Le riforme proposte da Renzi tendono a dare compimento istituzionale ad un processo di involuzione della democrazia che dura da almeno un ventennio. Complice la mancanza di una Sinistra moderna, l’Italia si incammina verso un’oligarchia tribale e feudale.
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E’ mia opinione che l’avvento del governo Renzi non rappresenti affatto una discontinuità, ma tenda invece a dare forma compiuta a quel ciclo culturale e politico che impropriamente è stato battezzato come Seconda Repubblica. Le presunte discontinuità riguardano forme e priorità (in modo particolare quelle assegnate alle riforme istituzionali concordate con Berlusconi) più che una consapevolezza nuova; in buona sostanza, Renzi si è presentato ad un Paese disilluso e rassegnato con la proposta di razionalizzare e portare a compimento quanto era andato maturando nel corso del ventennio berlusconiano.
Il declino della destra berlusconiana come entità politica organizzata non deve far pensare ad una sua sconfitta; al contrario, a questo declino ha corrisposto l’aver fatto pienamente propria, da parte del PD e dei suoi satelliti minori, e per di più in termini formali oltre che sostanziali, la concezione di una democrazia limitata, i cui presupposti stanno nell’estraneità ai processi di democratizzazione e di apertura della Società di larghi settori di una borghesia tale solo per censo, e della quale il berlusconismo altro non è stato che un ultimo naturale interprete.
E’ da osservare come il tentativo di ridimensionare gli spazi di democrazia nel nostro Paese non si manifesti solo nella sfera dei meccanismi istituzionali: la nuova legge elettorale, il progetto di riforma del Senato, i progetti di riduzione del ruolo del Parlamento nei confronti dell’Esecutivo, seguono e non precedono un processo di ridimensionamento della democrazia che è in atto da almeno venti anni.
Una democrazia non può fondarsi unicamente su regole ed istituzioni rappresentative atte a consentirne il funzionamento: in una società articolata e complessa, l’inevitabile imperfezione della rappresentanza e l’inevitabile formazione di élites dirigenti tendenti a trasformarsi in caste, rendono necessario che:
• La democrazia delle istituzioni non si limiti alla formazione di una rappresentanza politica adeguata, ed invece operi efficacemente il principio dei “checks and powers” da parte di forme istituzionali aventi diverse funzioni, ruoli e responsabilità, diversi e non riconducibili alla stessa matrice meccanismi di origine e formazione, e che rispondano ad esigenze diverse.
• La democrazia istituzionale sia sostenuta dall’articolarsi nella società di forme partecipative e di democrazia diffusa: altrimenti, ne è inevitabile la degenerazione oligarchica e populista da parte dei chierici della politica, della burocrazia, dei poteri economici. Occorre cioè la presenza di corpi intermedi (in primis: partiti politici, sindacati, associazioni di categoria e di interessi) strutturati in modo da favorire la partecipazione permanente dei cittadini alla formazione delle scelte e degli indirizzi politici, e nei quali, alle rilevanti funzioni pubbliche facciano riscontro forme aperte e partecipative e processi interni di selezione e decisione, non sindacabili nel merito, ma tali da garantire il rispetto del metodo democratico. Occorre che cittadini e libere forme associative partecipino alle scelte riguardanti le comunità locali.
• La pienezza e la parità dei diritti e dei doveri individuali, civili, sociali, non siano né privilegi, né concessioni, né oggetti di tolleranza, ma lo status naturale di ciascuno, nella sua veste di individuo libero nelle sue scelte di vita e di impegno, di cittadino-non suddito, di utente dei pubblici servizi, di lavoratore, di consumatore, di studente. Il che si manifesta nel diritto-dovere di tutti di dare alla società, ed a vedervi tutelato, il proprio apporto sotto le forme della cittadinanza, dello studio, del lavoro, del sapere e dell’arte, del contributo economico, nel diritto di tutti ad un’esistenza libera e decorosa, nella concezione aperta e dinamica della società e dell’economia nel loro divenire, nell’inclusione sociale e nella protezione dal bisogno, nella promozione del merito e dell’equità, nell’avversione a caste, monopoli e corporazioni, nella concezione di una democrazia rappresentativa indenne da tecnocrazia e populismo, nel diritto a vedere ben amministrati i beni pubblici.
