovrebbero colpire? Forse i Paesi a governance più affidabile e seria? Ed ancora si grida alla politica antinazionale dell’opposizione di sinistra, colpevole di fomentare e favorire la speculazione finanziaria ai nostri danni, notoriamente gestita dagli eredi della Terza Internazionale.  
L’inerzia del governo nel suo insieme, e la sorda resistenza di sue componenti interne hanno aggravato la situazione, rendendo necessaria la dilatazione delle dimensioni della manovra, e quindi esaltandone gli aspetti recessivi. E non va dimenticato come i vincoli ed i tempi imposti all’Italia sono e saranno tanto più precisi e stringenti, come per un debitore inaffidabile, quanto minore sia la credibilità e l’affidabilità dei governi che devono guidare questo percorso.

Questo, dunque, il lascito del berlusconismo al tramonto: un paese che a più riprese ha dimostrato di esser fatto di formiche, ma che è governato da cicale incapaci, impoverito economicamente e screditato sul piano internazionale, una società iniqua, una democrazia malata, la prospettiva e, tutto sommato, la speranza, di una lunga e dura opera di risanamento.

(gim.cassano@tiscali.it), 02-09-2011


{ Pubblicato il: 04.09.2011 }




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