giovanni vetritto
Nessun commentoChissà che profilo ne avrebbe potuto tracciare Joseph Schumpeter. Steve Jobs, scomparso dopo una lunga malattia a 56 anni, è stato il prototipo dell’imprenditore innovatore teorizzato dall’economista austriaco: uno che immagina il futuro e poi lo costruisce, che inventa uno, due, tre prodotti del tutto rivoluzionari, e con quelli entra in profondità non solo nei meccanismi di funzionamento delle organizzazioni, ma nella vita delle persone. Uno che cambia il mondo con l’intraprendenza e il coraggio intellettuale. Che crea ricchezza producendo beni, non gonfiando bolle speculative; e soprattutto, non elemosinando aiuti di Stato o comode cucce calde di gestione di servizi a carattere pubblico. Ve lo immaginate a pietire la gestione di un acquedotto comunale o di una società di servizi statale, dalle parti di Cupertino?
Insomma, con buona pace della sinistra antidiluviana, il profitto non è sempre uguale e la proprietà non è sempre un furto. E il ruolo dell’imprenditore può essere molto meno odioso di come appare tanto spesso alle nostre latitudini.
Leggete l’impressionante descrizione che della modernizzazione informatica, della nascita di quello straordinario grumo di innovazione che ormai chiamiamo familiarmente Silicon Valley , fa Manuel Castells nella sua monumentale opera sull’età delle reti.
La generazione di chi scrive ha avuto l’infanzia ammorbata dalle distorsioni dell’insegnamento della matematica attraverso il sistema binario: 1/0, acceso/spento, il linguaggio base dei bit delle macchine informatiche degli anni ’70; quando bisognava fare 10 righe di programmazione per tirare fuori da uno dei primi computer “casalinghi” la scritta “ciao mamma”. Poi è arrivato Steve Jobs e con il mondo Mac ha instradato l’informatica sulla via dell’utilizzo facilitato, e attraverso questa al traguardo del largo consumo dell’high- tech.
Un pezzo di storia dell’informatica, della scienza, del marketing? Forse, ma forse anche qualche cosa di più: un pezzo di storia della libertà.
Lo abbia voluto o no, si sia mai sentito liberale o no (probabilmente no), attraverso il suo percorso imprenditoriale Steve Jobs ha cambiato il modo di comunicare, e attraverso questo ha avuto una funzione liberatoria. Ha reso possibili la posta elettronica, wikileaks, la connessione in tempo reale con gli smartphone. Certo, ci fa giocare con app e contenuti multimediali, ma rende anche possibile una comunicazione istantanea, senza la quale, per esempio, le rivoluzioni della primavera araba non sarebbero state possibili. Di più: sta marginalizzando quell’infernale meccanismo di trasmissione delle idee e dei contenuti che è stata la televisione novecentesca, il cui potere totalitario e regressivo terrorizzava a tal punto un liberale come Popper da indurlo a rimangiarsi, con il suo infelice libello contro la “cattiva maestra”, un pezzetto del suo stesso liberalismo. Grazie alle tecnologie di comunicazione di nuova generazione, che a lui devono tanto, il “nuovo focolare” oppressivo e massificatorio andrà presto o tardi in soffitta, soppiantato da meccanismi più paritari, più individuali, meno controllabili, e per questo più adatti a plasmare una società liberale. Come ha scritto recentemente Pierfranco Pellizzetti, c’è un potenziale liberatorio e autonomizzante senza precedenti nei new media : senza di lui oggi non potremmo nemmeno immaginarlo.
Se dunque, come Castells ci ha spiegato, con le nuove tecnologie sono cambiati irreversibilmente i modi di organizzare, produrre, distribuire, con un salto tecnologico che ancora ci dà l’effetto di una vertigine, ma che porterà, alla conclusione della Terza Rivoluzione Industriale, ad un mondo diverso e auspicabilmente migliore; allo stesso modo il lavoro di Jobs segna quotidianamente, oltre quanto riusciamo a percepire, la nostra vita. E nella direzione dell’innovazione, di quella “distruzione creatrice”, per dirla ancora con Schumpeter, che è stato il segno nella storia della borghesia liberale, prima che si intorpidisse nel moderatismo asfittico che ha strangolato il liberalismo stesso.
Detto da uno che ha in tasca un Blackberry e lavora su un pc con sistema operativo Microsoft: grazie Steve Jobs.
Le sue parole pronunciate a Stanford davanti a una platea di neolaureati restano il suo testamento, ma anche un invito all’insubordinazione intellettuale, che è la cifra di ogni liberalismo: “stay hungry, stay foolish”.
Lo faremo, mr. Jobs.
{ Pubblicato il: 06.10.2011 }