Fondazione Critica Liberale   'Passans, cette terre est libre' - Abbiamo scelto come logo la fotografia d'un autentico 'Albero della Libertà ancora vivente. È un olmo che fu piantato nel 1799 dai rivoluzionari della Repubblica Partenopea, Luigi Rossi e Gregorio Mattei, a Montepaone Superiore, paese dello Jonio catanzarese. La scritta &lequo;passans ecc.» era qualche volta posta sotto gli 'Alberi della Libertà' in Francia.
 
Direttore: Enzo Marzo

Dal 1969 la voce del pensiero laico e liberale italiano e della tradizione politica che difende e afferma le libertà, l'equità, i diritti, il conflitto.

"Critica liberale" segue il filo rosso che tiene assieme protagonisti come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini ed Ernesto Rossi, Einaudi e il "Mondo" di Pannunzio, gli "azionisti" e Bobbio.

volume XXIV, n.232 estate 2017

territorio senza governo - l'agenda urbana che non c'è

INDICE

taccuino
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67. paolo bagnoli, la nostra preoccupazione
68. coordinamento democrazia costituzionale, appello alla mobilitazione per una legge elettorale conforme alla Costituzione
106. comitati unitari per il NO al “rosatellum”, l’imbroglio degli imbrogli
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territorio senza governo
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69. giovanni vetritto, l’italia del “non governo” locale
73. pierfranco pellizzetti, alla ricerca del civismo perduto
79. antonio calafati, le periferie delle metropoli italiane
84. paolo pileri, molta retorica, pochi fatti
86. giovanni vetritto, post-marxisti inutili
88. valerio pocar, primo comandamento: cementificare
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astrolabio
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89. riccardo mastrorillo, finanziare sì, ma come?
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GLI STATI UNITI D'EUROPA
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93. sarah lenderes-valenti, la risorsa più grande
94. luigi somma, le democrazie invisibili
97. claudio maretto, la discontinuità paga
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castigat ridendo mores
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100. elio rindone, basta con l’onestà!
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l'osservatore laico
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103. carla corsetti, il principio di laicità
107. gaetano salvemini, abolire il concordato
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terrorismo e religione
109. pierfranco pellizzetti, jihad combattuta alla john wayne
114. alessandro cavalli,quattro cerchi
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lo spaccio delle idee
117. gianmarco pondrano altavilla, cari liberisti, chi conosce un buon medium?
118. luca tedesco, savoia o borbone? lo storico è un apolide
119. gaetano pecora, ernesto rossi, “pazzo malinconico”
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78.92.102. spilli de la lepre marzolina
116. la lepre marzolina, di maio ’o statista
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Critica liberale può essere acquistata anche on line attraverso il sito delle Edizioni Dedalo con transazione crittografata e protetta.
.A ROMA IL FASCICOLO PUO' ESSERE ACQUISTATO ANCHE PRESSO L'EDICOLA DEI GIORNALI IN PIAZZA DEL PARLAMENTO.
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Il numero di “Critica liberale” può essere acquistato nelle seguenti librerie:
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comitato di presidenza onoraria
Mauro Barberis, Piero Bellini, Daniele Garrone, Sergio Lariccia, Pietro Rescigno, Gennaro Sasso, Carlo Augusto Viano, Gustavo Zagrebelsky.

* Hanno fatto parte del Comitato di Presidenza Onoraria: Norberto Bobbio (Presidente), Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Giancarlo Lunati, Italo Mereu, Federico Orlando, Claudio Pavone, Alessandro Pizzorusso, Stefano Rodotà, Paolo Sylos Labini. Ne ha fatto parte anche Alessandro Roncaglia, dal 9/2014 al 12/2016.
 
05.02.2018

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Per un Nuovo Risorgimento, per uscire dagli anni di fango, per un’Italia europea moderna e laica. (Contributo per il manifesto di un partito italiano di liberali europei) PRIMA PARTE

giulio ercolessi

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La Fondazione Critica Liberale, di fronte alla sempre più drammatica catastrofe civile ed economica in corso, ritiene compito ormai ineludibile la costruzione nel sistema politico italiano di una formazione di liberali democratici e riformatori europei. Propone con queste tesi un primo proprio contributo in questa direzione.

Il “Grande Vuoto”: la mancanza di una forza politica liberale nel sistema politico italiano

La presenza liberale è stata sempre minoritaria nella democrazia italiana. All’inizio degli anni Novanta si sarebbero forse potute realizzare le condizioni per un rinnovato protagonismo liberale, grazie al concomitante effetto del tramonto del comunismo, della progressiva secolarizzazione della società italiana, del dibattito in corso all’epoca sulla riforma delle istituzioni europee, e della crescente interdipendenza globale. Gli eventi seguiti al crollo del sistema politico precedente, travolto dalla mancanza di alternanza, dalla stagnazione e dalla corruzione, portarono invece alla lunga stagione politica che ha avuto per nefasto protagonista Silvio Berlusconi. In questi anni un soggetto liberale che si presentasse credibilmente e apertamente come tale nel sistema politico italiano è così mancato del tutto.

Un Nuovo Risorgimento per uscire dalla catastrofe, per restaurare la decenza della vita civile

