Fondazione Critica Liberale   'Passans, cette terre est libre' - Abbiamo scelto come logo la fotografia d'un autentico 'Albero della Libertà ancora vivente. È un olmo che fu piantato nel 1799 dai rivoluzionari della Repubblica Partenopea, Luigi Rossi e Gregorio Mattei, a Montepaone Superiore, paese dello Jonio catanzarese. La scritta &lequo;passans ecc.» era qualche volta posta sotto gli 'Alberi della Libertà' in Francia.
 
Direttore: Enzo Marzo

Dal 1969 la voce del pensiero laico e liberale italiano e della tradizione politica che difende e afferma le libertà, l'equità, i diritti, il conflitto.

"Critica liberale" segue il filo rosso che tiene assieme protagonisti come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini ed Ernesto Rossi, Einaudi e il "Mondo" di Pannunzio, gli "azionisti" e Bobbio.

volume XXIV, n.232 estate 2017

territorio senza governo - l'agenda urbana che non c'è

INDICE

taccuino
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67. paolo bagnoli, la nostra preoccupazione
68. coordinamento democrazia costituzionale, appello alla mobilitazione per una legge elettorale conforme alla Costituzione
106. comitati unitari per il NO al “rosatellum”, l’imbroglio degli imbrogli
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territorio senza governo
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69. giovanni vetritto, l’italia del “non governo” locale
73. pierfranco pellizzetti, alla ricerca del civismo perduto
79. antonio calafati, le periferie delle metropoli italiane
84. paolo pileri, molta retorica, pochi fatti
86. giovanni vetritto, post-marxisti inutili
88. valerio pocar, primo comandamento: cementificare
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astrolabio
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89. riccardo mastrorillo, finanziare sì, ma come?
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GLI STATI UNITI D'EUROPA
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93. sarah lenderes-valenti, la risorsa più grande
94. luigi somma, le democrazie invisibili
97. claudio maretto, la discontinuità paga
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castigat ridendo mores
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100. elio rindone, basta con l’onestà!
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l'osservatore laico
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103. carla corsetti, il principio di laicità
107. gaetano salvemini, abolire il concordato
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terrorismo e religione
109. pierfranco pellizzetti, jihad combattuta alla john wayne
114. alessandro cavalli,quattro cerchi
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lo spaccio delle idee
117. gianmarco pondrano altavilla, cari liberisti, chi conosce un buon medium?
118. luca tedesco, savoia o borbone? lo storico è un apolide
119. gaetano pecora, ernesto rossi, “pazzo malinconico”
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78.92.102. spilli de la lepre marzolina
116. la lepre marzolina, di maio ’o statista
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Critica liberale può essere acquistata anche on line attraverso il sito delle Edizioni Dedalo con transazione crittografata e protetta.
.A ROMA IL FASCICOLO PUO' ESSERE ACQUISTATO ANCHE PRESSO L'EDICOLA DEI GIORNALI IN PIAZZA DEL PARLAMENTO.
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comitato di presidenza onoraria
Mauro Barberis, Piero Bellini, Daniele Garrone, Sergio Lariccia, Pietro Rescigno, Gennaro Sasso, Carlo Augusto Viano, Gustavo Zagrebelsky.

* Hanno fatto parte del Comitato di Presidenza Onoraria: Norberto Bobbio (Presidente), Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Giancarlo Lunati, Italo Mereu, Federico Orlando, Claudio Pavone, Alessandro Pizzorusso, Stefano Rodotà, Paolo Sylos Labini. Ne ha fatto parte anche Alessandro Roncaglia, dal 9/2014 al 12/2016.
 
05.02.2018

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Lo spazio dei lettori.
Eventi, segnalazioni, convegni...

terzo documento della fondazione: "4 tesi per un progetto" di pierfranco pellizzetti

fondazione critica liberale

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«Per distinguere le diverse classi sociali il reddito
è un elemento importante, ma non tanto per il suo
livello, quanto per il modo attraverso cui si ottiene»
Paolo Sylos Labini

