paolo naso
Nessun commento“Il dolore ti prepara alla gioia. Con violenza, quel dolore sbatte ogni cosa fuori dalla tua casa e fa spazio a una nuova gioia che vi potrà entrare. Esso scuote le foglie gialle dal tuo cuore affinché altre verdi e fresche possano crescere al loro posto. Il dolore taglia vecchie radici affinché quelle nuove e ancora nascoste possano trovare lo spazio per crescere. Qualunque sia il dolore che esce dal tuo cuore, emozioni infinitamente migliori prenderanno il suo posto”.
All’indomani dell’11 settembre del 2001, queste parole del mistico sufi Gialalal-a-Din Rumi mi parvero tra le poche illuminanti e sensate che valesse la pena pronunciare e scrivere per commentare la tragedia di quel giorno.
L’11 settembre non segnò la fine della storia, né l’inizio di un jihad su scala globale, né la madre di tutte le battaglie di quello scontro di civiltà teorizzato dai neo-conservatori USA all’apice della loro popolarità. Fu e resta una tragedia, una macchia nera come troppe altre nella storia recente dell’umanità. Paradossalmente in quel contesto le parole di un mistico dell’islam non apparirono un invito a fuggire dalle angosce umane ma un richiamo all’impegno ad aprirsi a un nuovo corso della storia, delle relazioni internazionali e dei rapporti tra le religioni. Proprio la coscienza e la memoria dell’11 settembre, cioè, avrebbero potuto aprire una nuova stagione culturale, politica e persino spirituale, per l’Occidente come per il vicino oriente, per il cristianesimo come per l’islam.
Dieci anni dopo è giusto chiedersi com’è andata. A noi sembra che il bilancio sia in deficit, un chiaroscuro di luci e di ombre, di speranze e delusioni, di accelerazioni e di frenate.
La risposta politica agli attentati sono state due guerre che gli USA e i loro alleati non hanno perso e che però non sono riusciti a vincere. A lungo tutto l’Occidente, fino all’elezione alla Casa Bianca di Barack Obama, ha recitato il mantra della “guerra contro il terrore” finendo per ricompattare vasti settori del mondo arabo sotto i suoi leader peggiori e per isolare quei riformisti che non accettavano di rinunciare alla loro identità islamica. Da questo punto di vista nei dieci anni alle nostre spalle non è accaduto nulla di nuovo, non è cresciuta nessuna nuova radice e ci siamo ritrovati a camminare tra le vecchie foglie marce della guerra e del conflitto tra culture e religioni.
Quanto al mondo islamico si è ritratto in se stesso, come impaurito dal delirio di un nuovo califfato da una parte e dalla forza delle suggestioni fondamentaliste che scopriva al suo interno dall’altra. Ne è seguito un lungo periodo di tensioni, incomprensioni, fratture.
Ma c’è stato anche dell’altro: l’11 settembre ha offerto nuove potenzialità a quel “dialogo” interreligioso che rischiava di languire sul piano di un mero confronto tra dottrine e teologie. Sull’onda del domino geopolitico provocato dai fondamentalismi, la responsabilità e il ruolo delle religioni apparivano assai più netti e rilevanti. La domanda stringente era se le comunità e le tradizioni religiose, sempre più spesso fattori di conflitto, potessero invece operare a sostegno della convivenza e della pace. Iniziò così una stagione avvincente nella quale il Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), il Vaticano e molti altri soggetti anche laici seppero aprire spazi nei quali esponenti di diverse tradizioni religiose poterono conoscersi, dialogare e persino lavorare insieme. La giornata di preghiera per la pace convocata ad Assisi il 24 gennaio del 2002 costituisce ancora oggi l’icona di un nuovo ciclo del dialogo tra le religioni: più prammatico, operoso, impegnativo. Luci, presto soffocate dalle ombre di una nuova frattura, seguita al discorso di Papa Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006. Una tela pazientemente cucita subiva una lacerazione che gran parte del mondo islamico non attribuì al capo della Chiesa cattolica ma al cristianesimo tout court. Un passo indietro, che non ha pesato solo ai livelli più alti e istituzionali del dialogo cristiano islamico ma anche alla base, dove forse stava producendo i frutti più interessanti.
Un anno dopo, nel 2007, furono 138 personalità dell’islam mondiale a scrivere ai responsabili dell’ecumene cristiana per sollecitare la ripresa e il rilancio del dialogo tra la umma e l’ecumene cristiana: il segnale era della massima importanza perché per la prima volta erano dei musulmani a sollecitare gli esponenti delle varie chiese, eppure fu colto solo in parte. Qualche risposta formale ma, nella sostanza continuava, almeno da parte vaticana, una strategia di grande prudenza condizionata se non paralizzata dalla lotta al “relativismo”.
Maggiore impatto ebbe, due anni dopo, il discorso di Barack Obama pronunciato al Cairo il 4 giugno 2009, quello del “nuovo inizio” nelle relazioni tra l’Occidente e l’islam e del riconoscimento della valenza anche sociale e politica del dialogo tra credenti appartenenti a grandi comunità di fede. Fu una svolta, forse più culturale che politica ma, caduto il teorema dello scontro di civiltà, servì a reimpostare alcune relazioni tra l’Occidente e il mondo arabo e quindi anche tra la comunità cristiana e quella musulmana.
Oggi sono le rivoluzioni arabe a cambiare lo scenario e l’agenda del dialogo: a piazza Tahrir abbiamo visto rosari e mezzelune, Bibbie e Corani agitati da giovani cristiani e musulmani che lottavano insieme per la democrazia. Il cosiddetto dialogo arriva così a una nuova svolta: esce dai cenacoli e arriva sulle strade, laicizzandosi ed acquisendo maggiore concretezza. Per usare espressioni convenzionali, più che dialogo delle verità si fa dialogo della vita. Tra qualche settimana uomini e donne di diverse tradizioni religiose si ritroveranno il 27 ottobre ad Assisi sotto lo slogan “Pellegrini della verità, pellegrini della pace”. Un autorevole intervento del cardinale Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’Unità dei cristiani, pone l’accento sul tema della verità: “la sua negazione o anche l’indifferenza davanti a essa - ha scritto sull’Osservatore romano del 7 luglio - inietta il veleno della discordia nelle relazioni umane”. La verità, dunque. Ma quale? La “nostra” o quella che ci trascende e ci espone al giudizio di Dio? Quella che ciascuna tradizione ha codificato o quella che si esprime nella libertà dello Spirito? Quella che divide o quella che unisce? Camminiamo così in mezzo a foglie vecchie e nuove, incerti tra le macerie del passato - anche quelle dell’11 settembre - e il sogno di una nuova comunione tra i popoli e tra le religioni.
(nev-notizie evangeliche 35-36/2011)
{ Pubblicato il: 14.09.2011 }