giovanni la torre
Nessun commentoPubblichiamo il settimo dossier di Critica liberale per il "Partito-che-non-c'è-(ancora)". La Fondazione sta elaborando dei testi per dare corpo a una vera e propria proposta programmatica coerente con i metodi e i valori di una sinistra liberale. E' sua intenzione accendere una discussione ampia per raccogliere critiche e suggerimenti. Già il 29 ottobre si è svolto un primo seminario su "Esercizio del diritto alla politica e forma-partito", sabato 3 dicembre (ore 10-13 presso la sede della Fondazione, via delle carrozze 19 roma) si svolgerà un secondo Seminario su "Regole per il mercato, il lavoro, lo sviluppo", di cui questo documento intende essere la proposta-base. Chi desidera partecipare è pregato di iscriversi a info@criticaliberale.it. Su questo sito pubblicheremo eventuali e graditi commenti dei nostri lettori.
*****REGOLE PER IL MERCATO, IL LAVORO, LO SVILUPPO
a cura di Giovanni La Torre
A) Il contesto storico globale
1) Dopo l’incerta presidenza Carter, durante la quale l’Occidente subì alcuni smacchi che aprirono delle ferite importanti (1979: massimo espansionismo sovietico con l’occupazione dell’Afganistan, minimo prestigio Usa con il fallito blitz per liberare gli ostaggi americani nell’Iran degli ayatollah) l’avvento di Reagan fu determinato dal popolo americano per riprendere la leadership mondiale in modo indiscusso, confidando nell’incontestata superiorità economica e militare rispetto all’antagonista Urss. La strategia Usa da questo momento si svolse lungo due linee direttrici. La prima, di tipo militare, attraverso l’avvio del progetto “scudo spaziale” teso a lanciare la competizione finale all’avversario, con la consapevolezza che difficilmente sarebbe stato in grado di stargli dietro per ovvi limiti tecnologici ed economici, limiti raggiunti dopo decenni di una dittatura ottusa e immobile. La seconda, di tipo economico - culturale, attraverso l’imposizione di politiche e legislazioni liberiste a tutti i paesi con cui si poteva venire in contatto anche attraverso le istituzioni internazionali. Il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, ecc., furono presidiate da esponenti di provata fede liberista e i loro aiuti venivano forniti solo a condizione che i paesi beneficiari adottassero legislazioni e politiche liberiste - soprattutto nel settore dei movimenti dei capitali - e monetariste. Organismi come il G8, dove la leadership Usa era già fuori discussione, completavano l’opera attraverso il condizionamento dei paesi più sviluppati. In questo modo l’avversario Urss fu stretto in una tenaglia, perché da un lato i propri limiti gli impedivano di star dietro al progetto “scudo spaziale”, a meno di imporre nuovi “piani quinquennali” di staliniana memoria - che però sarebbero risultati di dubbia attuazione in un momento in cui la cittadinanza oltre cortina era ormai conscia dell’enorme differenziale in termini di tenore di vita che la separava dagli occidentali - dall’altro la diffusione di sistemi economici di stampo neoliberista nel mondo la portava sempre più all’isolamento (di enorme importanza fu l’adesione al nuovo “credo” dell’altra grande potenza Cina). In questa situazione all’interno del sistema sovietico nacquero conflitti e contrasti che portarono tutto l’impero al collasso. Si poté così concretizzare la fase storica attuale che va sotto il nome di “globalizzazione” avviata sin dal 1980 e dispiegatasi in maniera completa e compiuta negli anni novanta.
