giovanni incorvati
Nessun commentoPer impedire una simile eventualità la Costituzione ha previsto, a chiusura del sistema, un dispositivo di sicurezza nell’art. XII c. 1 delle Disposizioni transitorie e finali: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». I costituenti, piuttosto che dettagliare in positivo il metodo democratico come obbligo, hanno preferito definirlo negativamente come divieto, nella prima delle disposizioni finali . Nel corso della discussione Lelio Basso precisò che è buona tecnica costituzionale porre le eccezioni dopo il principio generale a cui si riferiscono, perché la loro funzione è di rafforzarlo, come sottolinea l’espressione di portata generale “sotto qualsiasi forma”, riferita all’organizzazione del partito . Un rafforzamento che si attua grazie al chiarimento che l’eccezione fornisce sulla struttura della regola, e al suo inserimento tra le disposizioni finali, che rende irrevocabile la regola stessa.
Nell’ipotesi di riorganizzazione antidemocratica di cui all’art. XII c. 1, la forma esterna del partito non appare separabile da quella interna. Il tratto che caratterizza l’innovazione storica del partito fascista è duplice. La “legge bronzea” dell’oligarchia enunciata da Michels viene tradotta dapprima in norme interne di partito e poi in leggi dello Stato, con una riduzione dei diritti politici a vuote formalità su entrambi i lati, grazie anche all’introduzione di fatto del mandato imperativo, finalizzato a consolidare il potere gerarchico. È appunto a garanzia di questi diritti e per la messa fuori uso della “legge bronzea” che è posto l’art. XII, in coppia con l’art. 67 cost. L’unità dei tre elementi strutturali attraverso cui il PNF si è sempre definito nel proprio statuto - la volontarietà nell’adesione, come sottomissione gerarchica dei “gregari” agli obiettivi di politica nazionale del capo - ritorna perciò, democraticamente rovesciata, nell’art. 49 . Per la nostra Costituzione il fatto di associarsi in partito non deve mai risolversi in rinuncia al diritto di concorrere a determinare la politica nazionale.
I partiti politici italiani non hanno mai accettato un confronto approfondito sul divieto dell’art. XII nei suoi diversi aspetti. Né hanno voluto vederne tutte le implicazioni, confortati in questo anche da autorevoli tendenze interpretative. In effetti l’opinione corrente ritiene essenziale, perché si possa parlare di “riorganizzazione” del PNF, che venga riproposto, anche parzialmente, il suo programma, ma considera del tutto ininfluente la ripresa di aspetti fondamentali dei suoi statuti. Persiste così una grave rimozione del carattere antifascista della nostra Costituzione e del pericolo fascista stesso, quello che si annida nel proprio nucleo più duro. Anzi, è proprio grazie alla sottovalutazione delle strutture giuridiche che ne hanno favorito la nascita e lo sviluppo, che il partito fascista potrebbe riproporsi e riorganizzarsi sotto forme apparentemente diverse.
Sciolti da tali vincoli, i partiti italiani, già all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione, si sono sentiti liberi di abbandonare la sede a loro riservata, quella dei “rapporti politici”, contenuta nel titolo IV della prima parte, per procedere a una ricollocazione completamente diversa. La sede reale della materia si è così trasferita nel titolo I sui “rapporti civili”, e precisamente nell'art. 18, di cui l’art. 49 riprende la formulazione per mettere meglio in risalto le radicali differenze . È invece proprio qui che i partiti, nel loro agire concreto, si sono assestati.
Mentre sotto il profilo giuridico li si è ridotti ad associazioni di diritto privato non riconosciute, che non hanno obblighi di metodo democratico, sul piano fattuale essi hanno adottato i comportamenti degli organismi di questo tipo, che non offrono alcuna garanzia di uguaglianza. I loro statuti, invece di tutelare i diritti degli associati, hanno svolto la funzione di premunire i dirigenti e metterli al riparo da legittimi interventi volti a far valere quegli stessi diritti, anche sotto il profilo della tutela giudiziaria.
Dopo essersi disancorati dai diritti politici degli associati, i partiti italiani, con un'ulteriore mossa, si sono dislocati nella seconda parte della Costituzione, come soggetti fondamentali dell'“ordinamento della Repubblica”. Qui hanno assunto un ruolo guida grazie al finanziamento pubblico senza oneri per loro, ma anche e soprattutto grazie al fatto che i rispettivi dirigenti sono venuti cumulando cariche pubbliche e connessi conflitti di interessi.
In conseguenza di tale doppio salto - inizialmente all'interno della prima parte della Costituzione, e subito dopo nella seconda - ai cittadini è stato tolto quel ruolo attivo nei e con i partiti che l'art. 49 assegna loro. Per di più l’art. XII, lett. c, para. 1 è stato interpretato come se del partito fascista volesse precludere unicamente la forma esterna . Infine, secondo questa stessa tendenza interpretativa, i costituenti avrebbero riferito il “metodo democratico” di cui all’art. 49 esclusivamente ai rapporti esterni dei partiti. Si tratta di un’evidente forzatura che non corrisponde al reale corso dei lavori preparatori. L’approvazione di questo articolo risultò in effetti dalla sintesi di due proposte, l’una di Basso, che mirava a garantire il versante democratico interno dei partiti, l’altra di Tupini, più interessata a quello esterno .