L’indecorosa stagione del berlusconismo, che sembra oggi finalmente avviata a sua volta alla fine, è stata invece improntata al malaffare, alla corruzione dilagante, al diffuso trionfo del servilismo, alla dimissione generalizzata di responsabilità a ogni livello, a un complessivo degrado civile. È stata, molto più che una stagione politica, il nuovo capitolo di un’avvilente “autobiografia della nazione”, con radici, purtroppo ben conosciute e indagate, in una parte importante della storia e dell’antropologia culturale del paese; ma non è stata riconosciuta come tale – se non solo alla fine e solo di fronte all’evidenza ormai accecante degli eventi – soprattutto dal Pd e dalla sinistra estrema, che per anni non hanno contrastato il berlusconismo come era necessario, e lo ha piuttosto considerato un normale avversario di destra come tanti altri in Europa – e spesso un accettabile partner di spartizioni e lottizzazioni. Così, il berlusconismo ha influenzato e finito per inquinare pesantemente anche parte della stessa opposizione.
È verosimile che oggi si stia ormai giungendo alla saturazione, che almeno le evidenti responsabilità della consorteria berlusconiana nell’aver spinto l’Italia nella prima linea della crisi economica mondiale abbiano finalmente aperto gli occhi a molti. È probabile che una percentuale di cittadini elettori, magari ancora non maggioritaria, ma molto più forte che in ogni altra epoca del passato repubblicano, sia potenzialmente disponibile a vedere nella rinascita di un liberalismo organizzato italiano un elemento indispensabile per la ricostruzione civile, per una ritrovata serietà e responsabilità delle scelte della politica, per la restaurazione del senso del diritto e della legalità costituzionale, per promuovere la rinascita civile ed economica del paese e la sua modernizzazione, per riprendere il filo di un Nuovo Risorgimento, a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia; nella prospettiva, anch’essa in piena sintonia con aspirazioni risorgimentali già all’epoca fortemente sentite, di un rilancio dell’unità e dell’integrazione federale di un’Europa anch’essa oggi in profonda crisi.
Sarebbe però sbagliato illudersi: la fine politica di Berlusconi, ammesso che essa sia davvero imminente, non coinciderà con la fine del berlusconismo. Gli italiani che hanno oggi fino a quarant’anni d’età hanno potuto conoscere pressoché soltanto, nella loro vita adulta, una politica del tutto diversa da quella di una normale democrazia europea. Da una parte hanno conosciuto un cosiddetto centrodestra che, per la sua componente maggioritaria, sarebbe arbitrario riferire a culture politiche di qualsivoglia segno, perché nella sostanza si identificava soltanto con gli interessi personali, giudiziari ed economici, di Berlusconi – e al più con le sue campagne pubblicitarie e con le sue fisime da dilettante politico allo sbaraglio; e che per il resto corrispondeva a quel che, negli altri paesi occidentali, è rappresentato da frange estremiste e lunatiche, finché possibile sistematicamente scansate dalle potenziali destre di governo. Dall’altra parte, e per conseguenza, hanno conosciuto un “centrosinistra” che, all’epoca della sua ultima esperienza governativa, corrispondeva a molto più di quel che nei normali paesi europei è un sistema politico intero, dato che andava dal trotzkista Turigliatto fino al monarchico Fisichella: una coalizione entro cui il sistema elettorale obbligava a riunirsi tutti coloro che volevano liberarsi dal berlusconismo, ma che, proprio per questo, non poteva esprimere nessun coerente indirizzo politico.
Ma il berlusconismo prolungherà la sua nefasta influenza negli anni a venire soprattutto per le macerie e il degrado che lascia dietro di sé tanto nella politica quanto nella vita civile, per la caduta verticale del peso politico ed economico dell’Italia in Europa e nel mondo, per il diffuso venir meno, a ogni livello, di ogni senso di responsabilità individuale, per l’asservimento della pubblica amministrazione, per la stagnazione economica e parassitaria che ne ha contrassegnato il passaggio, per avere fatto perdere al paese l’opportunità di avviare una stagione di improcrastinabili liberalizzazioni e riforme. E, da ultimo, anche per gli interessi raddoppiati sui titoli di Stato decennali prossimamente in scadenza, che costituiranno un’ancor più tangibile “bolletta Berlusconi”, almeno decennale, a carico dei contribuenti e dei cittadini, delle imprese e dei lavoratori.
Una democrazia liberale, una società aperta e un’economia di mercato non possono sopravvivere senza cittadini consapevoli, responsabili e civicamente formati. La premessa indispensabile di un Nuovo Risorgimento è una ricostruzione etico-politica e civile, una ricostruzione della cultura politica diffusa, che a sua volta implica una presa di coscienza collettiva dell’entità del degrado. La prima decisione identitaria di un partito che voglia rifarsi al liberalismo europeo dev’essere il rifiuto della pratica, teorizzata e portata agli estremi in questi anni dal berlusconismo, che vuole la politica ridotta a propaganda commerciale e a packaging e gli elettori trattati come bambini di undici anni perché tali sono le regole codificate dalla pubblicità commerciale.
La ricostruzione della legalità, del senso del diritto, dell’etica pubblica, della memoria storica dell’Italia e dell’Europa democratiche, dell’educazione civica e dell’educazione alla cittadinanza – a partire dalle scuole di ogni ordine e grado – deve essere il punto di partenza, la qualificazione identitaria, la premessa di ogni discorso e proposta programmatica di una nuova forza politica liberale.

Una forza politica che si distingua visibilmente per la diversa qualità del suo personale politico

Questo presuppone innanzitutto un vaglio della qualità etico-politica e della personalità civile delle candidature a ogni carica pubblica e di partito, che deve necessariamente essere più approfondito, e meno formale, di quello consistente nella mera esibizione della fedina penale o del certificato dei carichi pendenti; o nell’assunzione di impegni di fedeltà o di obbedienza, tanto solenni quanto poi nella sostanza non giuridicamente vincolanti, e soprattutto incoerenti con il carattere storico-giuridico della rappresentanza politica nel parlamentarismo liberale. Si rischierà altrimenti di accreditare politicanti di dubbia probità o faccendieri mai colti sul fatto, a scapito magari dei protagonisti dichiarati di iniziative, spesso perfino meritorie, di disobbedienza civile nonviolenta (è stato, a mero titolo di esempio, il caso di dirigenti radicali che, qualunque cosa si possa pensare del contenuto delle loro iniziative, certamente non meritavano, per quelle ragioni, alcuna squalifica di carattere etico-politico, e ancor meno di incorrere in impedimenti legali), o a scapito di personalità civili forti e vigorose.
Alla fine, il danno che può essere procurato dall’elezione di politicanti di dubbia consistenza etica e civile è immensamente più devastante di ogni possibile svantaggio derivante dal mancato apporto delle loro clientele elettorali. Meglio essere assenti o marginali in collegi elettorali anche rilevanti che vedersi rinfacciata la responsabilità di aver fatto eleggere personaggi screditati. In una fase storica in cui il livello medio della classe politica sembra anche peggiore di quello del “Parlamento degli inquisiti”, una forza politica che si proponga di dar vita a un Nuovo Risorgimento deve innanzitutto distinguersi perché del suo personale politico deve, per quanto possibile, risultare credibile l’incorruttibilità.
Un nuovo partito di orientamento liberale non può permettersi un ordinamento interno che non sia coerente con i suoi fini. Pur con gli inevitabili limiti che la migliore scienza politica ha da decenni riconosciuto essere intrinseci alla “democrazia in piccolo”, cioè alla democrazia “interna” ai partiti, quest’ultima non è soltanto un’esigenza civile e un obbligo costituzionale, ma anche il migliore strumento per la selezione della classe dirigente, e per attrarre non, come per lo più accade nella politica italiana, i più servili e conformisti – che sono sempre, anche, i più disponibili a piroette trasformistiche – ma i più capaci, corretti e rispettabili, e i più lontani dalla ciarlataneria e corrività dilaganti.
Particolarmente perniciosa, anche per il futuro del paese, è la pratica di offrire ai più giovani soltanto la scelta fra una contrapposizione dall’esterno alle istituzioni, già sperimentata con esiti nefasti in un passato non lontano, inevitabilmente sterile e potenzialmente pericolosa per il futuro della Repubblica, un ruolo servile e conformista all’interno dei partiti, di supporto ancillare alla politica già decisa dagli “adulti”, e quello di rappresentanza solo corporativa e rivendicativa di interessi e bisogni generazionali, che la politica ha certamente per lo più ignorato e calpestato, ma che, come ogni altro interesse e bisogno sociale, devono potersi vedere invece rappresentati alla pari in partiti politici rinnovati e non più castali e autoreferenziali. Capaci, soprattutto, di quella “visione lunga” che nelle democrazie contemporanee sembra essere venuta drammaticamente meno ovunque.