«C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia,
classe, la classe ricca, che sta facendo la
guerra, e stiamo vincendo»
Warren Buffet


premessa
Un soggetto politico trae le risorse essenziali per esercitare il proprio ruolo dalla capacità di raccordarsi sistematicamente con segmenti della società in sintonia con il sistema di valori ideali storici/simbolici/identificativi di cui è portatore, metterne a fuoco le istanze (interessi e bisogni) promuovendole nell’arena in cui si svolge il confronto/scontro con gli altri competitori organizzati.
In epoca industrialista tale campo era disegnato dall’organizzazione del lavoro e dai rapporti di produzione inerenti, che determinavano la struttura dicotomica di classe (proletariato vs. borghesia) e i relativi conflitti, fungendo – altresì – da matrice a calco delle rappresentanze nelle sedi istituzionali (i partiti) del conflitto sociale allora vigente. Sicché la classica formulazione gramsciana di “egemonia” (indirizzo più consenso) ipotizzava la costituzione di un “Blocco Storico” composto dal proletariato industriale del Nord e le masse contadine del Sud latifondista.
D’altro canto, già all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso Ralf Dahrendorf segnalava come, a seguito dei processi di integrazione promossi in prevalenza dalle politiche di Welfare, il conflitto fosse ormai «oltre la classe». Tanto da rendere obsoleta la sua rappresentazione di origine ottocentesca, messa in scena da parte delle forze politiche prevalenti, che a tale spartiacque continuavano – in sostanza - a fare riferimento (per la persistenza nella loro cultura e nel loro lessico di tali modelli di rappresentazione, resi anacronistici dalle trasformazioni intervenute).
Nel frattempo prendevano corpo nuovi conflitti, i quali non trovavano più la loro sede centrale nella fabbrica e nelle lotte del lavoro (diritti del/nel lavoro e risarcimenti), ma che stentavano a essere individuati, concettualizzati e – dunque – rappresentati. Proprio perché maturati in campi diversi da quello economico-produttivo.
Già tre lustri fa lo aveva detto Carlo Freccero: «la differenza di classe, intesa in senso tradizionale, ha più importanza in una società basata sulla produzione e sul soddisfacimento dei bisogni primari, che in una società basata sui consumi. Il consumo fa da collante a nuovi agglomerati sociali basati non sulle differenze di classe, ma sulle scelte di vita». Poi aggiungeva, profeticamente: «in questo senso entra in scena la televisione come macchina per produrre e riprodurre, per amplificare e allargare un segmento di società. Sappiamo tutti che la televisione vive sull’audience. Ma non è esatto. Da tempo la televisione, almeno la TV commerciale, ha imparato a ritagliarsi, all’interno di questo audience, un pubblico selezionato di consumatori» .
Dunque, le tesi che seguiranno riflettono sul concetto di egemonia in età postindustriale, nella convinzione che nella trasformazione in corso le sensibilità semiologiche, antropologiche culturali e massmediologiche si rivelano più utili delle categorie economiche al fine di cogliere le mutazioni proteiformi di un Potere che ritorna a esercitare il proprio dominio oltre i rapporti di produzione.

