In un dibattito pubblico imbarbarito ma soprattutto banalizzato, vediamo se si riesce a polemizzare, duramente ma con assoluto rispetto, almeno con un osservatore galantuomo e relativamente affine come Ezio Mauro.
Nel suo articolo di ieri per Repubblica (http://www.repubblica.it/politica/2017/11/07/news/la_sinistra_che_non_c_e_-180446860/) Mauro, nel commentare i risultati, disastrosi per PD e scissionisti, delle elezioni siciliane di domenica, pone la questione delle prospettive della sinistra, con una critica al PD che ci si sarebbe atteso ponesse in discussione la questione storica delle “due sinistre” italiane.
Invece, tra una fuga dal tema in chiave mondialista (tra Trump e Brexit) e troppa genericità sulla storia del “riformismo” nazionale, Mauro evita del tutto di mettere i piedi nel piatto della questione.
Il tema è oggetto di una cantilena ricorrente e quasi ormai estenuata da queste colonne.
Non esiste, nello specifico nazionale italiano, il generico contrapporsi tra una sinistra “di governo, riformista” e una “di opposizione, radicale”. La sinistra massimalista ha avuto le sue occasioni di governo, e mal gliene incolse. La sinistra riformista è stata per decenni ricacciata in un’opposizione sempre più irrilevante. E Mauro lo sa bene.
Non esiste nemmeno (ma questo luogo comune almeno Mauro ce lo risparmia) una contrapposizione, spesso evocata da destra, tra “comunisti” e “socialdemocratici”.
Ben prima della nascita del partito socialista e dell’elezione di Andrea Costa, sul finire dell’800, il discrimine all’interno della sinistra italiana è sempre passato tra un liberalismo dinamico, aperto da subito alle contaminazioni e alla convergenza di obiettivi con la parte più consapevole e non massimalista del socialismo, e un massimalismo popolare ma spesso populista, non di rado vandeano, allergico alla democrazia liberale e alla cultura delle regole, pronto all’assalto al cielo ma indisponibile ad applicarsi pazientemente a due tre cambiamenti incrementali capaci di migliorare le condizioni di vita di tutti e di ciascuno; nei casi peggiori parolaio, rivoluzionario da operetta, benaltrista per ingenua convinzione quando non per tatticismo bieco.
Quando all’inizio del ‘900 questa contrapposizione tra epigoni del Risorgimento, eredi di forti correnti culturali europee, e nuove forze di massa si è plasticamente posta, alla radice della sinistra liberale, democratica, socialriformista (più tardi si dirà azionista, ma recuperando una denominazione non a caso ancora risorgimentale) si è posto il nome e l’opera di Gaetano Salvemini; dal suo magistero culturale e politico generano il giansenismo liberale e rivoluzionario di Piero Gobetti, il revisionismo radicale e innovatore di Carlo Rosselli, il liberismo duttile e anticorporativo di Ernesto Rossi, il federalismo ambizioso e radicale di Altiero Spinelli.
Nella stessa traccia (e spesso negli stessi movimenti politici che nella prima età repubblicana raccolgono, ancora citando Salvemini, “né un soldo né un voto”), in una tensione anche dialettica e perfino conflittuale si inseriscono, e non a caso, anche gli epigoni di altri due giganti decisamente trascurati dalla storiografia ma immensamente influenti sulla formazione politica e sulla concretezza istituzionale del modello italiano; due liberali a tutto tondo come Francesco Saverio Nitti e Giovanni Amendola. E di lì vengono Ugo La Malfa, Mario Pannunzio e molti amici del “Mondo”, Fuà e Sylos Labini, ma pure Villabruna e perfino (destinati entrambi a derazzare non poco) Marco Pannella ed Eugenio Scalfari.
È una sinistra che merita l’aggettivo riformista ma ha peculiarità molto precise e non è solo un generico rifiuto del ribellismo; è una sinistra che ha il culto fondante della libertà e della modernità, democratica e religiosamente rispettosa delle istituzioni; parlamentarista con ogni convinzione; custode del più rigoroso costituzionalismo; laica fino all’anticlericalismo; welfarista ma anticorporativa; moderna, aperta all’innovazione, coraggiosa e mai pietista né assistenzialista.
Con la sinistra massimalista, fattasi presto bolscevica, ha scontri epici; da quando, durante la guerra di Spagna, il suo figlio più vicino all’anarchismo, a sua volta discepolo di Salvemini, Camillo Berneri, viene massacrato dai filosovietici; fino all’opposizione furiosa e sorda del PCI al riformismo del primo centrosinistra di La Malfa, Giolitti, Saraceno, Battaglia.
Non a caso, quando ormai la crisi italiana sarà conclamata, nella seconda metà degli anni ’70 del ‘900, il PCI cercherà il compromesso storico con la DC del Moro quinta colonna del conservatorismo contro quello stesso centrosinistra; non certo un chiarimento a sinistra con gli epigoni di quelli che Mirella Serri ha definito i “profeti disarmati”.
