giovanni vetritto
Nessun commentoLa profondissima crisi politica che l’Italia sta vivendo affonda le sue radici nel passato e ruota principalmente attorno alla crisi dei partiti politici come soggetti della rappresentanza.
La crescita, recente ma tumultuosa, dell’astensionismo; il discredito ormai plateale in cui è precipitata la cosiddetta “casta”; la polarizzazione, nel Paese, tra una minoranza numericamente esorbitante di soggetti che vivono di politica, considerandola alla stregua di un ufficio di collocamento, ed una cittadinanza che se ne tiene sempre più lontana, considerandola ormai una attività poco commendevole; tutti questi fenomeni hanno a che vedere con la crisi dei partiti, che non è certo fatto recente.
Autoreferenzialità, distacco dalla società civile, incapacità di veicolare domanda sociale ed energie civiche, affarismo, carattere personalistico sono aspetti che hanno raggiunto una misura assolutamente patologica; ma hanno costituito una costante nella vita nazionale.
Sovviene una memorabile pagina di Francesco Saverio Nitti dell’inizio del ‘900, che denunciava già limiti di tal sorta: «La Camera italiana non ha due grandi partiti, […] gli stessi uomini si uniscono e si disuniscono secondo fuggevoli contingenze. […] Prima nella scelta dei sottosegretari di Stato, poi in quella dei ministri si è scesi così in basso, assumendo ed elevando al Governo uomini che nulla hanno, né la dottrina, né il passato, ne il programma e né meno la facondia, che ora tutto sembra consentito. […] Salire al Governo è facile, rimanere è difficile, più difficile ancora rimanere rettamente operando. […] Denominare un partito da un individuo sarebbe in un paese civile grave offesa alla dignità. […] In Italia, poi che non vi sono più partiti politici, è abitudine di designarsi e di designare dai nomi di alcuni uomini: si dice di essere giolittiani, sonniniani, rudiniani, ecc. […] qual cosa è più umiliante per la dignità umana? Come può esservi vita politica alta, dove un uomo tollera di essere designato con nome che suona offesa? Si può avere la più alta opinione di Giolitti e di Sonnino: ma significa disprezzarsi profondamente ammettere l’abdicazione della propria anima e diventare per il pubblico giolittiano o sonniniano» .
Questa originaria deviazione personalistica della politica ha conosciuto una progressiva accelerazione nel corso dell’età repubblicana: la sua cristallizzazione è avvenuta tra anni ’70 e ’80 del ‘900 ad opera di Marco Pannella, con le varie liste “Pannella” o “Bonino”. La discesa in campo di Silvio Berlusconi ha poi portato alla definitiva affermazione del modello del “partito personale” , nel quale l’adesione si riduce ad una immedesimazione simbolica nel capopopolo, intrinsecamente illiberale ed antidemocratica. Un’affermazione totalizzante, come dimostra il fatto che alla medesima categoria di formazioni politiche va ascritto senza dubbio anche il partito del più radicale oppositore di Berlusconi, Antonio Di Pietro.
Ad un punto così critico i partiti politici non avrebbero, d’altra parte, potuto arrivare se non in ragione di un preciso percorso storico. In Italia i partiti sono nati in grande ritardo rispetto alle altre democrazie europee; la prassi parlamentare ha vissuto sino al ventennio fascista della pratica del trasformismo, nelle sue varianti più nobili (il “connubio” cavourriano) o più degeneri (Depretis e Giolitti) ; il dibattito sull’organizzazione politica nella cultura liberale si sviluppò in ritardo sulle esigenze della società e delle stesse istituzioni . Il momento successivo fu l’esperienza della dittatura e del partito unico. Solo alla fine della seconda guerra mondiale i partiti ebbero occasione di strutturarsi realmente, proprio in coincidenza della costruzione del sistema costituzionale democratico.
Come messo in luce da Paolo Ridola, la cultura politica della Costituente era tutta tesa a marcare «il rifiuto dell’esperienza del partito unico del periodo fascista, ma parimenti il distacco dalla tradizione dello Stato liberale rappresentativo» . In particolare gli esponenti dei partiti cattolico e comunista, portatori di una concezione organica e totalizzante della democrazia, sottolinearono a più riprese il nuovo ruolo che nel sistema repubblicano i partiti avrebbero ricoperto, in quanto strumenti di «esercizio quotidiano di sovranità popolare» .
L’esponente più influente di questa tendenza era Costantino Mortati, che sul ruolo del partito politico come istituzione aveva scritto pagine di rilievo già nel pieno dell’esperienza fascista . Egli era portatore di una visione organica del partito rispetto allo Stato, che, al ritorno della democrazia, ripropose con argomenti altrettanto stringenti, con il partito unico che lasciava il posto al “sistema dei partiti”, con esiti per il resto analoghi .
