pino nicotri
Nessun commentoEgregio Onorevole,
Ho assistito al suo intervento il pomeriggio di mercoledì 5 nella sede della Confraternita dei Bergamaschi alla presentazione del libro della collega Angela Camuso. Per ora sorvolo su una serie di cose e mi limito a rispondere alle sue domande su Chichiarelli/Banda della Magliana/uccisione di Moro. Le sue domande però non hanno nominato un personaggio centrale: Steve Pieczenik, inviato dal Dipartimento di Stato degli Usa a presiedere il "comitato di crisi" che avrebbe dovuto occuparsi del caso Moro. Le invio la parte del mio libro "Cronaca criminale - La storia definitiva della banda della Magliana", edito l'anno scorso da Baldini Castoldi Dalai, che risponde a tutte le sue domande del 5. E vi aggiunge conferme da me causalmente trovate anni or sono mentre preparavo il libro "Tangenti in confessionale", edito da Marsilio.
Buona lettura. Che spero non voglia passare anche lei sotto silenzio per evitare di dare un dispiacere a certi ambienti.
Un saluto.
pino nicotri
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Il falsario e rapinatore Antonio Chichiarelli risulta essere stato utilizzato dall’allora capo della Cia e del Dipartimento di Stato degli Usa, Henry Kissinger, e dal nostro ministro degli Interni di allora, Francesco Cossiga, per spingere i rapitori Gli Usa infatti erano decisamente contrari alle aperture di Moro al Partito comunista italiano, che intendeva portare nell’area di governo. La cosa sorprendente è che, come vedremo meglio in seguito, a sostenere di avere usato Chichiarelli per spingere i brigatisti a uccidere Moro è lo stesso uomo, Steve Pieczenik, inviato da Kissinger a dirigere «l’unità di crisi» che, avallata dal primo ministro Andreotti e comprendente Cossiga, decideva la linea da tenere nei confronti delle Brigate Rosse e delle condizioni da loro poste per liberare l’ostaggio. Uno dei compiti, anch’esso riuscito in pieno, ammesso dall’americano era far credere ai giornali e all’opinione pubblica che le molte lettere scritte da Moro durante la prigionia, ricche di accuse ai politici, non erano spontanee, bensì frutto di un «lavaggio del cervello», e che quindi non se ne doveva tenere conto. Tutti i giornali fecero infatti a gara a delegittimare il contenuto delle molte lettere di Moro recapitate dai brigatisti a familiari e collaboratori del rapito nonché ad alcune redazioni.
Le ammissioni di Pieczenik, per quanto sbalorditive, testimoniano da un pulpito insospettabile lo sbocco della dura lotta iniziata da Kissinger contro Moro già nel ’74. Ad accusare l’allora segretario di Stato americano e boss della Cia sono stati la vedova, Eleonora Chiavarelli, il segretario personale, Corrado Guerzoni, e uno stretto collaboratore di Moro, Giovanni Galloni, vicepresidente della Democrazia Cristiana e del Consiglio Superiore della Magistratura. Questo è il racconto di Guerzoni, confermato dalla vedova dello statista davanti alla commissione parlamentare di inchiesta che si occupò del rapimento:
"[Moro] fu molto scosso dal viaggio compiuto a New York nel settembre del 74, quando, accompagnando l’allora Presidente della Repubblica, credo per iniziativa dello stesso Presidente o di ambienti dello stesso, ci fu un incontro con il Segretario di Stato Kissinger, durante un ricevimento presso l’Ambasciata d’Italia, volto ad appianare i vari punti di vista. In quella sede ci fu una conversazione molto aspra. Kissinger disse: non sono un cattolico e non credo nei dogmi. Non posso credere alla sua impostazione politica e quindi la considero un elemento fortemente negativo. Dopo questo fatto, il giorno seguente, nella chiesa di S. Patrick Moro si sentì male e quando ritornò disse ripetutamente che non intendeva per molto tempo riprendere l’attività politica. Ma proprio in quel momento maturava la sua candidatura alla Presidenza del Consiglio, che avrà, poi, nel dicembre del ’74.