• La presenza di un’opinione pubblica cosciente ed informata prevenga la legittimazione ed il consolidarsi di una casta operante senza controlli diffusi e continui. Anche se i moderni mezzi di comunicazione di massa richiedono strumenti e tecnologie tendenti a limitare il pluralismo, occorre che informazione, conoscenza, sapere, siano accessibili a tutti e che siano caratterizzati da libertà di espressione e da pluralismo.
• La struttura ed il funzionamento dell’economia siano tali da non rendere la democrazia un esercizio inutile e privo di effetti. Ciò riguarda sia il peso e l’effetto delle scelte economiche private e pubbliche, che spetta alla politica di indirizzare verso l’utilità comune, che le condizioni economico-sociali dei cittadini.
Una società ed un’economia chiuse e bloccate, che non riescano ad assicurare il lavoro a chi vi si affaccia o a chi lo ha perso, nelle quali, a prescindere da merito e capacità, la mobilità sia limitata da privilegi, caste e particolarismi, nelle quali si osservi il progressivo concentrarsi della ricchezza verso il vertice della piramide sociale, impoverendone i livelli inferiori e medi e svilendo chi vive del proprio lavoro o attività, e sia evidente l’aumento delle sperequazioni, anziché la loro riduzione, minano le basi materiali della democrazia. E, insieme a queste, la convinzione che la democrazia sia tuttora la premessa necessaria per una società non solo più libera, ma anche più giusta e felice.
• Se la politica è arte di scelte operate in una realtà complessa e riferite ad orizzonti temporali e di interessi vasti, e se la storia ci insegna che la democrazia è, almeno sino ad ora, il più razionale strumento per realizzare una buona politica, la democrazia non può esser né semplificata, né realizzarsi attraverso il particolarismo.
L’esercizio della democrazia presuppone infine l’attitudine al dubbio, al considerare non irrilevanti le molte variabili indotte da diversità di interessi, punti vista, credenze, attitudini; presuppone il considerare irreversibile la trasformazione del suddito in cittadino che si è andata affermando in secoli di lotte; la presenza di un saldo impianto di regole e garanzie a tutela non solo della possibilità di governare, ma soprattutto dei diritti dei più deboli e delle minoranze. Come ogni altra forma politica, la democrazia presuppone una classe dirigente, anzi, deve formarla; ma quando le élites si trasformano in casta chiusa ed autoriproducentesi, la democrazia si trasforma in feudalesimo.
La democrazia è quindi un meccanismo articolato, complesso, e dinamico, che non perdura senza che la politica intervenga con continuità ad assicurarne il funzionamento, e senza che sappia interpretarne e gestirne la complessità. Il pretendere di semplificarla, di considerarla come un dato acquisito rinunciando a svilupparla, e di ridurre le complessità del ragionamento politico che comunque dovrebbe esserne la premessa alle forme dei criteri comunicativi moderni, è funzionale, appunto, alla visione di una democrazia monca e limitata.
E’ facile constatare come negli ultimi due decenni questi principii, sui quali, in fin dei conti, è stata modellata la nostra Costituzione, non solo non abbiano visto il compimento della loro attuazione, ma siano stati ampiamente contraddetti.
Venuta meno la stagione delle grandi riforme, ed a partire dal lento declino della cosiddetta Prima Repubblica, una profonda trasformazione culturale e sociale ha investito il Paese, manifestandosi per un verso nella progressiva denigrazione della Costituzione e delle Istituzioni della democrazia, nel restringere gli spazi di democrazia diffusa, nella limitazione della rappresentatività elettorale centrale e locale, nella compressione di diritti, nel particolarismo sociale e territoriale, nella riduzione del pluralismo e dell’indipendenza dell’informazione, nell’indebolimento dei corpi intermedi della società e nell’affermarsi di un sistema politico feudale fondato su partiti la cui funzione primaria è risultata quella di mantenere le posizioni dei relativi gruppi dirigenti.
E, sul versante sociale ed economico, manifestandosi nel venir meno di ogni velleità di programmazione da parte del sistema pubblico, nella sostituzione di un’impresa pubblica inefficiente e divenuta sovente centro di potere autonomo con monopoli ed oligopoli privati, nel contrarsi della mobilità sociale, nell’incremento delle sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, in una iniquità fiscale degna della tassa sul macinato, nelle concessioni e nei condoni per i furbi e nel rigore per gli altri; il principio delle pari opportunità è rimasto una pura astrazione, ed insicurezza e timori per il futuro sono divenuti l’orizzonte di riferimento di settori sempre più larghi del Paese. Una bassa o mancata crescita ha così caratterizzato l’ultimo ventennio, anche prima del prorompere della crisi economica degli ultimi anni, che ha solo aggravato la preesistente situazione di difficoltà. Cattiva amministrazione, sprechi, favoritismi, non volontà di affrontare nodi cruciali quali evasione, elusione ed equità fiscale hanno fatto il resto: e, se nel nostro Paese, il sistema fiscale ha svolto un’azione redistributiva, questa è avvenuta alla rovescia.