Un partito collocato nel centrosinistra italiano

Oggi una forza politica liberale italiana, in un sistema tendenzialmente bipolare, trova la sua collocazione naturale nel centrosinistra.
La destra italiana non è mai stata, salvo eccezioni individuali, almeno a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento e fino ai giorni nostri, una destra liberale. Non è mai stata neppure, al di là della retorica d’occasione, una destra liberista. Per lo più, è stata piuttosto una destra corporativa, pronta alla difesa di ogni esistente interesse costituito, di ogni monopolio, rendita e posizione dominante, di ogni potere parassitario e castale (non di rado anche malavitoso), anche quando questo era di ostacolo alla modernizzazione del paese, alla sua crescita economica, allo sviluppo di un’economia di mercato aperta alla concorrenza e al riconoscimento del merito. Per lo più è stata una destra “democratica” solo quando ha potuto giocare la carta della demagogia e del populismo; è stata quasi sempre una destra clericale, autoritaria, talvolta disponibile ad avventure e scorciatoie irrispettose delle regole costituzionali e della legalità; è stata comunitarista, familista e tradizionalista piuttosto che individualista. E oggi il risultato di diciotto anni di berlusconismo è un paese in cui la mobilità sociale è bloccata in una misura che, pur nella crisi globale, non trova riscontri in nessun’altra società europea o occidentale.
Ma soprattutto, nell’Italia di oggi un partito di orientamento liberale non può che collocarsi stabilmente fra le forze politiche intenzionate a ripristinare le normali regole di funzionamento di una democrazia liberale europea. Quindi, necessariamente, nel campo opposto a quello di chi ha accettato in questi anni di fare politica nella coalizione guidata da Berlusconi: cioè in quello che nell’Italia di questi anni viene correntemente definito il centrosinistra.
Non essendo ragionevolmente pensabile che un partito liberale giunga a ottenere da solo una maggioranza parlamentare, è con quelle forze che sarà necessario giungere agli inevitabili compromessi. Al fine di evitare il ripetersi della sfortunata esperienza della legislatura 2006-2008, il ragionevole perimetro della coalizione dovrà essere quello entro il quale sia possibile condividere scelte di politica economica responsabili, capaci di favorire il risanamento dei conti pubblici, una forte politica di liberalizzazioni e di dismissioni, e al tempo stesso il rilancio della domanda – condizione quest’ultima indispensabile per la ripresa – per un verso; e per l’altro, scelte di politica internazionale miranti innanzitutto a riprendere il cammino dell’approfondimento dell’integrazione e dell’unità europea, per un’Europa protagonista nel mondo globale e capace di un rapporto di alleanza con gli Usa riformulato sulla base dell’esistenza effettiva di entrambi i suoi due necessari pilastri.
Anche le riforme in materia di diritti civili, così a lungo rinviate, soprattutto quelle più legate alla laicità delle istituzioni – riforme che caratterizzano ovunque in Europa la politica liberale – dovrebbero essere parte naturale del patrimonio comune di una coalizione di centrosinistra, e anzi di tutte le forze politiche democratiche; se però non dovesse essere possibile ottenere l’impegno dell’intera coalizione a loro sostegno, piuttosto che accettare nuovi compromessi al ribasso su laicità e questioni “eticamente controverse”, meglio sarebbe ritornare, come all’epoca delle battaglie per le leggi sul divorzio e sull’aborto, a scorporare del tutto tali questioni dagli accordi di governo, per lasciarle alla libera iniziativa parlamentare, quale naturale terreno di caratterizzazione autonoma per un partito di ispirazione laica e liberale.

Abrogare le leggi vergogna, risolvere il conflitto d’interessi, restaurare l’indipendenza dei media

Se la ricostruzione etico-politica e civile della democrazia dev’essere il punto di partenza, un programma per la prossima legislatura non può non partire dall’abrogazione di tutte e ciascuna le “leggi-vergogna” e ad personam approvate negli anni del berlusconismo; e altresì dallo smantellamento delle posizioni dominanti nel mercato dei media, che per diciotto anni hanno profondamente snaturato il gioco democratico, da realizzare attraverso un drastico abbassamento dei tetti per la raccolta pubblicitaria, sfondati dalla maggioranza uscente al solo scopo di consolidare la posizione dominante di Berlusconi, e attraverso l’introduzione di una normativa antitrust in campo televisivo che impedisca a qualunque gruppo economico di possedere più di una rete televisiva terrestre generalista a diffusione nazionale. Solo così sarà possibile ripristinare il pluralismo dell’informazione, vitale per ogni democrazia, e condizioni minimamente accettabili di parità nelle competizioni politiche ed elettorali; e superare l’attuale intollerabile inquinamento della vita democratica determinato dallo strapotere mediatico privatamente detenuto da uno dei soggetti competitori nella sfera della politica. A tacere dello stravolgimento costante di ogni regola di deontologia giornalistica cui tale situazione inevitabilmente conduce, non è ulteriormente tollerabile che, in occasione di ogni campagna elettorale, per una delle due parti effettuare propaganda elettorale televisiva a pagamento costituisca poco più che una partita di giro e che per l’altra significhi contribuire al finanziamento del proprio avversario nella stessa competizione in corso.
Anche per quel che riguarda l’informazione pubblica radiotelevisiva, non è più tollerabile il suo controllo da parte dei padroni della politica del momento, esercitato attraverso giornalisti e faccendieri di fiducia. Se condizioni per assicurare l’indipendenza, la completezza e l’imparzialità dell’informazione radiotelevisiva pubblica non fossero visibilmente ripristinabili fin dall’inizio della legislatura, meglio sarebbe optare per la messa sul mercato delle reti televisive pubbliche, o quanto meno per conservarne in mano pubblica non più di una soltanto.

Rafforzare le garanzie costituzionali per prevenire future avventure autoritarie e populiste