Galloni per parte sua a proposito dello stesso viaggio ha dichiarato:
«Nel 1974, il presidente Ford e Kissinger (allora ministro degli esteri e capo della Cia) convocarono a Washington il nostro presidente della Repubblica, che era Giovanni Leone e il
ministro degli Esteri, Moro. Gli americani erano preoccupati per le frasi di Aldo Moro, quando, dopo il referendum sul divorzio, iniziò a parlare dell’attenzione che si doveva rivolgere al Partito comunista. Ad un certo momento della riunione Kissinger chiamò Moro e gli disse chiaramente che se continuava su quella linea ne avrebbe avuto delle conseguenze gravissime sul piano personale».
Come se non bastasse, Galloni ha rivelato che il presidente della DC gli aveva confidato, poche settimane prima del sequestro, la notizia secondo la quale le Brigate
Rosse erano infiltrate dai servizi segreti americani e israeliani, che detestavano Moro per le sue aperture verso i palestinesi. Queste le parole di Galloni davanti alle telecamere del programma della Tv di Stato Rainews24: «Non posso dimenticare un discorso con Moro poche settimane prima del suo rapimento: si discuteva delle BR, delle difficoltà di trovare i covi. E Moro mi disse: “La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle BR ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati”».
Un primo tentativo di assassinare moralmente Moro è del 1976 e porta già la firma di Kissinger. Negli Usa la commissione Frank Church del senato USA comincia quell’anno le sue
indagini sulle attività delle multinazionali tese a organizzare in tutto il mondo scandali contro le frazioni pro-sviluppo dei propri Paesi e scopre, tra l’altro, che la potente industria aeronautica militare Lockheed usava corrompere con ricche bustarelle i politici di più parti del globo per convincerli ad acquistare i propri aerei. A prendere le mazzette in Italia era un misterioso personaggio soprannominato in codice Antelope Cobbler. Per farne naufragare la politica di apertura ai comunisti e ai palestinesi, è un assistente del Dipartimento di Stato, cioè di Kissinger, tale Loewenstein, filosionista e antiarabo come il suo famoso principale, a proporre di dare in pasto alla stampa Moro indicandolo come l’Antelope Cobbler. La proposta è resa operativa da Luca Dainelli, ambasciatore italiano negli Usa e membro dell’International Institute for Strategic Studies. Il complotto contro Moro però non riuscì. Pur messo sotto accusa, la corte Costituzionale ne archiviò la posizione il 3 marzo 1978. Vale a dire, 13 giorni prima dell’agguato di Via Fani.
Infine, riguardo le responsabilità quanto meno morali di Cossiga nella volontà politica di fare uccidere Moro, mi sono casualmente imbattuto in due testimoni di eccezione: l’ex confessore di Cossiga ai tempi del sequestro Moro e un gesuita confessore della chiesa del Gesù in piazza del Gesù, ma di questo parleremo meglio a fine capitolo. In totale, una serie di intrecci davvero mozzafiato e, per quanto incredibili, documentati in modo incontrovertibile. Che conviene raccontare a partire dal caso Pecorelli anche se cronologicamente è successivo, di un anno, al rapimento di Moro.