Coerentemente con tale impostazione, Mortati alla Costituente presentò una proposta volta a consentire che la legge attribuisse ai partiti politici poteri pubblici, se «in possesso dei requisiti da essa fissati, ed accertati dalla Corte costituzionale», prefigurando una regolamentazione pubblicistica dei partiti stessi . A conclusioni non dissimili, in ordine alla regolamentazione della vita interna dei partiti, giunse, in seno alla stessa Costituente, un liberale purissimo come Piero Calamandrei : «I partiti, in realtà, come voi sapete, sono le fucine in cui si forma l’opinione politica. I partiti hanno cambiato profondamente la natura degli istituti parlamentari. [...] So benissimo che anche se arrivassi a convincervi cogli argomenti che vi espongo, essi non varranno, se non corrispondono alle istruzioni del vostro partito, a far sì che, quando si tratterà di votare, voi pur avendomi benevolmente ascoltato possiate votare con me. [...] Questa è la conseguenza dell’esistenza dei partiti: dei quali non si può dire se sia bene o male che ci siano; ci sono, e questa è la realtà. E allora si sarebbe desiderato che nella nostra Costituzione si fosse cercato di disciplinarli, di regolare la loro vita interna, di dare ad essi precise funzioni costituzionali. Voi capite che una democrazia non può essere tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici» .
Le forze politiche non accettarono le conseguenze del ragionamento di Mortati, pur assegnandosi, nei fatti, esattamente quel ruolo di poteri pubblici che il giurista cattolico lucidamente disegnava; il risultato fu che l’impianto costituzionale venne progettato e fatto funzionare nel presupposto del legame organico tra partiti e Stato; ma una norma di garanzia sulla democraticità dei primi non venne adottata, così che il sistema divenne strabico.
Le vicende successive confermarono l’esattezza della posizione di Calamandrei e di Mortati, tanto che alcune proposte di regolamentazione della vita dei partiti vennero avanzate, prima tra le quali quella di Luigi Sturzo del 1958. Del tema dello statuto pubblico fece una bandiera Giuseppe Maranini, che negli anni ‘60 animò la polemica sul tema, coniando il termine “partitocrazia”. Quella di Maranini non era una critica conservatrice, ma una diagnosi pragmatica della degenerazione, ma ad un tempo della insostituibile funzione, dei partiti in una democrazia liberale: «Non si tratta di liberarci dalla democrazia, ma di conquistare la democrazia; non si tratta di abbattere il parlamento, ma di restaurarne la dignità e la libertà, oggi così malamente usurpate dai suoi partitocratici controllori. [...] Ma prima di tutto e soprattutto occorre avere il coraggio di affermare la posizione pubblicistica, anzi costituzionale dei partiti, e applicare ai partiti (a tutti i partiti, senza distinzione) i più rigorosi controlli giuridici per quanto attiene alla loro democrazia interna, ai loro statuti, e soprattutto alle loro finanze. Questa è la strada e la sola strada» .
Il sistema politico preferì non imboccarla, continuando il suo cammino verso il baratro. Simona Colarizi ha individuato nella fase che va dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70 il momento del definitivo distacco dei partiti dalla società, l’inizio della loro crisi ad oggi irrisolta, l’affermazione della «privatizzazione partitica dello Stato» : «La contestazione studentesca inaugura nella società italiana una stagione di movimenti che dall'area giovanile mutua in gran parte i modi e le forme di una partecipazione politica profondamente innovativa. Interi strati della popolazione, in passato appena sfiorati dalla politica o del tutto indifferenti ad essa - donne, giovani, giovanissimi, sottoproletari - fanno sentire per la prima volta la loro voce, saltando la mediazione dei canali politici tradizionali che sono in netto ritardo rispetto alle richieste e alle istanze modernizzatrici maturate nel paese” .
Contestazione studentesca, autunno caldo sindacale, movimentismo per i diritti civili, campagne referendarie, ribellismo meridionale, nascita di realtà extraparlamentari, terrorismo: in forme ora fisiologiche ora patologiche, le novità che sconvolsero la vita politica italiana in quella fase passarono sopra la testa dei partiti, che affannosamente cercavano di tener dietro a due fenomeni che non avevano saputo prevedere né incanalare: la laicizzazione della politica e la richiesta di maggiore partecipazione della società civile.
A conferma della correttezza dell’intuizione di Calamandrei e Maranini, che avevano individuato lo stretto legame tra disfunzionalità democratica dei partiti, eclissi della dialettica maggioranza-opposizione e tendenza alla degenerazione morale, nello stesso lasso di tempo i casi di corruzione politica si moltiplicarono, intensificandosi sinistramente. Scandalo dei petroli, caso Lockheed, affare Sindona, fallimento del Banco Ambrosiano: tra metà anni ‘70 e anni ‘80 la teoria di scandali è quasi ininterrotta e prelude alla definitiva bancarotta morale di Tangentopoli. Nel frattempo, i partiti, invece di interrogarsi sulla loro stessa crisi e individuare possibili soluzioni, iniziavano a scaricare impropriamente sulle istituzioni le colpe della crisi politica: dalla “grande riforma” di Craxi negli anni ’80, fino alle più o meno recenti Bicamerali ed all’eccentrica riscrittura della Carta bocciata dagli elettori nel referendum confermativo del 2006, l’attacco all’assetto costituzionale dello Stato è stato il paravento scelto dai partiti per non riformare se stessi.