L’esperienza del berlusconismo ha dimostrato che la stessa solidità delle istituzioni e delle garanzie costituzionali può essere messa a repentaglio da una maggioranza politica populista ignara e irrispettosa delle fondamentali regole del gioco di una democrazia liberale.
Ciò richiede che si prenda atto con urgenza del rapporto esistente fra leggi elettorali e garanzie costituzionali. Tutti i quorum di garanzia previsti dalla Costituzione vigente furono fissati dall’Assemblea Costituente sulla base del presupposto, tacito quanto all’epoca unanimemente condiviso, che la legge elettorale per la formazione di entrambe le Camere sarebbe stata fondata sulla rappresentanza proporzionale. Quando si effettuò la transizione a sistemi elettorali maggioritari si trascurò di adeguare i quorum all’avvenuto mutamento della composizione elettorale delle Camere. Oggi si impone quindi di porre urgentemente mano all’adeguamento dei quorum costituzionali, per ripristinare l’originaria rigidità delle garanzie costituzionali, a cominciare della garanzia dei diritti e delle libertà costituzionali dei cittadini, contro la possibilità di future avventure autoritarie e populiste. Sarà perciò necessario elevare i quorum richiesti per l’approvazione di modifiche della Costituzione, per l’elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare, per l’elezione del Presidente della Repubblica, per quella dei membri laici del Csm, per le modifiche dei regolamenti parlamentari. Anche le possibilità di ricorso al referendum costituzionale dovrebbero essere ampliate, escludendone soltanto il caso di un’approvazione quasi unanime delle modifiche costituzionali da parte delle Camere (dell’ordine, approssimativamente, di una maggioranza dei quattro quinti in seconda lettura). E infine dovrà essere reintrodotta l’originaria prorogatio in carica dei giudici costituzionali, in modo da scongiurare la paralisi della Corte o un’alterazione dei suoi equilibri in caso di mancata tempestiva elezione o nomina dei successori da parte degli organi competenti.
Le menzionate modifiche costituzionali mirando esclusivamente a consolidare le garanzie costituzionali esistenti adeguandole all’avvenuto mutamento della legge elettorale, dovranno essere votate dalla nuova maggioranza in ogni caso, in inizio di legislatura, se possibile coinvolgendo l’opposizione, o altrimenti con il raggiungimento della sola maggioranza qualificata attualmente richiesta dalle norme vigenti. Ogni modifica della Costituzione diversa e ulteriore dovrà invece essere eventualmente discussa e approvata solo una volta introdotti i nuovi e più elevati quorum costituzionali.
La sola eccezione dovrebbe riguardare l’introduzione in Costituzione della previsione di una necessaria maggioranza qualificata anche per la modifica dei principi che regolano le leggi elettorali per la formazione delle Camere. Se è necessario, doveroso e urgente riparare immediatamente e comunque – cioè prima ancora dell’entrata in vigore del rafforzamento delle garanzie costituzionali qui proposto – al vulnus rappresentato dalla imposizione unilaterale della legge “porcata” (possibilmente prima ancora della prossima legislatura, e ripristinando tale e quale la legge elettorale previgente, non per i suoi pregi, ma proprio perché si tratta dell’ultima legge elettorale in ordine di tempo approvata dal Parlamento a larga maggioranza), per il futuro, e per le stesse ragioni appena enunciate, appare opportuno che la Costituzione richieda maggioranze qualificate (indicativamente i due terzi), almeno per l’approvazione di quelle modifiche che incidano sui principi fondamentali che regolano la materia elettorale.

Il quadro indispensabile: investire sull’Europa e rilanciare i processi di integrazione

Solo un’Italia che abbia inequivocabilmente dimostrato di voler voltare pagina dopo gli anni di fango del berlusconismo può avere le carte in regola per tornare, dopo una paralisi quasi ventennale, a svolgere lo storico ruolo di stimolo e di avanguardia nel processo di integrazione europeo che era stato proprio della diplomazia italiana ininterrottamente dagli anni Cinquanta fino all’avvento di Berlusconi.
Quella europea è la dimensione minima necessaria perché gli europei possano ritornare ad avere un peso nel mondo globale anziché essere soggetti a subire decisioni assunte da altri. Nessuno degli Stati europei può oggi essere singolarmente preso sul serio come protagonista della politica mondiale. Nessuna scelta strategica, nessuna importante iniziativa internazionale, può essere fatta valere nel mondo globale, nel campo dell’economia e delle sue regole, come in quello della politica, della sicurezza, dell’ambiente, dell’energia, della protezione sociale, del commercio internazionale, del soft power democratico, se non si tratta almeno di una scelta dell’Europa, e non soltanto di una scelta concordata volta per volta e all’unanimità da 27 Stati europei, che, presi singolarmente, sono ormai tutti, su scala globale, Stati di piccole, piccolissime o al più di medie dimensioni.
Questo significa che il solo soggetto politico europeo in grado di assumere scelte politiche di fondo, che possano avere qualche chance di influire sulla politica mondiale, e quindi sulle vite individuali dei cittadini europei che ormai vivono nel mondo globale, non può che essere un soggetto politico europeo direttamente e democraticamente legittimato a livello europeo.
Un’Europa che pretendesse di continuare a esistere come organizzazione essenzialmente intergovernativa, che pretendesse di continuare ad affidare la propria presenza nel mondo a decisioni politiche di fondo assunte volta per volta e all’unanimità dai rappresentanti di 27 governi statali sarebbe un’Europa condannata all’irrilevanza e al declino. Esattamente come a un destino di inesistenza si condannerebbero l’Italia o la Germania se ogni scelta di politica internazionale o di politica economica fosse sistematicamente rimessa a compromessi unanimistici da raggiungere fra i rappresentanti delle venti regioni italiane o dei sedici Länder tedeschi, con le loro diverse priorità economiche e strategiche e con le loro differenti maggioranze politiche e preoccupazioni e scadenze elettorali.
La crisi economica ha messo in evidenza in maniera irrefutabile che affidare a un meccanismo intergovernativo la gestione delle scelte economiche che richiedono decisioni di livello europeo, non è solo incompatibile con la formazione democratica del consenso, perché i Parlamenti statali non possono poi far altro che approvare a scatola chiusa e senza emendamenti i compromessi raggiunti, pena la paralisi o il rischio di cataclismi: rende anche impossibile la tempestività e l’efficacia delle decisioni necessarie alla stessa difesa, e alla lunga probabilmente alla sopravvivenza, della moneta unica. La moneta, il mercato unico, in definitiva la prosperità dell’Europa, richiedono, ormai in modo evidente, un decisore politico europeo democraticamente e direttamente legittimato dagli elettori.
In prospettiva, tutte le scelte che richiedono una decisione di livello europeo, a cominciare dalla gestione e difesa della moneta, del mercato unico, della politica estera e di sicurezza, dovrebbero essere assunte a livello europeo, e a livello europeo direttamente finanziate, sottraendo tali competenze, e sottraendo la relativa potestà impositiva, ai governi statali.
Una forza politica liberale decisa a non trattare gli elettori come bambini irresponsabili deve saper parlare loro in modo chiaro e onesto: non c’è scelta politica di fondo che nel mondo globale possa essere assunta controcorrente da singoli Stati di dimensioni piccole o medie come quelle degli Stati europei senza che questi ne siano travolti. E non c’è scelta di fondo dell’Europa che possa essere assunta democraticamente ed efficacemente, con la tempestività che è richiesta da molte decisioni essenziali, da un’Europa intergovernativa. Solo istituzioni democraticamente e direttamente legittimate di un’Europa integrata, rappresentanti mezzo miliardo di cittadini e uno dei mercati più vasti e ricchi del mondo, potranno ancora far valere la sua voce e il suo peso politico, economico e culturale nel mondo globalizzato.
Ed è solo nella dimensione europea che tornerebbero ad avere senso gli impegni degli europei per la pace e la sicurezza nel mondo, nel quadro della Carta delle Nazioni Unite e di un’Alleanza Atlantica riequilibrata dall’effettiva esistenza di entrambi i suoi due pilastri. Solo forze di sicurezza e difesa di un’Europa politica potrebbero fare la differenza nei contesti di crisi internazionale, anziché svolgere un ruolo ancillare nell’ambito di scelte assunte altrove: un ruolo che oggi, per ciascuno dei singoli Stati europei coinvolti, finisce per avere soltanto il significato simbolico di una scelta politica di avallo e sostegno a quelle americane, ed entro il quale i richiesti sacrifici risultano sempre più incomprensibili e inaccettabili alle opinioni pubbliche.
Ma è l’esistenza stessa di 27 distinte forze armate, con le relative 27 distinte catene di comando e i 27 separati centri di spesa, che costituisce per i contribuenti europei uno spreco economico astronomico e inaccettabile. Così come costituiscono uno spreco le 27 reti mondiali di rappresentanza diplomatica e consolare attualmente esistenti.
Non ha alcun senso parlare di politiche estere, di difesa e di sicurezza comuni e continuare a mantenere in vita, nel pieno di una crisi globale in cui il peso relativo dell’Europa nel mondo sta colando a picco, le stesse strutture che furono pensate per 27 diverse politiche estere, di difesa e di sicurezza.
Alla ciarlataneria populista antieuropea oggi dilagante, una forza politica liberale deve essere capace di opporre quel che a Luigi Einaudi era già chiarissimo più di sessant’anni fa: lungi dall’essere garanzia di autodeterminazione democratica, la sovranità nazionale degli Stati è oggi «polvere senza sostanza», un falso idolo cui le vecchie nazioni europee, se non saranno capaci di disfarsene, finiranno per sacrificare tanto l’autodeterminazione quanto la democrazia, assieme alla loro declinante prosperità.