L’AMERIKANO E IL FALSARIO
Come ha confermato il ministro dell’Interno dell’epoca, Francesco Cossiga, Pieczenik venne inviato subito dopo il rapimento di Moro a fare parte di un comitato di esperti per fronteggiare l’emergenza. La strategia impostata dall’esperto «amerikano» ricalcava fedelmente quanto previsto dal Field Manual redatto nel 1970 dalla Cia per definire il comportamento Usa verso i propri alleati in caso di loro gravi crisi. Si tratta di una strategia che definisce il terrorismo «fattore interno stabilizzante», secondo il principio «destabilizzare al fine di stabilizzare». E che non si fa scrupolo di prevedere la strumentalizzazione di eventuali gruppi eversivi dei Paesi alleati se essa può risultare positiva per gli interessi americani. Leggiamo ora cosa ha detto Pieczenik in una intervista all’«Italy Daily» del 16 marzo 2001 riguardo il suo compito durante il sequestro Moro:
"Stabilizzare l’Italia, in modo che la Democrazia Cristiana non cedesse… e assicurare che il sequestro non avrebbe condotto alla presa del governo da parte dei comunisti… Il mantenimento delle posizioni della DC: quello era il cuore della mia missione. Nonostante tutte le crisi di governo, l’Italia era stato un Paese molto stabile, saldamente in mano alla DC. Ma in quei giorni il Partito comunista di Berlinguer era molto vicino a ottenere la maggioranza, e questo non volevamo che accadesse… Io ritengo di avere portato a compimento tale incarico. Una spiacevole conseguenza di ciò fu che Moro dovette morire… Nelle sue lettere Moro mostrò segni di cedimento. A quel punto venne presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significava che sarebbe stato giustiziato… Il fatto è che lui, Moro, non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia".
Più chiari e cinici di così! In seguito però Pieczenik ha aggiunto altro, che ci interessa più da vicino perché tira in ballo direttamente Toni Chichiarelli, il geniale falsario e grande rapinatore. Intervistato per il quotidiano «l’Unità» del 9 maggio 2007 dal giornalista Marco Dolcetta, ecco cosa ha detto «l’amerikano » ripetendolo inoltre nel suo libro Noi abbiamo ucciso Aldo Moro, edito in Francia da Patrick Robin: Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo, mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio
compito era di impedire l’ascesa dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva interamente la strategia che volevo sviluppare.[...] Fra gli altri, i simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e una delle figlie di Moro […].
Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l’Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare.
Decidemmo quindi, d’accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all’autodistruzione. Uccidendo
Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti
[…]. Sono stato io a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro. [...] Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro che accettare. Le Br invece potevano fermarsi in un attimo ma non hanno saputo farlo o voluto".
Insomma, mettere nel sacco Le Br ed eliminare Moro: due piccioni con una fava. Che ha un nome e cognome: Antonio Chichiarelli. «L’amerikano» Pieczenik ha infatti detto chiaro e tondo che il falso comunicato n. 7, quello del cadavere di Moro nel lago della Duchessa, è il frutto di una ben precisa decisione strategica sua e di Cossiga. Interessante. Soprattutto perché a realizzare quel comunicato è stato un malavitoso romano: Antonio Chichiarelli, detto Toni, l’uomo che la segretaria e compagna di Pecorelli, Franca Mangiavacca, ha riconosciuto come l’individuo da lei visto aggirarsi nei pressi della redazione e dello stesso direttore di OP pochi giorni prima della sua uccisione. In altre parole, un delicatissimo ganglio dello Stato ha affidato a Toni un compito ben preciso: fare la mossa che porterà alla uccisione di Moro. Ma perché a un malavitoso e falsario come quello? Chichiarelli: chi era costui? Lo si è saputo solo dopo la sua morte, per la precisione dopo che è stato assassinato a casa sua il 28 settembre dell’84, a 36 anni.
Nato nel ’48 in un paesino marsicano, di fatto quindi conterraneo del marsicano Pecorelli, dopo il servizio militare negli alpini Toni si trasferisce a Roma. Nel 1970 viene arrestato per
possesso di pistole e mitra e inspiegabilmente rilasciato in tempi brevi. Dedito a furti, rapine, ricettazione e truffe, viene arrestato di nuovo nel ’73 e ’76, e durante quest’ultima carcerazione conosce a Regina Coeli Danilo Abbruciati, del quale diventa amico, e Giuseppucci «er Negro». L’inizio delle conoscenza con «er Negro» non poteva essere peggiore: una scarica di cazzotti iniziata dal pittore. Ma alla riappacificazione ci pensa Danilo: chissà, forse affinità elettive tra pugili. Non ci sono però disavventure giudiziarie comuni, motivo per cui eventuali rapporti con la Magliana e affini non sono documentati con certezza.