prima tesi: la società esiste, perbacco!
Nei lunghi anni del thatcherismo-reaganismo, mettendo a frutto con proterva quanto lucida determinazione i marchingegni creati negli arsenali del Pensiero Unico liberista e pigiando l’acceleratore sulla leva comunicativa, venne imposto a mezzo propaganda il mantra che “la società NON esiste”.
Con questa operazione politico-ideologica si portava l’attacco al cuore della democrazia welfariana, rendendo impensabile persino la formulazione ipotetica di una qualsivoglia forma di aggregazione sociale antagonista e delegittimando le rappresentanze residuali (in primis i sindacati dei lavoratori). L’obiettivo era evitare che si formassero sacche di resistenza organizzata nella cosiddetta “guerra civile non dichiarata” che gli abbienti stavano intraprendendo contro il resto del corpo sociale. Conflitto perseguito smantellando ogni struttura pubblica di controllo e governo (in primis lo stesso Stato), per impedire qualunque regolazione a tutela degli interessi collettivi in materia di riproduzione/ripartizione della ricchezza. Non di rado, con l’intento di procedere indisturbati ad accaparramenti per spoliazione: in primis la svendita del patrimonio pubblico attraverso le cosiddette “liberalizzazioni” (di acqua, infrastrutture della mobilità, reti telefoniche, security, ecc.). Sempre e comunque nell’accantonamento sistematico di qualsivoglia politica industriale (keynesiana), fulcro della fase storica precedente.
Ecco la mistificazione, che ha spinto in un cono d’ombra profonda il rapporto tra politica e composizione sociale: se “la società non esiste”, allora “esistono” solo gli individui atomizzati. Dunque, riprogrammati a non ragionare in termini di solidarietà e comunanza di intenti. Ossia, i leganti valoriali, civili e politici che consentirebbero di bilanciare attraverso l’aggregazione per contiguità (cioè, diventando “tanti”) la potenza della ricchezza in mano ai “pochi” privilegiati: la via democratica al potere dei “senza potere” nella Modernità.
Durante la stagione liquidatoria di un patrimonio di lotte secolari per l’emancipazione, la Sinistra organizzata si sottomise ai diktat dell’Economico, ritenuti “ineluttabili”, inseguendo nicchie di sopravvivenza; riciclandosi nelle forme opportunistiche e subalterne della varie “Terze Vie” clintoniano-blairiane.
Sicché, il primo punto da ribadire per una Sinistra rinnovata, alla riconquista del cruscotto di guida della trasformazione, è non solo l’esistenza quanto – piuttosto – l’assoluta “priorità” della dimensione sociale (il «nessun essere umano esiste mai al singolare» di Hanna Arendt ). La dimensione delle interdipendenze positive e della cooperazione, del civismo e della decisione pubblica. Appunto, della solidarietà.
Tutto ciò avendo sempre ben chiaro che la società è campo disegnato e dominato dai sistemi di diseguaglianza, in cui si realizzano coalizioni di segno diverso: difensive come innovative. Fermo restando che tali diseguaglianze hanno determinanti diversi. Quanto ci ha insegnato il miglior pensiero sociologico del passato: se per Carlo Marx essi vanno individuati nella proprietà dei mezzi di produzione, già Max Weber integrava la teoria marxiana inserendo il concetto di «abilità utilizzabili sul mercato» e nelle relazioni derivate . Poi, l’analisi secondo novecentesca – da Dahrendorf a Michel Foucault – recupererà antiche intuizioni protoilluministe (Étienne De La Boétie ), ponendo l’accento sulla relazione di potere. Sicché, a seconda dei determinanti prevalenti nelle diverse epoche (certo economici, ma anche culturali, di razza, genere e così via), ne conseguiranno differenti configurazioni della diseguaglianza. Se in epoca industrialista si parlava di “classi” focalizzandosi sul processo produttivo, in età postindustriale la faglia corre tra inclusione ed esclusione. Faglia che negli ultimi decenni ha ripreso ad allargarsi, dopo i consistenti processi di accesso del secondo Novecento grazie all’accompagnamento delle masse nella cittadinanza sociale (nei due modi: l’americano dell’entrata nell’area del consumo; l’europeo delle lotte vittoriose per i diritti).
Commentava già tre lustri or sono l’economista del Mit Lester Thurow: «l’ideologia dell’inclusione va sparendo per essere sostituita da un ritorno del capitalismo finalizzato alla sopravvivenza del più adatto» . Sicché – aggiungeva Alain Touraine, quasi in contemporaneo - «il concetto sociologico fondamentale è quello di esclusione. Ci sono individui che sono in e individui che sono out. E ciò senza indurre nuovi movimenti sociali, resistenze, dibattiti. Viviamo una fase di straordinario silenzio sociale» .
Tuttavia, ormai sono trascorsi quindici anni da quando tali analisi furono formulate. E molto è cambiato. A partire dal riflusso della vague neoliberista per arrivare alle innumerevoli tipologie di “indignatos” che iniziano a far sentire la propria voce. Ossia, la sovrapposizione di frustrazioni, accumulate nella fase ascendente del trascorso trentennio, sta mettendo in moto reazioni significative, che attraversano la composizione sociale e attivano soggettività collettive in attesa di rappresentanza politica.
Dunque, la società esiste, ma a una condizione: «che vi sia una qualche comunanza di pensieri e sentimenti tra i suoi membri» .