Ma, negato all'interno dei partiti, il diritto di concorrere con metodo democratico è rimasto inattuato anche all'esterno. Una volta allontanati dall'orizzonte associazioni e movimenti (anche col pretesto del divieto di mandato imperativo, che di fatto non trova applicazione riguardo alle direttive delle segreterie dei partiti), quel che si instaura, anche nei rapporti interpartitici, non è un regime di democrazia. Di questo rovesciamento di strategia le donne, marginalizzate all'interno come persone, rimosse all'esterno come movimento, rappresentano un elemento chiave, paradigmatico di un deficit che ha radici profonde. L’obiettivo dei partiti non appare quello di far concorrere “tutti i cittadini”, e tanto meno di sollecitare il contributo di cittadinanza di lavoratrici e lavoratori immigrati, ma esclusivamente quello di accentrare tutto il “concorso” nelle mani di un’élite maschile.
A essere sottratto alla sfera dei “diritti e doveri dei cittadini” non è semplicemente l'art. 49, ma il complesso dei “rapporti politici”: dal voto al diritto di petizione e all'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Questi rapporti sono stati spogliati dei rispettivi diritti e dislocati nella seconda parte della Costituzione, resa autonoma dalla prima parte e dagli stessi principi fondamentali della Carta. E da qui lo stretto controllo dell’élite si è esteso infine su tutto l'insieme.
E’ avvenuto che quelli che Gramsci chiama i moderni Prìncipi (con la “P” maiuscola), ossia i partiti politici stessi, su questa materia hanno mantenuto un atteggiamento assai più ambiguo dei loro predecessori premoderni: hanno fatto e taciuto allo stesso tempo. Un’ambiguità che Lelio Basso ha espresso con il titolo icastico dato a un suo saggio dedicato alla nostra Costituzione, a dieci anni dalla sua entrata in vigore: Il Principe senza scettro (Principe sempre con la “P” maiuscola). Un titolo che più tardi, nel trentesimo anniversario, Fulco Lanchester ha ripreso per un suo volume sulla storia dei partiti politici italiani: Prìncipi senza scettro. Il moderno Principe ha abbandonato l’emblema del preteso “diritto del più forte” (lo scettro) e ha scisso la sua forza da quella del diritto. Come il diritto non riconosce i moderni Principi, così i moderni Principi non riconoscono il diritto.
L’ambiguità si aggiunge all’ambiguità. Qual è infatti la maschera dietro cui si nascondono i moderni Principi? Attraverso quale persona giuridica essi si legittimano agli occhi del diritto? La risposta è semplice: questa persona, questa maschera, è il principe con la “p” minuscola, il popolo sovrano. Quello dell’art. 1 della nostra Costituzione, che ha il diritto dalla sua. E la cui forza sta nel proprio rimpicciolimento, come principe senza scettro che riconosce e protegge i diritti delle minoranze.
In senso opposto vanno i titoli di due monografie di Gianfranco Pasquino: Restituire lo scettro al principe, la prima, e Alla ricerca dello scettro perduto, la seconda - ossia nel senso di dare al principe con la “p” minuscola quella forza che gli manca. Peraltro, rimettere tutto direttamente nelle mani del voto popolare, non solo quindi il Parlamento, ma lo stesso governo, la Presidenza della Repubblica e perfino le istituzioni di garanzia (come oggi molte forze tendono a fare), significa trasferire l’art. 1 nella seconda parte della Costituzione e azzerare in qualche modo la prima parte. Significa amplificare al massimo l’operazione che già è stata compiuta con l’art. 49, legittimando la forza con il diritto e, al limite, la dittatura della maggioranza.
È possibile aprire i passaggi della nostra Carta, diventati quasi segreti ormai, e far rientrare i partiti nella loro sede costituzionale? Porre termine al lungo esilio politico e restituire a tutte e a tutti, alle associazioni, ai movimenti, quei diritti che sono stati loro negati? Progettare, anche attraverso il web, forme inedite di concorso democratico? È per cercare di rispondere a questi interrogativi che l’Associazione italiana dei giuristi democratici ha organizzato a Roma il convegno “La democrazia nei partiti. L’articolo 49 della Costituzione, 60 anni dopo” per dibattere criticamente i diversi modelli a confronto e le diverse proposte che sono state recentemente avanzate. Da quelle, per esempio, di Luigi Ferrajoli, nel contesto di carattere più teorico dei suoi Principia iuris, a quelle più marcatamente operative in discussione presso il Consiglio Regionale della Puglia.
{ Pubblicato il: 30.10.2011 }