Sono meno incerte le amicizie del pittore e falsario con il solito giro di estremisti fascisti a mano armata, Alessandro Aliprandi, Massimo Carminati, Massimo Sparti, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Chichiarelli, che firma i suoi quadri con lo pseudonimo Toni Relly, nel ’77 conosce Chiara Zossolo, titolare di una galleria d’arte a Trastevere nonché futura sua consorte, e la nuova conoscenza gli permette di entrare nel mercato dell’arte, soprattutto in quello dei falsi d’autore. Un settore, quest’ultimo, nel quale Chichiarelli, innamorato in particolare dei quadri di De Chirico, era un autentico genio. La moglie gli farà conoscere anche un certo Luciano Dal Bello, trafficante con la Libia e informatore dei carabinieri, che gli presenta a sua volta un informatore della polizia, tale Giacomo Comacchio. È Dal Bello ad avvisare inutilmente i carabinieri di avere saputo che Chichiarelli è l’autore del falso comunicato brigatista numero 7.
Che Chichiarelli fosse dedito non solo alla falsificazione di quadri, ma anche alle rapine a mano armata, divenne chiaro come il sole dopo la sua uccisione, quando la polizia accorsa sul
luogo del delitto vi trovò, tra le altre cose, banconote provenienti dal «colpo» alla Brink’s Securmark di sei mesi prima, 24 marzo dello stesso ’84. La Brink’s era del finanziere piduista e mafioso Michele Sindona e la rapina tra contanti e titoli fruttò 35 miliardi di lire dell’epoca, ma forse molto di più, pari quindi quanto meno alla colossale cifra di 150-200 milioni di euro. Senza dubbio meritato l’appellativo di rapina del secolo. Lo sdebitarsi dei servizi segreti e annessi e connessi per i favori ricevuti? Sta di fatto che durante la mega rapina i banditi, che parlavano con accento piemontese e quindi non potevano essere del giro della Magliana, si erano proclamati a gran voce appartenenti alle Brigate Rosse e avevano in seguito lasciato a bella posta altre tracce «brigatiste» nella stessa piazza Belli dove, nel 1978, era stato recapitato il famoso comunicato fasullo n 7. Questa volta lasciarono, tra l’altro, copia delle quattro schede (su Pecorelli, Ingrao, Gallucci e Prisco) «dimenticate» su un taxi dopo l’uccisione di Pecorelli, e la fotocopia di alcune pagine di un libro che riportava una risoluzione della direzione strategica delle BR. Nel margine delle fotocopie comparivano appunti scritti a mano: quella di Chichiarelli, accertarono le perizie. La cosa inspiegabile è che Chichiarelli a tutto ciò ha aggiunto una foto Polaroid dell’onorevole Moro scattata almeno in apparenza durante il sequestro e definita dalle perizie autentica, cioè non un montaggio né la foto di una foto. Come è finita in mano al pittore falsario?