La crisi e il ruolo dell’Europa: nuove regole per difendere la globalizzazione e l’economia di mercato

Anche la crisi globale può davvero essere realisticamente affrontata alle sue radici e nelle sue cause solo a partire da decisioni globali, di cui gli europei possono essere parte significativa e autorevole solo se rappresentati da un soggetto politico unitario. Tale è la dimensione minima necessaria per poter porre seriamente in discussione con gli altri attori globali anche quel che non ha funzionato in questi anni nell’economia globale.
E se gli europei vogliono cercare di difendere quel che può essere salvaguardato, nella mutata situazione demografica e politica, del “modello sociale” di cui vanno fieri, devono al tempo stesso renderlo sostenibile con riforme profonde, e adeguate ai mutamenti demografici, tecnologici e politici intervenuti negli ultimi decenni.
La globalizzazione ha prodotto uno sviluppo senza precedenti di intere aree del pianeta che vivevano nel sottosviluppo e nella miseria fino a pochi anni fa. E ha prodotto, parallelamente, un gigantesco trasferimento di ricchezza e di potere dal Nord a una parte almeno del Sud del mondo, che nessun piano di assistenza allo sviluppo avrebbe potuto nemmeno concepire.
la globalizzazione, creando una forte interdipendenza, ha anche reso pressoché impossibile, almeno nel futuro prevedibile, lo scoppio di quella terza guerra mondiale nucleare che era stata una minaccia possibile e verosimile per tutta la durata della guerra fredda, almeno da quando, nel 1949, l’Urss era diventata anch’essa una potenza nucleare. Oggi non sembra neppure concepibile una guerra nucleare mondiale, come quella evitata per un soffio al tempo della crisi di Cuba – e di nuovo rischiata da vicino, questa volta neppure per consapevole azzardo, ma per puro errore da parte sovietica, almeno in un’altra occasione nel 1983. Che l’interdipendenza economica creata dalla libertà dei commerci costituisca la migliore salvaguardia della pace, la cultura liberale lo aveva affermato con forza sin dai tempi di Spinoza, di Voltaire e di Kant. Ma oggi la globalizzazione dei mercati e del commercio internazionale pone l’umanità soprattutto al riparo dal rischio novecentesco, che si era protratto per quarant’anni, di un annientamento totale per effetto di un possibile conflitto armato fra grandi potenze nucleari. Anche questo va detto ai cittadini elettori, e contrapposto alla diffusa deprecazione dello spossessamento di autonomia politica che la globalizzazione ha comportato per i vecchi Stati-nazione.
Al tempo stesso, la mancanza di regole globali, e di modelli sociali condivisi almeno nelle grandi linee, ha posto le società occidentali, e soprattutto gli europei occidentali, nella condizione di dover ridurre il livello di protezione sociale e di vedere aumentare le disuguaglianze interne, per non dover soccombere nella competizione globale. Si è salvato solo chi è riuscito a esportare merci ad alto o altissimo valore aggiunto: ma non è possibile che tutti esportino, e comunque ciò sarà sempre meno possibile a tutti gli europei e gli occidentali, man mano che si vedranno gli effetti degli enormi investimenti sull’istruzione in corso già da anni nelle principali economie emergenti.
Come nel 1929, l’aumento delle disuguaglianze ha finito da una parte per deprimere la domanda aggregata e ha generato dall’altra la ricerca di impegni speculativi per masse di liquidità che non potevano essere impiegate in investimenti produttivi che non avrebbero trovato platee abbastanza vaste di consumatori affluenti. Come allora, è oggi compito elettivo dei liberali la difesa e la ricostruzione delle condizioni di sviluppo del capitalismo e dell’economia di mercato, che si sono dimostrati nella storia, senza possibili confronti, gli strumenti più efficaci per creare le condizioni di benessere diffuso necessarie anche allo sviluppo umano e delle libertà individuali.
Una forza politica liberale dovrebbe stimolare l’Europa, cioè l’area politica ed economica mondiale relativamente più danneggiata dalla crisi, a farsi promotrice di nuove regole capaci di rendere la globalizzazione compatibile con politiche dei redditi capaci di sostenere la domanda aggregata, di rilanciare gli investimenti e di ostacolare la formazione di bolle speculative: stabilendo a livello internazionale efficaci forme di vigilanza sulla correttezza delle operazioni finanziarie, promuovendo sviluppo umano e libertà individuali – comprese quelle sindacali – nei paesi emergenti, sostenendo l’innovazione e la ricerca, incentivando la competizione su terreni anche diversi da quello del mero costo della manodopera, imponendo regole di correttezza e trasparenza nei mercati finanziari, coordinando e promuovendo la lotta internazionale alla criminalità economica organizzata e al riciclaggio dei capitali mafiosi.

La crisi e le scelte interne: agire con responsabilità, restaurare le regole, favorire lo sviluppo