seconda tesi: le pratiche strategiche della destra
Fino a tutti gli anni Settanta in Italia il pensiero sociologico progressista aveva continuato a esplorare la composizione sociale del Paese utilizzando approcci laboristi in senso lato. Dal celebre saggio di Sylos Labini del 1974, in cui si percentualizzava la divisione in classi (borghesia 2,7%, ceti medi 49,5 e classe operaia 47,8) , agli studi di Carlo Tullio-Altan, di cinque anni dopo, che partivano dall'evoluzione dei modi di produzione nazionali: «la realtà italiana di oggi può essere intesa come un caso tipico di formazione storico-sociale dualistica, risultante dalla sopravvivenza di modi di produzione arcaici in un contesto moderno» . Per inciso, ispirata dalla teoria "dualistica" di Tullio-Altan, nella seconda metà del decennio venne formulata l'ultima ipotesi politica incardinata nei ruoli produttivi: l'ipotetica aleanza di “Profitto e Salario contro la Rendita”.
Subito dopo entriamo nella grande stagione in cui la Destra riprende l'iniziativa e realizza l'incantesimo illusionistico di far sparire Società e Lavoro, allo scopo di esorcizzare le ragioni stesse del conflitto sociale. Una ricetta americana che si diffonde in tutto l'Occidente avanzato, in preda all'immane opera di restaurazione reazionaria.
Entrano in scena quelle che il politologo Benjamin Barber chiama "politiche della paura" , in cui la diffusione di insicurezza indotta mediaticamente (la minaccia di un generico "altro", che si traduce nella domanda di  politiche di protezione "legge e ordine") ridisegna il campo sociale, ponendo le fondamenta di un nuovo blocco sociale trasversale e diagonale composto da "abbienti" e "impauriti" (la "piccola gente" e la plutocrazia affaristica) antinewdealistico e antiwelfare, a prescindere totalmente dai rispettivi ruoli sociali coperti. Commenta Zygmunt Bauman: «è cambiato il significato dell’idea di “sicurezza”… non è più quella che avevano in mente Roosevelt e Beveridge. Non è più la sicurezza del nostro posto nella società, della dignità personale, dell’orgoglio dell’abilità tecnica, del rispetto di sé… ma è la sicurezza  nei confronti di coloro che violano la nostra proprietà e dagli estranei sulla porta di casa… avvelenatori di pozzi e dirottatori di aerei» .
Insomma, la Destra (compresa la sua sgangherata succursale italiana: il ForzaLega di Berlusconi & Bossi) si dota di una teoria egemonica per crearsi una base sociale (relativamente) maggioritaria, a fronte di una Sinistra che ha perso ogni antenna per intercettare i segnali di quanto avviene nel sociale (mentre pezzi del suo elettorato, sentendosi abbandonati e traditi, emigrano nel non-voto),
In tale vassallaggio psicologico, prima ancora che culturale, si determina la catastrofe identitaria dei soggetti (Sinistra?) che dichiarano di opporsi alla finanziarizzazione globalizzata e alle sue logiche che devastano la società, promossa dalla Destra (grazie anche al supporto della Sinistra embedded) per conto dell’Economico: con i suoi effetti precarizzanti, interiorizzati come “naturali”. Sicché predica al vento l’economista Jean-Paul Fitoussi quando osserva che «in una società in cui regna una persistente disoccupazione di massa, i costi di solidarietà sono altissimi… Secondo il discorso dominante vi sarebbe un rapporto tra disoccupazione e solidarietà, nel senso che una riduzione di quest’ultima consentirebbe il ritorno alla piena occupazione… Proviamo allora a rovesciare il rapporto di causalità che presiede al pensiero dominante. È l’alto livello di disoccupazione ad accrescere il bisogno di solidarietà» .
Qui sta il punto: non si uscirà dal cerchio stregato, che ipnotizza la Sinistra paralizzandola, senza la produzione di un nuovo pensiero sul sociale, capace di individuare alleanze di sue componenti in grado di “fare società”. Un’operazione politica.
Del resto – diciamocelo francamente - le stesse modellistiche, con cui si legittimano/promuovono aggregazioni nella società funzionali a un progetto, sono concettualizzazioni di pura valenza politica. Al limite "escogitazioni". Dagli albori della modernità. Come ci ha spiegato il sociologo del lavoro Aris Accornero: «bisogna spezzare una lancia a favore del vecchio Marx, che era riuscito a vedere degli operai perfino nei fornai parigini in lotta nel luglio del 1848: non si apprezzerà mai abbastanza la sua geniale escogitazione, che consistette nel definire classe un aggregato abbastanza vago»  .
Una politica di trasformazione reclama nuove “escgitazioni” che inventino il contesto.