Le indagini sull’omicidio accertarono anche, con anni di ritardo, che Toni dopo la morte di Moro aveva seminato a Roma almeno altre quattro false piste brigatiste, con documenti apocrifi il 20 maggio 1978, altre due volte nel 1979 e l’ultima il 17 novembre 1980. Risultò essere sua la testina rotante della macchina da scrivere elettrica marca IBM con la quale era stato battuto il falso comunicato del lago della Duchessa del 18 aprile ’78. Ed è stata la stessa vedova di Chichiarelli, Chiara Zossolo, a confermare con altri amici del defunto di sapere bene, per averlo appreso dal diretto interessato, che l’autore di quei depistaggi era suo marito. Secondo il neofascista Massimo Sparti, fornitore di documenti falsi che si faceva dare da gente della banda della Magliana per i neofascisti del giro di Fioravanti, nonché il teste chiave della strage di Bologna che ha portato alla condanna di Mambro e Fioravanti, Chichiarelli avrebbe confezionato il falso comunicato «per scherzo». Secondo il testimone Gaetano Miceli avrebbe invece agito su richiesta delle BR, delle quali sarebbe stato «un pezzo grosso». Ma il giudice istruttore Francesco Monastero, responsabile delle indagini sull’uccisione del falsario, ha chiarito alla Commissione Stragi del parlamento che Chichiarelli «non aveva alcun rapporto con le BR autentiche, ma intratteneva rapporti significativi e qualificanti in altri contesti». Vale a dire, con personaggi di estrema destra e della malavita romana. Non manca neppure chi, come il confidente dei carabinieri Luciano Dal Bello, ha parlato di rapporti con i servizi segreti, del resto evidenti dalle parole dell’«amerikano». Da parte sua, Dal Bello subito dopo il rinvenimento del falso comunicato numero 7 ha confidato a un carabiniere, tale Solinas, di avere saputo, tra varie altre cose, che ne era autore proprio Toni, ma la soffiata non ebbe seguito. Per giunta, il caso vuole che nell’agosto del ’79 il pittore falsario e rapinatore sia stato fermato in auto per un controllo e che nella macchina gli trovassero una testina rotante di macchina da scrivere IBM. Toni se la cavò raccontando che fino a un paio d’anni prima era stato proprietario di un negozio di macchine da scrivere – in effetti nel ’77 aveva aperto e poi chiuso un negozio di mobili e attrezzature per ufficio – e che doveva consegnare la testina a un cliente. Poteva andare diversamente per chi era stato usato niente di meno che dal Dipartimento di Stato Usa e dal ministro dell’Interno italiano per prendere due piccioni con una fava, eliminare cioè Moro e la sua politica aperturista e far collassare le Brigate Rosse?
PESI SULLA COSCIENZA
«Lo stesso attentato a Moro, no? La prigione di Moro».
«Sì?»
«Erano arrivati alla casa vicina a dove stava lui. Hanno avuto l’ordine di fermarsi. Lo so perché un mio alunno faceva parte di queste cose qui. Me lo ha detto lui: “Noi abbiamo avuto
l’ordine di fermarci e tornare indietro”. Erano arrivati a pochi… A venti metri erano arrivati. Quindi lo sapevano benissimo. Cioè, lo sapevano. Setacciando casa per casa, alla fine lo
dovevano trovare».
«Via Montalcini?»
«Adesso non so perché io non sono addentro alle segrete cose. Però questo me lo ha detto un mio alunno che stava lì, insomma, ecco, faceva parte di quelli lì. Hanno dovuto rimettere,
capito? Ma non parliamo male che non è questa né la sede né il luogo né il caso».
Questa è una parte del mio dialogo al cardiopalma con un gesuita confessore della Chiesa del Gesù in uno dei primi giorni dell’agosto 1993. Stavo scrivendo il libro Tangenti in confessionale, spacciandomi nei confessionali delle chiese più rappresentative d’Italia – dal duomo di Torino alla basilica di S. Pietro in Vaticano fino a S. Gennaro a Napoli – per un politico che accettava le mazzette dagli industriali e a volte, al contrario, per un industriale che le pagava ai politici. Dalle risposte dei preti confessori volevo capire e documentare il comportamento e l’influenza della Chiesa nei confronti di un fenomeno come quello della corruzione e delle tangenti, troppo diffuso per esserle ignoto. E infatti...
Mi «confessavo» con un mini registratore avvolto in un giornale tenuto in mano perché stesse il più vicino possibile alla bocca dei religiosi. La tarda mattinata di un giorno tra il 2 e
il 4 agosto sono andato nella chiesa del Gesù, in piazza del Gesù. Una scelta dovuta al fatto che in quella piazza c’era la sede della direzione nazionale della Democrazia Cristiana e al fatto che in quella chiesa Andreotti andava a messa quasi ogni mattina, dove presumevo si confessasse anche. Inoltre proprio a pochi metri di distanza, nella adiacente via Caetani, era stato lasciato a suo tempo il cadavere di Moro trasportato da via Montalcini con una Renault rossa. Più simbolismi di così!