Nell’attuale mondo globalizzato qualunque scelta di politica economica meramente interna non può avere effetti miracolistici, perché ogni paese deve inevitabilmente giocare con le regole internazionali esistenti, pena il suicidio. Scelte responsabili sono obbligate, per evitare il peggio incombente e per contenere i danni causati dai diciotto anni perduti allo sviluppo: come ha recentemente ricordato l’Economist, l’Italia è il paese occidentale cresciuto di meno, nel mondo, nell’ultimo decennio, con tassi di crescita pro capite paragonabili solo a quelli conseguiti nello stesso periodo da paesi come Costa d’Avorio, Eritrea, Haiti, Madagascar, Repubblica Centrafricana, Togo o Zimbabwe.
Se nelle due precedenti occasioni i governi presieduti da Berlusconi avevano provocato un azzeramento dell’avanzo primario, con questo governo la politica di bilancio impostata su tagli orizzontali dal ministro Tremonti, che non ha saputo discriminare fra dissipazioni e investimenti vitali, ha sì evitato – grazie alle diffide preventive dell’Ue, chiaramente espresse all’atto stesso della costituzione del nuovo governo visti quei precedenti – il ripetersi dello stesso fenomeno anche in questa legislatura, ma al prezzo di compromettere lo sviluppo, l’occupazione, le prospettive future. E infine, con la mancata riduzione del debito e l’assenza di crescita e di investimenti, ha provocato anche il dissesto della finanza pubblica.
Alla fine di questa lunga dissipazione, l’avvenuto commissariamento della politica economica italiana per evitare il disastro comune, da parte dei partner europei e della Bce, se ha evitato in extremis, almeno per ora, la catastrofe che il governo Berlusconi aveva potentemente concorso a farci sfiorare, rende ora più difficile ogni cammino di riforma e ogni rilancio dello sviluppo.
Un futuro governo di centrosinistra dovrà innanzitutto guardarsi dal prevedibile tentativo di arrembaggio alla spesa pubblica che sarà certo tentato da pressoché ogni componente politica e sociale della – prevedibilmente composita – coalizione vincente. Ma, invece di continuare con il rovinoso espediente dei tagli lineari, dovrà dar prova di quella capacità di discernimento nella spesa di cui la coalizione berlusconiana non avrebbe potuto essere capace, attraverso un minuzioso e sistematico spending review.
Sul piano delle entrate, dovrà da subito essere resa permanente la tracciabilità dei trasferimenti, inizialmente abrogata dal governo Berlusconi che è stato poi costretto a reintrodurla, e che è strumento principe di lotta all’evasione e all’economia sommersa.
La corruzione diffusa, unitamente alla criminalità organizzata e alla lentezza e inefficacia della giustizia civile, è una delle cause principali della sfiducia e della carenza di investimenti in Italia. A vent’anni da Tangentopoli, secondo il rapporto annuale 2010 di Transparency International, l’Italia berlusconiana è oggi classificata al 67° posto nella graduatoria mondiale della corruzione percepita (ai primi posti si piazzano i paesi considerati a minor rischio di corruzione, agli ultimi i più corrotti): peggio, a titolo di esempio, di Ruanda, Ghana, Macedonia, Malesia o Giordania, e meglio (per un soffio), nell’Unione Europea, solo di Romania, Bulgaria e Grecia.
Separare i ruoli di regolazione e controllo dei pubblici poteri da quelli economici dei privati, prosciugare le zone grigie, evitare il più possibile gli accavallamenti, le sovrapposizioni e le collusioni, limitare la discrezionalità delle scelte amministrative, rendere più indipendente e celere la giustizia amministrativa e contabile sono tutti elementi necessari di una strategia di lotta alla corruzione e di creazione di un contesto più propizio agli investimenti in Italia.
La lotta all’evasione, che dovrà fin dall’inizio costituire una delle priorità dell’attività di governo, dovrà anche essere capace di adottare comportamenti e stili di condotta opposti a quelli, tipici di una antica tradizione autoritaria di rapporti fra cittadini e pubblici poteri che, presupponendo comportamenti disonesti da parte di tutti i cittadini, finiscono per promuovere essi stessi disonestà diffusa e ostilità nei confronti delle istituzioni, colpendo indiscriminatamente nel mucchio: a titolo di esempio, minacciando di indagini paralizzanti ed economicamente disastrose chi non si sottoponga preventivamente e indiscriminatamente a sanzioni mai meritate, oppure non discriminando negli studi di settore attività imprenditoriali agli esordi rispetto a quelle avviate da anni; o ancora adottando indiscriminatamente nei rapporti con i cittadini contribuenti toni e atteggiamenti intimidatori e polizieschi. Va insomma capovolta radicalmente la politica perseguita dai governi della coalizione berlusconiana che ha da un lato premiato la delinquenza economica dei grandi evasori e trasgressori, attraverso ogni sorta di condono e di sanatoria, e che dall’altro, attraverso i poteri conferiti a “Equitalia” e la sistematica iscrizione di ipoteche sugli immobili di abitazione a garanzia del pagamento di somme inizialmente modeste, ha letteralmente gettato sul lastrico e messo nelle mani degli usurai migliaia di privati cittadini – soprattutto cittadini di modesta condizione socioculturale – colpevoli di trasgressioni spesso insignificanti, quando non causate da mera distrazione o disinformazione.
La massima severità e priorità dovrà invece essere rivolta alla repressione della grande criminalità finanziaria, e anche dei fenomeni di corruzione e di collusione ad opera di pubblici ufficiali incaricati delle attività di accertamento e repressione dell’evasione o del controllo delle attività economiche.
Se la crisi impone, al tempo stesso, di assicurare rigore di bilancio e di non deprimere la crescita, sembra inevitabile l’adozione di un’imposta patrimoniale da imputare alla riduzione del debito, a cominciare dai grandi patrimoni, e parimenti necessario, a parità almeno di livello complessivo di pressione fiscale, rendere permanente, almeno fino all’avvenuta stabilizzazione dei conti pubblici, l’aumento delle aliquote Irpef sui redditi più alti e l’adeguamento definitivo della tassazione sulle rendite agli standard europei; e procedere appena possibile a una diminuzione, nei limiti del fattibile, sia dell’Irpef sui redditi più modesti, sia dell’Irap, cioè dell’imposta che maggiormente disincentiva le assunzioni a tempo indeterminato.
Dovrà essere invertita l’assurda tendenza degli ultimi anni, che ha reso il lavoro precario più conveniente di quello a tempo indeterminato, sia per quel che riguarda le retribuzioni, sia per quel che riguarda il peso degli oneri sociali.
Andranno aboliti tutti i privilegi e le esenzioni di carattere tributario introdotti negli ultimi anni a vantaggio delle attività commerciali svolte da enti a carattere ecclesiastico, che non solo hanno depauperato in modo ingiustificabile e consistente i bilanci dello Stato e soprattutto dei Comuni, ma che si traducono anche in altrettante forme di concorrenza sleale a danno di ogni altro soggetto che eserciti le stesse attività in regime ordinario.
La parte inoptata dell’otto per mille del gettito Irpef non dovrà più essere redistribuita fra gli enti beneficiari in proporzione alle scelte effettuate dai contribuenti optanti, ma dovrà essere attribuita ai Comuni di residenza dei contribuenti, per far fronte ai tagli operati a loro danno dal governo uscente. Dovrà essere posta fine alla scandalosa inerzia della commissione mista prevista in sede di revisione del Concordato, che avrebbe dovuto accertare da anni l’avvenuto adeguamento del gettito.
Andrà ripristinata e rimodulata l’Ici, sola tassa “federale” esistente prima della sua abolizione da parte del governo “federalista”.

Liberalizzare l’economia, privatizzare, dismettere.