terza tesi: rimaterializzare il virtuale
Un altro sociologo, Gosta Esping-Andersen lo ribadisce: «molti autori sostengono che la politica postindustriale stia perdendo ogni riferimento di classe». Ciò avverrebbe a seguito di vasti cambiamenti strutturali: «l'importanza decrescente del conflitto capitale/lavoro; l'accelerata differenziazione sociale; l'indipendenza economica delle donne e i mutamenti della famiglia; la crescita dei titoli scolastici e professionali. Nelle società di oggi, eterogenee e a forte mobilità, il significato di classe scomparirebbe del tutto, e la classe operaia, una volta avanguardia del collettivismo redistributivo, sarebbe destinata a condurre una difesa di retroguardia delle vittorie del passato. I nuovi strati sociali svantaggiati, come i lavoratori marginali, madri sole, i disoccupati di lungo periodo, i dipendenti da sussidi assistenziali, sembrano troppo amorfi per potersi organizzare in un'efficace forza collettiva» .
Eppure, dal punto di vista materiale, le disuguaglianze risultano crescenti.
Ciò che stenta ad affermarsi è la loro percezione come ingiustizia dipendente direttamente dai nuovi rapporti di forza; di conseguenza, diventa sempre più difficile il posizionamento delle singole biografie in una cornice teorica che ne evidenzi le interdipendenze. E il conflitto sociale emigra verso lidi lontani.
Insomma, siamo tutti immersi in un campo - potremmo definirlo "postmoderno" - che virtualizza la vita sfumandone/omologandone il profilo e schermando i rapporti di causa/effetto. Al tempo stesso, trasforma la scena politica in un reality dove agiscono "personaggi"; in cui le donne e gli uomini concreti vengono confinati al ruolo di "spettatori".
Dal punto dell'immaginario, ciò significa la riduzione della moderna “freccia del tempo”, che rendeva pensabile la modificabilità delle condizioni vigenti ("il viaggio per uno scopo"), ad un eterno presente immobile, dove l'unica condizione è quella del "nomadismo senza scopo". Dunque, individuale, autoreferenziale, nella logica utilitaristicamente povera dei free riders; i cosiddetti “egoisti razionali” propugnatori del valore dell’avidità (“avido è bello”). Eppure, secondo il celebre “paradosso di Olson”, se tutti gli individui ragionano da egoisti razionali, il bene pubblico non verrà mai prodotto. Con grave danno generale, egoisti compresi .
Immersi - come appunto siamo - in questo campo mediatico, smarriamo l'idea stessa di progetto, di trasformazione guidata dalla politica. Ossia affondiamo nell'apatizzazione. Certo fortissima nelle periferie urbane trasformate in discariche: luoghi per sorvegliare e disciplinare l'indesiderabilità sociale, prima che diventi "pericolosa". Ma ormai fenomeno diffuso in tutta l'area mediana della società, dove un numero crescente di soggetti viene accantonato come "inutile".
Tutto questo si trasforma in una gigantesca "espropriazione di futuro". Ed è da qui – almeno, ritengo - che si debba partire per dare vita ad aggregazioni funzionali a produrre politica "per fare società". Operazione che impone il recupero della migliore tradizione disponibile del pensiero politico di sinistra:
•    l'idea socialista, che persegue l'eguaglianza attraverso la regolazione e la produzione di beni pubblici;
•    il metodo liberale, che valorizza le differenze come "uguali opportunità di diventare diseguali" e strumenta la critica "del Potere nei suoi discorsi di Verità, della Verità nei suoi effetti di Potere" ;
•    il principio democratico, che legittima la protesta come risorsa fondamentale del discorso pubblico.
Questo è il momento per ridare concretezza alla politica dopo decenni di fiction, agganciandola ai mondi della vita. Anche perché siamo alla fine di una fase storica all’insegna della virtualizzazione, iniziata come denuncia del contratto sociale welfariano (il compromesso storico tra classe operaia organizzata e borghesia industriale) e scivolata via, via nel delirio; fino alla militarizzazione suicida dell’Occidente. La realtà sta spazzando le fumisterie, la società torna a produrre movimenti. Ma – ad oggi – dov’è la sponda politica offerta a una ripresa di soggettività sociale sempre a rischio di entropia?