Entrato in chiesa, mi sono diretto verso il primo confessionale a destra, dove c’era un religioso in attesa di penitenti. Non avrei immaginato neppure da lontano che il discorso sarebbe piombato nel caso Moro, e in modo così tranchant: io parlavo di tangenti e il confessore per dirmi che era un andazzo molto noto e tollerato mi stava dicendo che era noto tanto quanto a suo tempo il luogo della prigione di Moro! Il cuore m’è schizzato in gola e ho cominciato a sudare non solo per il caldo. La storia che mi ha raccontato quel gesuita è la seguente: «Un mio ex alunno si era arruolato nella polizia ed era entrato nel corpo delle “teste di cuoio”. Un giorno è venuto a chiedermi l’autorizzazione morale per infiltrasi nelle Brigate Rosse, voleva cioè sapere da me se l’infiltrarsi era morale o immorale. Gli dissi che era morale. Passato del tempo, quel mio ex alunno è tornato da me schifato. Mi ha raccontato che mentre stavano andando a liberare Moro ed erano arrivati a una ventina di metri dalla sua prigione, all’improvviso ricevettero l’ordine di tornare indietro. Il mio ex alunno rimase talmente schifato che si è dimesso dalla polizia. Ora lavora nella falegnameria del padre». Chiaro quindi che si trattava della prigione di via Montalcini, altrimenti non si spiegherebbero lo schifo e lo scappar via dalla polizia.
Ero sconvolto. Ma uno o due giorni dopo sarei rimasto ancora più sconvolto. Sono andato infatti a confessarmi anche nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, nella omonima piazza, scelta perché in quella piazza aveva il suo storico ufficio privato l’ancor più storico Andreotti. Mi si è presentato un parroco con i capelli a spazzola e l’accento pugliese. Anziché nel confessionale, mi ha sorpreso facendomi accomodare in sagrestia, seduti uno di fronte all’altro su banali sedie e separati da nulla.
Ero teso perché temevo si capisse che il giornale che stringevo nervosamente in mano nascondeva quello che nascondeva. Ma a un certo punto ho rischiato di cadere dalla sedia: quel parroco – anche lui per consolarmi dicendo che il fenomeno delle mazzette era noto e tollerato quanto certi «misteri» del caso Moro – mi stava dicendo che era stato il confessore di Cossiga all’epoca del sequestro Moro!
«Quando, durante l’affare Moro, Cossiga era ministro degli Interni e lo confessavo io, in quel frangente dicevo: “Professore, io la posso solo assolvere dei suoi peccati. Ma la situazione
sua se la deve andare a sbrigare da qualche altro”. Allora c’era Ferretto, c’era Dossetti [compagni d’Università di Moro che dopo avere fatto politica hanno infine scelto la vita in convento, ndr]. Dicevo: “Vada a sentire loro. Perché, anche, loro sono quelli che, avendo fatto carriera con lei, con Moro e col partito, a un certo punto hanno fatto un’altra scelta, possono aiutarla adesso”. A questo tipo di sollecitazione lui diceva: “Lascio perdere tutto”».
Tradotto in linguaggio comune, il suo ex confessore mi stava dicendo che Cossiga aveva un enorme peso sulla coscienza per le scelte fatte. Lo straordinario racconto del parroco di S.
Lorenzo in Lucina confermava in pieno non solo quanto più volte più o meno chiaramente trapelato e in parte ambiguamente ammesso dallo stesso Cossiga, ma anche quanto raccontato dall’«amerikano» Pieczenik, all’epoca assai poco noto in Italia e a me del tutto ignoto.