Tutto è talmente chiaro che in quegli stessi anni due uomini della sinistra, diversissimi e a tratti tra loro nemici, come Enrico Berlinguer e il già citato Pannella, individuano entrambi nella Destra Storica un proprio ineliminabile riferimento politico, per il rispetto sacrale delle istituzioni, per la gestione sobria e rispettosa del potere, per la carica innovativa e antiprotezionista delle loro politiche. Esiste dunque per stare a sinistra una condizione culturale e politica che è di per sé opposta all’eterno costume delle destre nazionali, e questa è, anche per Berlinguer e Pannella, il liberalismo. Ma guai a farci i conti, per carità.
Certo, non è tema solo italiano. Il welfare lo ha inventato, come cultura, un liberale che si chiamava John Stuart Mill. lo hanno teorizzato liberali di norma anglosassoni, da Marshall a Dewey. Perfino il socialismo lo ha incastonato nell’evoluzione delle prassi politiche un liberale che si chiamava Hobhouse. Ne ha fatto poi concreto governo il capo dei liberali inglesi, Lord Beveridge. A mandare in soffitta l’economia neoclassica è stato un liberale come John Maynard Keynes. Dunque il tema del liberalismo nella sinistra della modernità si pone in tutto il mondo; ma è innegabile che esso sia al cuore stesso della questione della ricostruzione della sinistra soprattutto e come in nessun altro luogo in Italia.
Per questo con la caduta del Muro di Berlino è suonato antistorico e immotivato il refrain di tutte le destre a chiedere una “Bad Godesberg italiana” agli eredi del PCI; perché l’Italia non è la Germania, da noi non era esistita una storia culturale e politica di spessore della socialdemocrazia quanto del socialismo liberale (che è, in punto di concetto e di politiche, altra cosa); ed era invece con questa “altra sinistra” liberale, democratica, socialriformista (nel frattempo si era detto azionista) che occorreva fare i conti.
Invece si è preferito reclutare qualche laico in svendita, annegandolo in un mare di cattolici assoldati nelle varie Cose una, due tre, enne. Ma restando tetragoni a difesa di quella sinistra seppellita dalle macerie dei Muri, delle sue prassi, della sua cultura, dei suoi limiti. Della sua storia.
E si è finiti più a destra della destra, a recitare becerume antimmigrati, di ponti sugli stretti, di trivelle per i fossili, di mance assistenzialiste da 80 euro, di flessibilità salvifica e di “austerità espansiva”. Finché la sinistra è sparita del tutto dai radar, come cultura politica, come proposta, come contenuti, come capacità di riesaminare la propria storia, non quella della sinistra tedesca, orientativa ma alla fin fine ben diversa. Come giudizio sulle svolte storiche del Paese e sulle scelte, in esse, delle “due sinistre” effettivamente esistite e capaci di retaggi culturali ancora oggi.
Tutto questo nel pezzo di un uomo colto e non pregiudizialmente ostile a queste banali verità come Ezio Mauro non è nemmeno accennato di passaggio. E allora perché chiedersi, nel suo pezzo, cosa possano fare per questo terreno diserbato gli ectoplasmi di una radicale ormai riconvertita al centrismo come Emma Bonino; o addirittura un dignitosissimo massimalista che ha passato tutta la vita a sinistra dell’ultrasinistra, come Giuliano Pisapia, oggi incredibilmente accreditato come “riformista” (lui!) a causa solo della solita togliattiana disponibilità degli eredi del comunismo a coprire il fianco sinistro al solito becero destrorso di sinistra. Stavolta il Renzi della riforma costituzionale, delle trivelle, degli 80 euro, del rosatellum, capace però della stessa antidemocraticità, dello stesso tatticismo deteriore, dello stesso centralismo dittatoriale del PCI dei momenti peggiori. E infatti proprio quel Renzi è stato portato al governo senza passaggio elettorale da un signore comunista che esultava per i carri armati in Ungheria; e lo stesso Renzi è stato già due volte plebiscitato a capo del Pd dalla mitizzata “base” comunista, che per la democrazia parlamentare non ha mai avuto simpatia, nemmeno da quando ha smesso di oliare gli otturatori dei fucili conservati in cantina in attesa di un cenno dal “Partito” per l’inevitabile rivoluzione sociale.
Ormai siamo rassegnati a certe semplificazioni da parte di convertiti come Michele Salvati, da difensori della destra più destra, siano l’estremista Veneziani o il mimetico Panebianco; abbiamo fatto l’abitudine perfino alle ricorrenti prediche di Cofrancesco contro un fantasma del “gramsciazionismo” che in realtà è un ircocervo costruito dalla sua fertile mente ma che storicamente non si sa cosa sia.
Ma che anche un uomo come Mauro cada nel tranello e sia riduttivo di un dibattito secolare dispiace stavolta veramente troppo.
Siamo piccoli e la nostra voce arriva ai soliti happy few. Ma chissà che un uomo perbene e non distante come lui abbia voglia di risponderci e spiegarci il perché.
{ Pubblicato il: 07.11.2017 }