quarta tesi: il rapporto col futuro, nuovo determinante sociale
"Espropriati di futuro unitevi, ovunque voi siate!". Qui sta la base sociale a cui indirizzare una proposta politica di Giustizia e Libertà non mistificatoria. Potenzialmente vincente. Dunque in grado di rompere il cerchio stregato che ha ridotto la società a un indistinto inconoscibile attraverso la narcotizzazione, la depoliticizzazione, del pensiero politico.
Infatti sono "espropriati di futuro", sovente pur senza esserne consapevoli, gli uomini e le donne cui è stato reso impossibile progettare la propria vita, già a livello di pensiero pensabile: i precarizzati come i discriminati per genere, etnia o cultura, i marginalizzati. Uomini e donne cui è stato sottratto il diritto fondamentale di scegliere, tanto individualmente come collettivamente. Una massa crescente, che potrà riconoscersi tale e agire di conserva solo risvegliandosi nella realtà, maturando coscienza della propria situazione effettiva.
Di regola ciò si realizza attraverso due passaggi obbligati:
1.    un'analisi teorica (la forza materiale delle idee);
2.    pratiche concrete  di sperimentazione (la declinazione delle idee nei contesti differenti).
Se nel passato l'ambito in cui tali passaggi avvenivano era la fabbrica (luogo di raccolta  e organizzazione delle masse lavoratrici), ora è lo dimensione urbana che può andare a svolgere analoga funzione. "Militanza urbana", la chiamava Pasqual Maragall i Mira, sindaco socialista di Barcellona negli anni Ottanta . Ossia, l'azione strategica per trarre la contestazione indignata dalla dimensione meramente negativa, che la rende inerte in quanto a impatto di cambiamento. Almeno tre appaiono gli ambiti in cui mettere alla prova la domanda sociale come innovazione politica a scartamento civico:
A.    i processi decisionali, ossia le pratiche di governance come creazione di vaste coalizioni di soggetti  pubblici e privati che operano in partnership per il raggiungimento di obiettivi condivisi;
B.    il lavoro, in una visione dello sviluppo che eviti la tagliola a due ganasce dello sviluppismo quantitativo e della decrescita. La produzione di ricchezza sociale è essenziale per  produrre beni pubblici. Dunque, si impongono specializzazioni di territorio compatibili con il genius loci e le vocazioni della popolazione, oltre che con l'habitat. Lo strumento ad hoc è la programmazione territoriale strategica; non un atto amministrativo ma una scelta politica democratica di indirizzo;
C.    la destinazione dello spazio pubblico, dunque l'individuazione dei tratti connotativi di una città vivibile e partecipata; in cui il riscatto delle aree periferiche passa attraverso la loro valorizzazione quale parte attiva del progetto complessivo.
Queste sperimentazioni locali abbisognano di un quadro generale di riferimento, assicurato da un soggetto organizzato (chiamiamolo "partito di nuovo conio") capace di assicurare senso complessivo all'azione locale, mettere in rete le diverse esperienze segnalandone e valorizzando le pratiche eccellenti. Come indicava Theodor Adorno già nel 1950, nelle sue considerazioni sulla società di massa: dando «un significato più concreto alle idee di democrazia e leadership» .
Ma- a fronte di tutto ciò - occorre recuperare la consapevolezza delle forze che si oppongono  a una rifondazione della democrazia dal basso. Ciò che Carl Schmitt chiamava "l'hostis", la categoria della politica contrapposta ad "amicus" .
Ne consegue la necessaria fuoriuscita dalle mistificazioni paralizzanti che gabellavano il conflitto sociale come una folkloristica sopravvivenza del passato e la disuguaglianza una colpa individuale. La consapevolezza dell'avversario (e dei marchingegni che attua  per disarmare i "senza potere") e l'inevitabile agonismo/antagonismo nei suoi confronti, risultano il vero banco di prova per una rottura "a sinistra" rispetto alle devastazioni dell'ordine democratico degli ultimi trent'anni. Quindi, significa  riscoprire con Luigi Einaudi "la bellezza della lotta" quale primario motore dell'emancipazione.
Del resto, ben prima di lui, Immanuel Kant ci ha insegnato che «l'uomo vuole l'armonia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è bene per la sua specie: essa vuole la discordia» .


{ Pubblicato il: 26.09.2011 }




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