Quelli di Berlusconi sono stati i soli governi europei degli ultimi trent’anni convenzionalmente “alla destra del centro” che non abbiano effettuato una sola liberalizzazione o privatizzazione di rilievo, e che abbiano addirittura cancellato ogni sforzo di liberalizzazione o di sburocratizzazione effettuato dai precedenti governi di centrosinistra.
Oggi è sotto l’urgenza della recessione, sotto la minaccia del fallimento, che deve essere fatto quel che l’inescusabile inerzia dei governi Berlusconi ha impedito di fare quando sarebbe stato più facile e incomparabilmente più redditizio per lo Stato.
Tutto il patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato, disponibile e vendibile deve essere messo sul mercato (salvo quel che eventualmente fosse immediatamente e convenientemente ristrutturabile per far fronte a esigenze di social housing soprattutto giovanili) e imputato innanzitutto alla riduzione del debito, così come tutte le partecipazioni in attività economiche, società miste, consorzi, ecc., nazionali, regionali e locali, dove la presenza pubblica costituisce per lo più e soprattutto un canale di finanziamento occulto della politica e di scambio clientelare, ed è quasi ovunque causa di diseconomie e inefficienza.
Ma è soprattutto sul piano delle liberalizzazioni che è necessario agire per rilanciare lo sviluppo, per quanto possibile in una situazione generale gravissima, e ulteriormente aggravata dal dissesto della finanza pubblica.
Anziché baloccarsi irresponsabilmente con una proposta di riforma costituzionale meramente declamatoria come quella dell’art. 41 della Costituzione, dai tempi lunghi, del tutto priva di conseguenze normative dirette una volta approvata, e per di più soggetta al rischio più che verosimile di una bocciatura referendaria che verrebbe interpretata anche dai mercati come il rifiuto catastrofico di qualunque processo di liberalizzazione, è sulla normativa ordinaria che occorre operare fin da subito, e sulla sua applicazione. Nessuna effettiva liberalizzazione è mai stata impedita dall’attuale testo dell’art. 41 – così come l’attuale testo dell’art. 81 non è del minimo ostacolo al pareggio del bilancio, purché il Parlamento lo voglia.
A dover essere abrogate sono piuttosto le norme protezioniste e corporative sugli ordini professionali, le lungaggini burocratiche, la disapplicazione sistematica delle norme, pur vigenti da anni, sulle autocertificazioni (altra realizzazione del centrosinistra che, forse per essere eterodossa o del tutto marginale rispetto alla sua cultura dominante, non è stata da questo valorizzata; e che è stata poi boicottata nei fatti dalla destra, forse perché realizzata dal centrosinistra, forse per genuino e assoluto disinteresse, dato che non coinvolgeva alcun tornaconto personale di Berlusconi).
In linea generale e di principio, tutte le attività economiche, e le partecipazioni in attività economiche, che possono essere svolte in regime di concorrenza – senza cioè ricreare nuovi monopoli parassitari e tributari della politica – dovrebbero essere dismesse dallo Stato e dagli enti territoriali.
E vanno rimossi tutti i privilegi e i divieti meramente ideologici, imposti dal servilismo della politica italiana per compiacere l’invadenza della gerarchia cattolica e ottenerne favori elettorali: ad esempio, non è possibile conservare, al tempo stesso, il numero chiuso per le farmacie e consentire ai titolari di esercitare capricciosamente la loro privata “obiezione” rispetto alla vendita di preservativi, anticoncezionali o altri farmaci prescritti dai medici e previsti dal prontuario farmaceutico. La rimozione dei divieti alla ricerca scientifica in materia di cellule staminali e di clonazione terapeutica aprirebbe all’industria italiana un campo di sviluppo fra i più promettenti per il prossimo futuro.

La spesa sociale: riformare il welfare per poterlo salvaguardare. La previdenza.

I mutamenti demografici, culturali e tecnologici degli ultimi decenni impongono di ripensare le strutture fondamentali del welfare europeo. Pretendere di mantenerlo tale e quale era stato pensato per una società industriale che non esiste più, in costante crescita demografica e in cui l’aspettativa di vita individuale era marcatamente inferiore all’attuale – e ancor più a quella che ulteriori progressi scientifici potrebbero consentire in un prossimo futuro – significherebbe rendere il suo costo insostenibile e condannarlo alla liquidazione, al più tardi nel giro di qualche lustro.
I mutamenti intervenuti non possono non riverberarsi sulla conformazione del sistema di welfare che è stato proprio della vecchia società industriale anche per un elementare principio di equità intergenerazionale. Ormai non sono soltanto “i più giovani” ad essere oggetto di una discriminazione intollerabile, che li vede dapprima costretti alla precarietà a vita, per effetto di norme che spingono le imprese – e spesso costringono la Pubblica amministrazione – a ricorrere al lavoro precario a discapito di quello a tempo indeterminato, con una smisurata e scandalosa diseguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato; e a essere poi destinati a una vecchiaia di indigenza, per non aver potuto maturare alcun diritto pensionistico nel corso della propria vita lavorativa: ormai a trovarsi in tali condizioni è gran parte degli italiani quarantenni, i cui figli – non per caso sempre meno numerosi – non potranno neppure contare su quella forma premoderna di welfare che è stata fin qui assicurata in Italia dalle famiglie. Ormai si tratta di prevenire una disgregazione della società italiana in cui al confronto politico si sostituiscano fratture di carattere comunitaristico, a base sia etnica che generazionale.
È tempo da un lato di affermare il principio secondo cui nessun individuo che permanga in possesso delle capacità psico-fisiche necessarie a continuare a svolgere le proprie mansioni debba essere necessariamente obbligato alla pensione contro la sua volontà e solo in ragione dell’età. E dall’altro di prendere atto che l’allungamento dell’aspettativa di vita non può non riverberarsi sulla determinazione dell’età pensionabile per tutte le attività non usuranti. Non ha senso difendere con le unghie e con i denti il diritto di chi, durante la propria vita lavorativa, non abbia svolto attività usuranti, ad andare in pensione prima dei sessant’anni, quando non si sta facendo nulla per garantire la prospettiva di una pensione qualunque a chi, non potendo maturare alcun diritto, sarà costretto ad abbandonare il suo lavoro precario pluridecennale solo quando non sarà più in grado di reggersi materialmente in piedi. Così come non ha senso difendere a oltranza le garanzie di chi lavora a tempo indeterminato in aziende di grandi dimensioni e disinteressarsi largamente di tutti gli altri.
Se davvero, come si afferma, dopo le riforme intervenute nel passato recente, il bilancio della previdenza è attivo, questa non è una buona ragione per mantenere in vita l’attuale anacronistica regolamentazione imperativa della scansione delle fasi della vita di ciascun individuo secondo un unico modello obbligatorio, ma semmai per diminuire il peso delle contribuzioni, consentendo con ciò un aumento delle retribuzioni volto a sostenere la domanda e/o una diminuzione del costo del lavoro volta a favorire l’occupazione; oppure per convertirne le contribuzioni in un contributo alla creazione dei fondi necessari per assicurare pensioni future ai giovani di oggi, in nome di un criterio di solidarietà intergenerazionale.
Il principio dell’uguaglianza formale fra uomini e donne non può non imporre in ogni settore e da subito la parificazione del trattamento previdenziale per uomini e donne.
D’altra parte, accettando quasi come un fatto naturale l’attuale altissimo livello di disoccupazione femminile e le persistenti sperequazioni di trattamento fra uomini e donne, soprattutto nei ruoli dirigenziali, l’economia italiana rinuncia al pieno contributo di metà della popolazione alla vita economica e sociale del paese. La retorica sulla “tutela della famiglia”, in chiave clericale e regressiva, che ha caratterizzato la maggioranza uscente, ha saputo produrre soltanto odiose discriminazioni giuridiche nei confronti delle coppie non sposate e ancor più nei confronti dei loro figli, e non ha fatto nulla per favorire la condizione delle madri lavoratrici e rendere la filiazione un’opzione praticabile per le giovani coppie. Quello degli asili nido è un campo in cui il welfare costituisce un investimento diretto nella produttività del paese: un governo di centrosinistra dovrà muoversi in tale direzione, e farla finita con l’idea che ha prevalso, soprattutto con i governi Berlusconi e la loro ideologia familista, che ha di fatto considerato le donne italiane come il surrogato di un sistema obsoleto e discriminatorio di ammortizzatori sociali.