Con la cosiddetta Seconda Repubblica, venuto meno l’argine costituito da partiti politici che, per quanti difetti potessero avere, si erano comunque costruiti sin dal periodo della clandestinità antifascista in rapporto a concezioni politiche ed a progetti di trasformazione sociale, mantenendo un chiaro rapporto con la realtà attraverso la propria base sociale, si è affermata la forma di partiti che non sono né partiti di militanti, né partiti di opinione, ma semplicemente partiti-contenitore e partiti-persona, tenuti insieme da relazioni di interesse e di opportunità.
A gruppi dirigenti costruiti nelle battaglie politiche, dotati di indubbia statura intellettuale, si sono, nel corso degli anni, sostituiti leaders inamovibili incapaci di valutazioni che andassero oltre il ristretto orizzonte dell’opportunità immediata per il proprio clan, ed incapaci di guardare invece alla società nel suo complesso. E la politica, distaccatasi per un verso dalle concezioni culturali, e per l’altro da un confronto razionalmente empirico con la realtà, si è ridotta a gioco indifferente, la cui posta, pur prescindendo da degenerazioni riguardanti il Codice Penale, non era l’interesse comune, ma la perpetuazione della propria sopravvivenza.
L’incapacità di produrre scelte e risultati politici percepibili ne è risultata quindi diretta conseguenza, e l’istinto di sopravvivenza ha fatto sì che questa venisse addebitata alle Istituzioni in sé ed alle regole della democrazia che le governano, e non alle incapacità del sottostante sistema politico. Si sono così andati diffondendo i mantra sul bipolarismo, sul bipartitismo e sui piccoli partiti, sul presidenzialismo, la volontà semplificatoria e riduttrice del sistema politico e del sistema delle garanzie e del check of powers istituzionale; ed infine l’idea bislacca che un sistema plebiscitario nel quale un Parlamento limitato nella sua funzione rappresentativa, controllato a priori nella selezione dei suoi membri e limitato nei suoi poteri possa definirsi democrazia, i tentativi di asservire la magistratura e la stampa, la sostituzione del concetto di etica pubblica con quello di opportunità, politica od economica che sia.
La storia del ventennio chiamato Seconda Repubblica è così risultata la storia della vittoria culturale di una destra che non ha mai fatto mistero della propria concezione organicistica ed anticonflittualistica della società, di una concezione oligarchica del potere che considera le articolazioni e le complessità della democrazia come un inutile fardello, e che non ha mai nascosto di considerare particolarismi e privilegi come valori da tutelare.
Ed è la storia dell’incapacità delle forze di centrosinistra e di sinistra a farvi fronte ed a comprendere come ciò avrebbe richiesto da parte loro un profondo rinnovamento culturale e di metodo politico. Troppo a lungo si è pensato di potere evitare di fare i conti con un mondo che stava cambiando e con il venir meno delle certezze del ventesimo secolo. Troppe volte si è agito con supponenza, pensando di aver sconfitto il “nemico”. Troppo a lungo si è pensato di poter vivere di rendita sull’antico patrimonio di consenso elettorale e sociale che invece, come un capitale eroso dall’inflazione, andavano assottigliandosi. Troppe volte ci si è divisi in incomprensibili dispute che di politico avevano solo l’apparenza; e spesso, neanche quella. Troppe volte sono stati posti in atto comportamenti che, rispondendo unicamente a prospettive individuali, immaginavano di neutralizzare la destra evitando, per puro opportunismo, contrapposizioni di prospettive ed interessi, sino alla logica conclusione di finire col condividerne metodi e valori, come difatti è avvenuto.
Alla fine di questo percorso, per effetto del tracollo delle condizioni economiche e sociali del Paese, e del più che meritato discredito generale che ha colpito il sistema dei partiti, il meccanismo è andato in crisi. Cambiando più volte linea, il PD ha abbandonato già prima delle ultime elezioni politiche le posizioni che si erano espresse nella coalizione “Italia Bene Comune”, conseguendo l’inutile vittoria tattica di essere il primo partito e, al tempo stesso, una sostanziale sconfitta strategica che ha portato alle convulsioni precedenti la formazione del governo Letta ed all’avvento di Renzi alla segreteria del partito.