2) La globalizzazione, di per sé realizzazione importante in una fase che ha visto un repentino sviluppo dei mezzi di comunicazione (internet = villaggio globale), ha consentito di realizzare obiettivi importanti per l’intera umanità, come la riduzione della povertà assoluta (meno di 1 dollaro al giorno di reddito) per diverse centinaia di milioni di individui. Essa però nasce anche con delle connotazioni che nel tempo la caratterizzano in modo non sempre positivo. Essa sconta il vizio di origine di essere nata non già per consentire una maggiore integrazione mondiale a fini pacifici e di armonioso sviluppo globale, bensì per consentire la ripresa della supremazia Usa da un lato, e per affermare nel mondo politiche e idee neoliberiste, di cui era portatrice la nuova classe dirigente Usa, dall’altro. Tali idee erano da decenni alla ricerca di una rivalsa negli Usa, dopo il loro accantonamento dal new deal rooseveltiano in poi. D’altro canto l’indubbia vittoria conseguita nella “terza guerra mondiale”, oltre tutto in modo incruento, conferiva al progetto la credibilità che di norma viene riconosciuta al vincitore e, in un certo senso, spuntava le armi alla critica delle opposizioni. Questa stessa vittoria, però, faceva ritenere a molti che l’eliminazione dell’avversario avrebbe dovuto indurre la potenza vincitrice ad assumere atteggiamenti più collaborativi non solo fra le nazioni, ma anche tra le classi sociali all’interno dei singoli paesi. Invece si assisteva a un processo opposto: la vittoria induceva a un comportamento senza più remore da parte delle componenti “vittoriose”. Il capitalismo temperato, di tipo fordista e keynesiano, veniva accantonato drasticamente e riprendevano vigore quegli istinti dell’anarco-capitalismo pre ’29. Quanto più il capitalismo temperato esigeva e attuava politiche di perequazione distributiva, non solo attraverso la leva fiscale ma anche attraverso il welfare e un certo appoggio alle organizzazioni sindacali dei lavoratori, o politiche pubbliche e di bilancio che regolamentassero quelle attività di tipo economico che avrebbero potuto cagionare pregiudizio alla collettività, tanto più il nuovo capitalismo neoliberista spostava proporzionalmente il peso fiscale sui lavoratori e sui percettori di bassi redditi a vantaggio dei profitti, dei redditi da capitale e comunque dei redditi alti; si tese altresì a mortificare sempre più l’attività sindacale (e qui la globalizzazione veniva a svolgere un ruolo importante perché consentiva il ricatto dell’outsourcing) al fine di indurre uno spostamento di reddito alle categorie più ricche già prima delle tasse.
3) A questo fine sono state importanti anche tecniche di retribuzione dei top manager che hanno indotto questi ultimi ad abbandonare il loro atteggiamento, entro certi limiti, “terzo” nei conflitti, non solo di lavoro, che vengono a nascere all’interno di un’impresa. Essi vennero portati anima e corpo dalla parte degli azionisti, con i quali da un certo momento in poi hanno condiviso i lauti guadagni, e venne così a mancare un altro elemento equilibratore che era risultato molto importante nei decenni precedenti. Il nuovo manager non era più quello che aveva come obiettivo lo sviluppo della sua organizzazione nel lungo periodo e l’aumento del prestigio sociale, che si preoccupava della legittimazione sociale della “sua” impresa, bensì un accumulatore di guadagni il più possibile facili, veloci e immediati. All’ottica di lungo periodo fu sostituita la visione corta del brevissimo termine. Inoltre, il processo di deregulation avviato in tutto il mondo, e che ha riguardato soprattutto il movimento dei capitali e, più in generale la finanza, ha liberato “istinti animali” e speculativi che fino ad allora erano più sotto controllo.
4) L’avvento nella competizione mondiale di grandi paesi prima assenti (Bric), che hanno fatto del commercio internazionale il loro motore di sviluppo, fece emergere sempre più un altro aspetto critico dell’economia mondiale ben presente a tutti ma sempre accantonato nelle riunioni internazionali: il ruolo del dollaro. Quei paesi infatti come prima preoccupazione si ponevano l’esigenza di incamerare dollari, anche al fine di salvaguardare la loro indipendenza, che sarebbe stata messa a rischio se avessero dovuto chiedere aiuto al Fmi. Ma questi dollari tornavano poi nel paese dove erano stati stampati mediante impieghi finanziari che non facevano altro che irrorare di liquidità il sistema economico statunitense unendosi alla liquidità generata dai maggiori risparmi delle classi ricche. Da qui prendevano corpo tutti quegli eccessi della finanza i quali, uniti alla crisi endemica di domanda conseguente alla diminuzione del reddito disponibile delle classi medie e basse (crisi di domanda che lo sviluppo della new economy prima, e il dilatarsi del credito al consumo e dei mutui sub prime poi, avevano occultato per qualche anno) determinavano la crisi globale attuale.