Porre fine alla gestione politica della sanità per preservarne il carattere universalistico.

La sanità è il settore nel quale i mutamenti demografici, i continui progressi tecnologici della medicina, e l’ulteriore allungamento dell’aspettativa di vita che ne consegue, assicureranno da soli, anche a non tener conto di corruttela e malgoverno della spesa, o un continuo e insostenibile aumento della spesa pubblica, o un taglio progressivo – tacito o dichiarato che sia – delle prestazioni erogate direttamente o indirettamente dal servizio sanitario pubblico. Fenomeno che del resto già da tempo è in atto in Italia, attraverso un taglio delle prestazioni strisciante e in gran parte non dichiarato, e attraverso liste d’attesa spesso inaccettabili, che costringono molti di coloro che se lo possono permettere a pagarsi in proprio le prestazioni.
Inoltre l’attuale gestione politica della sanità italiana costituisce uno dei principali canali della corruzione e del finanziamento illegale della politica, se non il principale. La sanità pubblica italiana è oggi una struttura di emanazione politica, deputata a distribuire appalti miliardari, a disporre complessivamente di una spesa annuale pari a circa 110 miliardi di euro e a controllarne in larga misura essa stessa la correttezza: dovendo operare una miriade di decisioni puntuali e specifiche, in gran parte largamente discrezionali e, per la loro natura tecnica, non sottoponibili a un capillare e diffuso controllo pubblico democratico. Una spesa per poter realmente controllare e valutare la cui congruità ed efficacia sarebbero invece assolutamente necessarie, se ciò fosse possibile ed economicamente sensato, legioni di controllori di alto profilo professionale, tutti integerrimi, indipendenti non solo formalmente dalla politica, e dotati di vaste competenze multidisciplinari e multispecialistiche.
La progressiva incapacità del sistema sanitario vigente di soddisfare efficacemente, in tempi accettabili e con efficienza gestionale, la promessa di copertura universale dei bisogni sanitari della popolazione sta già producendo, in mancanza di riforme radicali, un sistema misto, capace solo di cumulare gli svantaggi tipici della sanità pubblica e di quella privata basata su meccanismi di mercato “all’americana”, non soggetti cioè a una regolamentazione specifica: sprechi, clientelismi, corruzione, costo della politica e della burocrazia si sommeranno sempre più ai costi della “selezione avversa”, tipici di un mercato delle assicurazioni sanitarie private non obbligatorio, autonomo e separato rispetto al servizio sanitario pubblico.
Per quanto difficile da spiegare all’opinione pubblica nei suoi ardui risvolti tecnici, e per quanto contrastante con molte idee ricevute (in questo caso, nel centrosinistra perfino più che nella destra), una forza politica liberale dovrebbe a nostro avviso proporre in questo campo una riforma di modello analogo a quella introdotta nei Paesi Bassi dal 2006: un sistema di assicurazioni private ma rigidamente regolamentate e obbligatorie – cioè con obbligo di contrarre sia per gli individui che per le compagnie di assicurazione – in cui il diritto alla salute e i livelli obbligatori di assistenza sono stabiliti in modo uniforme dalla legge, che determina anche la parte fissa del premio da pagare direttamente (salve le ovvie esenzioni), mentre un fondo per l’equalizzazione dei rischi viene alimentato dalla fiscalità generale – in modo quindi progressivo rispetto al reddito – e redistribuito dallo Stato fra le compagnie in modo da consentire a queste di ottemperare senza squilibri economici all’obbligo di contrarre con chiunque ne faccia richiesta, indipendentemente dall’età e dalle condizioni di salute. La concorrenza fra compagnie in un sistema del genere non verte sull’entità del premio da pagare per le prestazioni obbligatorie per legge, ma sulla qualità delle prestazioni erogate (controllata sia dallo Stato sia da un’autorità indipendente) e sulla vendita dei pacchetti di prestazioni integrative delle prestazioni di base (quelle attualmente non incluse in Italia nei “livelli essenziali di assistenza” teoricamente assicurati a tutti dalla sanità pubblica diretta e convenzionata).
Una tale riforma assicurerebbe a tutti i cittadini lo stesso diritto alle prestazioni di base, indipendentemente dalla regione di residenza e dalla qualità del ceto politico locale, che sarebbe escluso dalla gestione diretta; darebbe vita a un sistema non meno universalistico di quello attuale, in cui tanto i pagatori quanto gli erogatori dei servizi verrebbero però spinti a perseguire un autonomo interesse economico a contenere il più possibile i costi della sanità, pur essendo obbligati al tempo stesso anche a competere in fatto di qualità ed efficacia delle prestazioni; e in cui politica e burocrazia pubblica continuerebbero a fungere da regolatori e da supervisori, ma in qualità di controparti e non più da gestori diretti della sanità, e sarebbero così, per quanto possibile, allontanate dalla possibilità di trarre illeciti profitti economici o clientelari da altrimenti insuperabili conflitti d’interesse, senza che le sole speranze di miglioramento della qualità etica e della correttezza dei loro comportamenti siano riposte in un loro miracolistico ravvedimento collettivo; e in cui, infine, l’aumento dei costi della sanità, in certa misura ovunque e comunque inevitabile nei prossimi decenni in conseguenza di mutamenti demografici, progressi tecnologici e aumento dell’aspettativa di vita, non potrebbe in nessun caso gravare sulla finanza pubblica provocandovi ulteriori scompensi, destinati alla fine, almeno in caso di mancato default, a tradursi in una nuova redistribuzione dei redditi a vantaggio dei percettori di rendite finanziarie sui titoli del debito pubblico, finendo così per frustrare largamente, se non per capovolgere, l’intento equitativo o redistributivo proprio di ogni politica di welfare.
Naturalmente è verosimile che la radicalità di una tale proposta di riforma la renderebbe realizzabile solo quando l’attuale sistema sarà arrivato – ma purtroppo è solo questione di tempo – sull’orlo del collasso finanziario definitivo; ma inserirla fin d’ora, almeno come ipotesi sul tavolo, nel programma di una forza politica liberale consentirebbe di farne discutere e di preparare il terreno, piuttosto che ritrovarsi con una progressiva privatizzazione selvaggia e di fatto “all’americana”, che interverrà inevitabilmente da sola nel caso – purtroppo pressoché certo – di inerzia e incapacità reattiva della politica.

[continua]

{ Pubblicato il: 14.09.2011 }




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