Le due confessioni hanno avuto un seguito ciascuna. Il primo è che ho scritto a Cossiga chiedendo lumi sulle pesanti parole del suo ex confessore e ne ho ricevuto la seguente risposta: «Caro Nicotri, si tratta di una faccenda troppo importante per lasciarla trattare a un prete». Il secondo è che dopo la pubblicazione del mio libro, il pubblico ministero Franco Jonta mi ha convocato per interrogarmi e chiedermi chi fosse esattamente quel confessore. Nonostante il tono perentorio del magistrato, con velata minaccia di guai giudiziari, ho opposto il segreto professionale, specificando però che ero disponibile a rispondere, ma solo dopo che l’Ordine dei giornalisti mi avesse sciolto, su mia richiesta, dall’obbligo del segreto. Tornato a Milano, ho chiesto per iscritto di esserne sollevato data l’importanza dell’argomento e della mia testimonianza. Ottenuto il permesso, sono stato riconvocato a Roma da Jonta, e questa volta gli ho portato una copia del nastro con il dialogo nel confessionale. Man mano che ascoltava il nastro il magistrato si incupiva sempre di più. E ogni tanto continuava a ripetermi: «Ma non le sembra strano?» Ho cominciato a sentirmi a disagio, e a un certo punto ho temuto che magari venissi accusato di avere falsificato il nastro. All’ennesimo «Ma non le sembra strano?» mi sono stufato e ho ribattuto: «A me sembra strano, anzi stranissimo, però la sua è una domanda che dovrebbe rivolgere non a me, ma al confessore».
Silenzio di gelo.
Finito il nastro Jonta guardandomi in modo che mi è parso ostile mi ha chiesto: «E chi sarebbe questo confessore?»
«Credo lei volesse dire “chi è” e non “chi sarebbe”. Comunque la risposta è semplice: quello che riceve nel primo confessionale a destra entrando in chiesa», ho risposto specificandone
anche il cognome: «C’è affissa una targhetta in ottone con scritto come si chiama il confessore e gli orari durante i quali è presente».
«E che lo interrogo a fare? È chiaro che mi opporrà il segreto del confessionale».
«Be’, ma scusi, dottor Jonta, per arrivare a questa conclusione non c’era bisogno di farmi sciogliere dall’obbligo del segreto e farmi tornare a Roma. Ma se non intende interrogarlo,
qual è il motivo per cui ne vuole sapere il nome? Qualcuno vuole forse chiedere anche a lui di tacere?»
«Ma come si permette!»
«Guardi che quel confessore non può assolutamente accampare il segreto perché ha detto chiaro e tondo, come lei ha sentito ascoltando il nastro, che il suo ex alunno in realtà non è
andato a confessarsi, a parlare cioè dei propri peccati, ma solo a chiedergli un consiglio. Lei perciò può e anzi deve interrogarlo. E se non risponde lo può anche arrestare o comunque
mandare sotto processo. Proprio come ha minacciato di fare con me. O devo pensare che secondo lei io ho meno diritti del
gesuita?»
«Nicotri, guardi che qui cosa fare lo decido io. Lei non può certo starmi a dire cosa devo o non devo fare».
«Con la sua coscienza se le vede lei. Comunque guardi che questa è l’unica occasione di chiarire finalmente la bruttissima faccenda della mancata liberazione di Moro. E in ogni caso,
confessore o non confessore, è sicuro che non ce ne sono tante di ex teste di cuoio figli di falegnami infiltrate nelle Brigate Rosse e scappate dalla polizia dopo la faccenda Moro per andare a fare il falegname dal papà. Se questo ex poliziotto lo cercate, lo trovate di sicuro. Se lo volete trovare, naturalmente».
«Ah, ma allora lei non vuole capire! Qui comando io, e lei non deve assolutamente dirmi cosa cavolo devo fare!»
Conclusione? La prima è che sono uscito dal palazzo di Giustizia vergognandomi. Vergognandomi della mia disponibilità con il magistrato. E vergognandomi d’essermi fatto sciogliere
dall’obbligo del segreto. Mi sentivo molto a disagio, in imbarazzo con me stesso. La seconda conclusione: è chiaro come il sole che NON si è voluto chiarire il «mistero» della prigione
di Moro. Esattamente come a suo tempo non si voleva che la si trovasse. I «consigli» di Pieczenik parlano chiaro. I pesi sulla coscienza e le ammissioni di Cossiga anche. Il cadavere
di Moro pure. Senza tralasciare quello di Chichiarelli.
{ Pubblicato il: 19.10.2011 }