Nel frattempo, la Consulta, cancellando il Porcellum, ha obbligato le forze politiche ad uscire allo scoperto.
Il patto Berlusconi-Renzi (non noto in tutte le sue clausole) nasce così come il tentativo comune di un’oligarchia politica -quella dei due maggiori partiti della Seconda Repubblica- di condividere e blindare il controllo sul sistema politico, asservendo a questo disegno le Istituzioni della Repubblica, facendo proprio e dando forma compiuta ed istituzionale al percorso di svuotamento della democrazia che ha caratterizzato l’ultimo ventennio, di cui si è detto.
Poco importa se i risultati delle vicinissime elezioni europee potranno esser tali da far capire a Berlusconi come Italicum e Senato svuotato e non elettivo possano ritorcersi a danno della sua parte politica marginalizzandola, e tali da indurlo quindi a prender le distanze da queste riforme: i due contraenti del patto hanno, e continueranno comunque ad avere, bisogno l’uno dell’altro, e nuove posizioni della destra su Italicum e Senato non rappresenterebbero affatto una vittoria politica, né un momento di democratizzazione, ma semplicemente l’ennesima riprova di come in Italia le norme vengano di volta in volta piegate alle convenienze. Si tratterebbe, in sostanza, di nient’altro che di un aggiornamento del patto di sindacato tra i due contraenti.
In tutta questa vicenda spicca la virtuale assenza di un’opposizione che non sia quella apolitica di Grillo e dei suoi seguaci.
Le forze minori dell’attuale maggioranza di governo hanno rinunziato a recitare alcun ruolo autonomo.
A cinque anni da un’origine che aveva fatto sperare in una sinistra nuova e plurale, capace di dar risposte in una società oramai postindustriale, SEL appare sempre più involuta nell’alternativa perdente tra l’essere la sinistra del PD od una ristampa della Sinistra Arcobaleno.
Un accenno a parte riguarda il piccolo PSI, su cui non pochi (tra cui il sottoscritto) avevano confidato perché potesse rappresentare il potenziale nucleo di una nuova sinistra critica e non ancorata agli ideologismi del secolo passato, solo che avesse avuto la volontà di condurre battaglie politiche autonome: in primis, quella per la democrazia. Così non è stato, ed abbiamo visto i parlamentari socialisti votare una legge peggiore dell’esecrato Porcellum. Un’occasione storica, persa.
Su tutto, si sta stendendo un velo di generale conformismo: il Paese sembra rassegnato e stanco, in cerca, come troppo spesso nella sua storia, di un salvatore. E sembra, al riguardo, disposto ad accontentarsi di molto poco: di annunci, di tweets, di promesse televisive.
L’Italia si sta così incamminando, nella generale rassegnazione e nel conformismo generale, all’alternativa, esiziale per la democrazia, tra Grillo ed un PD alleato di Berlusconi, e che solo quest’ultimo, e solo per ragioni di concorrenza elettorale, riesce ancora a definire come forza di sinistra.
A naturale conclusione del ventennio berlusconiano e dell’esser venute meno nella nostra società, insieme alle premesse culturali, sociali, ed economiche della democrazia, le forme di partecipazione e di democrazia diffusa, ci si incammina verso una Repubblica oligarchica nella quale, grazie a leggi elettorali di comodo, una minoranza abbia la possibilità di governare con la benevola copertura di un’altra minoranza sostanzialmente corresponsabile. Il tutto, senza che vi sia una vera opposizione, o avendola resa del tutto marginale.
Oggi, si pone quindi la questione di avviare quantomeno l’aggregazione di coloro che vedono questa prospettiva come pericolosa non solo per la democrazia in sé, ma anche per gli interessi e lo sviluppo del Paese, che richiederebbero la riduzione di ineguaglianze e sperequazioni sociali, economiche, territoriali e la promozione di una società più aperta e più equa. Il che significa definire in una società oramai postindustriale ed in un’economia tendente alla globalizzazione, i parametri di una Nuova Sinistra, al di fuori di preconcetti ideologici, ma in rapporto alle premesse culturali, politico-istituzionali, sociali ed economiche di sussistenza di una democrazia compiuta.
19-05-2014
{ Pubblicato il: 19.05.2014 }