Il passaggio ad una malintesa Seconda Repubblica, ha segnato un ulteriore enorme degrado, fino al nadir cui si accennava in apertura di queste brevi note.
Se si vuole individuare una via d’uscita da questa situazione, occorre dunque riproporsi l’obiettivo di introdurre in Italia uno statuto pubblico dei partiti. Meglio, di riformarlo, posto che uno statuto giuridico speciale dei partiti politici in Italia esiste già; esso si è però venuto creando alluvionalmente, per opera soprattutto della giurisprudenza, tenendo conto della “natura anfibola” dei partiti stessi: da una parte protagonisti della vita istituzionale, dall'altra espressione di autonomia privata .
Ernesto Bettinelli ha ricostruito con accuratezza, alcuni anni fa, questo arcipelago di norme e canoni giurisprudenziali, carenti di principi generali e di una logica coerente . Il riferimento centrale è la disciplina dettata dal codice civile per le società di persone; attorno ad essa, e ben oltre la stessa, si però è andata accumulando una quantità di regole specifiche applicabili settorialmente ad alcune attività dei partiti, i quali finiscono per beneficiare di una disciplina giuridica “speciale” o largamente derogatoria. Ciò accade rispetto al rapporto tra articolazioni centrali e periferiche; nella gestione di attività economiche; come datori di lavoro; come editori e nell’accesso al mezzo televisivo; in materia elettorale; nella gestione finanziaria; e soprattutto in campo patrimoniale, sotto i due (ben differenti) aspetti del “patrimonio morale” e di quello fisico; con i paradossi cui si è assistito durante lo sfaldamento dei partiti storici della cosiddetta Prima Repubblica, quando coloro che ripudiavano tradizione, nome e simbolo di un partito ne restavano però proprietari, vietandone l’uso a quanti invece in quel “patrimonio morale” continuavano a riconoscersi.
Rispetto a questo disordine, pare davvero difficile contestare l’esigenza di una organica disciplina dei partiti, nel senso riassunto da uno dei padri del costituzionalismo liberale, Hans Kelsen, che ha tracciato con nitore il nesso necessario tra democrazia, partiti e individui: «La democrazia può quindi esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà generale verso i loro fini politici. [...] Solo l’illusione o l’ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici. […] La moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, la cui importanza è tanto maggiore, quanto maggiore applicazione trova il principio democratico. In conseguenza di questa circostanza, si possono concepire le tendenze - finora alquanto deboli - a dare ai partiti politici una base nella Costituzione, a dar loro uno statuto giuridico che risponda al ruolo che, in pratica, essi esercitano da gran tempo: quello di organi della formazione della volontà dello Stato» .
Beninteso, non un qualsiasi statuto pubblico, perché lo strumento si presta all’affermazione di visioni organicistiche e totalizzanti della democrazia che sono in punto di principio da rifiutare. Per statuto pubblico si è inteso a volte, in passato, qualcosa di molto pervasivo e cogente, un vero e proprio “statuto-tipo”, con l’imposizione di fini e valori ai partiti; in simili termini si giustifica il più netto rifiuto. Le ragioni di rifiuto vengono, però, a cadere se si accede ad una versione “debole” dello statuto: una summa di principi organizzativi e procedurali democratici e di diritti di partecipazione e controllo, mutuati da quelli escogitati dal costituzionalismo classico a beneficio dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche; basato su una legge ordinaria, ma anche su una riformulazione del precetto costituzionale di base (in questo senso rappresentava già un interessante passo in avanti la proposta di riscrittura dell’art. 49 della Costituzione avanzato a metà degli anni ‘80 dalla Commissione presieduta dal liberale Aldo Bozzi ).
In questa forma la disciplina giuridica dei partiti troverebbe organicità e sistematicità, e potrebbe ricondurre alla democraticità degli stessi, nella loro insostituibile funzione di veicolo per la rappresentanza. La difesa ottusa di una “libertà dei partiti”, necessaria e intangibile, in contrapposizione alla “libertà nei partiti”, eventuale e subordinata alla prima, dimostra infatti come ai partiti odierni si possa agevolmente applicare un brillante aforisma di Guido de Ruggiero: «In un regime dispotico vi è di solito un liberale, ed è il despota stesso» .
{ Pubblicato il: 30.10.2011 }