alessandro litta modignani
3 commentiLa gravissima crisi economica e finanziaria che attanaglia l’Occidente, dovuta a varie cause concomitanti che non affronterò qui, sta producendo, fra i suoi molteplici effetti collaterali, un curioso fenomeno politico-culturale, apparentemente secondario ma che invece, secondo me, non va trascurato, poiché potenzialmente assai pericoloso: il ritorno in auge, con grande iattanza, del tipico “intellettuale sessantottino”.
Posso dire, senza presunzione, che il ’68 l’ho conosciuto bene, per ragioni biografiche e generazionali: proprio in quell’anno, quattordicenne, facevo il mio emozionante ingresso in uno dei più “caldi” licei del centro di Milano, il Manzoni, a pochi passi dalle università Cattolica e Statale che della contestazione furono la culla e la fucina. Di quella stagione ricordo bene i protagonisti: giovani leader che spadroneggiavano nelle assemblee studentesche con la loro sicumera e il loro linguaggio stereotipato e nevrotico, infarcito di slogan e di violenza verbale. Lunghi discorsi e analisi cervellotiche, sostenute da teorie politico-filosofiche “scientifiche” apparentemente inoppugnabili, in realtà costruite su miti indimostrati e indimostrabili ma capaci di ridurre all'impotenza qualunque interlocutore, schiantandolo con un’autorevolezza costruita su un fiume di parole in piena. Il socialismo dei sessantottini, in realtà pseudo-scientifico, era un concentrato di economicismo, operaismo, dogmatismo ideologico e furore classista.
Dominava allora quella che Karl Popper chiama una “filosofia oracolare”, che prevedeva l’ormai imminente “rivoluzione proletaria”. Nessun collegamento con la realtà né con la cultura “dominante”, rispetto alla quale si era sideralmente lontani. Caratteristica tipica di quella generazione era la più assoluta e totale estraneità al liberalismo e alla democrazia politica, giudicati null’altro che l’ideologia dello Stato “borghese”, che andava “abbattuto e non cambiato”. Marco Pannella ricorda spesso, con felice metafora, che i giovani sessantottini conoscevano perfettamente la celebre “quarta risposta di Marx a Feuerbach”, ma non avevano letto una riga di Benedetto Croce né della “Storia del liberalismo europeo” di Guido De Ruggiero.
Inizialmente il ‘68 si era presentato come una ventata di libertà, uno spirito critico e anti-autoritario che ha poi dato i suoi frutti migliori sul piano del costume: la rivolta generazionale, la rivoluzione sessuale, la liberazione della donna e altro ancora. Ma il ’68 libertario, in poco tempo, aveva dovuto cedere il passo all’egemonia di un’ideologia totalitaria, il comunismo, con una violenza - inizialmente solo verbale - che non avrebbe tardato a produrre i suoi frutti avvelenati.
Venendo ai giorni nostri, sembra di assistere – nell’imperversare della crisi – a una serie di impressionanti analogie con quella stagione, che però purtroppo si ripropone solo nei suoi aspetti deleteri e nella sua versione peggiore. La giusta contestazione verso i regimi partitocratici, che mortificano le democrazie occidentali, sta rapidamente cedendo il passo di fronte all’incalzare di forze anti-sistemiche, che non reclamano cioè riforme atte a migliorare le regole del mercato, ma mirano a distruggere il “sistema capitalistico”. Gli esempi si sprecano.
In Italia, i gruppi che prendono a sassate la polizia in Val di Susa vengono apertamente giustificati e sostenuti sulla Rete, là dove si manifesta il moderno “assemblearismo” dei neo-sessantottini. “La vera violenza è quella dello Stato”, no?, dunque contro questa decisione “illegale”, cioè arbitrariamente giudicata illegittima dai manifestanti, ogni forma di contrasto è permessa, da parte di “resistenti” considerati coraggiosi e tutt’al più un po’ esuberanti.
In Grecia, le ripetute violenze di gruppi comunisti e anarchici contro le misure economiche del governo crescono di intensità; hanno già provocato, fra l’altro, la morte di alcune persone, rimaste intrappolate nei locali di una banca incendiata con le Molotov scagliate da gruppi di manifestanti mascherati.
In Inghilterra, bande di giovani teppisti possono devastare le città, incendiare interi quartieri, saccheggiare negozi, teorizzare il “diritto di rubare”, trovando benevola comprensione e sottili compiacenze “sociologiche” in vasti settori intellettuali della sinistra europea.
In Spagna (ma anche altrove) il movimento contestatore degli “indignados”, aggregatosi spontaneamente intorno a obiettivi confusi e protestatari, si sta rapidamente trasformando in un movimento estremista e anti-capitalista. Insomma un gigantesco “deja vu”.
Non appare tutto ciò come l’avvisaglia di una nuova grande ondata di carattere illiberale, non rivolta – lo ripeto - contro i “regimi” partitocratici e i loro assetti di potere, bensì contro il “sistema” economico, cioè contro la proprietà privata e la libertà economica individuale ? Come nel ‘68, anche oggi intellettuali verbosi ed estremisti giustificano il ricorso alla violenza, sostenendo curiose teorie politico-economiche stataliste e dirigiste, anche le più strampalate e assurde.
Queste teorie vengono di nuovo condite con analisi lunghissime, sofisticatissime, dettagliatissime, infarcite di dati sconosciuti ai più e di fatti lontani e non verificabili, ma abilmente collegati fra loro, con citazioni di studiosi per lo più sconosciuti e “alternativi”. Come si fa a contraddire una tale marea di argomentazioni? Come si fa a verificare tutti i passaggi economici, politici, finanziari, monetari, energetici citati a valanga ? Come si fa ? E' impossibile.
Resta solo da chiedersi come mai, negli ultimi decenni, questi esperti macro-economisti e anti-capitalisti non abbiamo mai azzeccato una previsione che fosse una, neanche per caso, neanche per sbaglio. E soprattutto come mai non abbiano saputo spiegare, neppure a posteriori, le ragioni dei loro errori precedenti, se non con argomentazioni ulteriormente ridicole.
Questi sono i “nipotini del ‘68” che la crisi finanziaria sta riportando alla ribalta. Se ne incontrano ovunque, soprattutto sulla Rete, dove possono imperversare raccogliendo un pubblico improvvisato e occasionale. C’è solo da sperare che, contrariamente a quanto accadde negli anni ’70, non siano in molti a seguire questo genere di “filosofia oracolare”, sottoprodotto di una mentalità estranea, se non apertamente nemica, della società aperta e della cultura liberale.
{ Pubblicato il: 05.10.2011 }