5) Gli smacchi subiti da questo modello di crescita sembrava in un primo tempo dovesse di nuovo relegare ai margini del dibattito politico e economico, come dopo il ’29, le tesi neoliberiste. Purtroppo però questa tendenza è durata solo il tempo necessario a far adottare quelle politiche di intervento pubblico che “in teoria” costoro aborrono, salvo poi invocarle nell’atto pratico dei “salvataggi”, e così oggi siamo costretti a registrare come il clima culturale, scientifico e politico in campo economico sia sostanzialmente ancora quello degli anni ottanta del novecento. Dopo la fine del comunismo storico era diventata opinione diffusa che fosse finita l’era delle ideologie, come se l’ideologia precedentemente esistente fosse solo quella comunista. In realtà anche quella neoliberista è ideologia allo stato puro in quanto non c’è alcuna giustificazione scientifica e meno che mai storica a giustificare la sua permanenza in auge. Già Croce considerava sia il liberismo sia il comunismo allo stesso livello, cioè come due utopie che promettono il paradiso in terra di per se stesse, come conseguenza del loro semplice affermarsi, negando così il ruolo che l’agire umano, e quindi la Storia, svolgono nel determinare il destino dell’umanità. Il liberale Keynes, e il liberale Beveridge, sulla scia di Croce, hanno dimostrato, nella teoria e nella prassi, che quell’intervento umano è necessario sia per dare maggiore razionalità economica al capitalismo, sia per assicurargli quella legittimazione che altrimenti verrebbe meno, e le loro tesi sono entrate a far parte anche del bagaglio teorico e pratico della socialdemocrazia.
6) La crisi globale è quindi innanzi tutto una crisi di domanda conseguente a un’insufficienza dei redditi disponibili delle classi meno abbienti, la crisi finanziaria è solo l’altra faccia del problema in quanto l’eccesso di profitti/risparmi non trovando sbocco nell’economia reale (proprio per l’insufficienza della domanda) si riversava sulla speculazione e sulla finanza; la cosiddetta “innovazione finanziaria” è stata la via che questa volta è stata adottata per gestire quella immensa lotteria finanziaria. Se questa è, come crediamo, una crisi di sottoconsumo o di sovrapproduzione, i primi provvedimenti che dovrebbero essere assunti a livello globale dovrebbero riguardare una accordo per ristabilire una distribuzione dei redditi più armoniosa all’interno di tutti gli stati, anche reintroducendo principi di più forte progressività in campo fiscale. Si accusa spesso la Cina di fare dumping sociale, ma non risulta che l’argomento sia mai stato posto con decisione all’ordine del giorno dei vari organismi internazionali (da ultimo il G20) con le argomentazioni che stiamo esponendo. Si ha cioè il sospetto che se da un lato ci si lamenta di questa situazione per cercare di spiegare i fallimenti di diverse politiche economiche, dall’altro questa stessa situazione sembra faccia comodo a governi e operatori economici per giustificare la compressione dei redditi da lavoro all’interno dei propri paesi. La Cina diventa allora una sorta di comodo benchmark al ribasso cui tutti i paesi, soprattutto quelli che arrancano, fanno riferimento nel distribuire la torta del prodotto nazionale tra le diverse componenti sociali, non rendendosi conto che in questo modo non fanno altro che aggravare la loro situazione.
7) Nei paesi sviluppati si assiste a questo circolo vizioso che è necessario spezzare quanto prima: il riferimento alla concorrenza cinese induce a una restrizione salariale, questa ha come conseguenza una dilatazione della spesa pubblica onde evitare che la contrazione dei redditi si trasformi in una indigenza generalizzata, contemporaneamente però le categorie imprenditoriali e i cosiddetti mercati pretendono l’equilibrio dei bilanci pubblici e la riduzione della pressione fiscale. E’ evidente la contraddizione presente in questa situazione. Oltre tutto gli effetti recessivi insiti in queste politiche riducono tendenzialmente le entrate tributarie portando il tutto a un parossismo estremo.
8) Occorre porre rimedio alle cosiddette international imbalances. Uno sviluppo armonioso e duraturo dell’economia mondiale richiede che i deficit e i surplus nelle bilance commerciali dei singoli paesi si alternino. Non è sostenibile per lunghissimi periodi, situazioni di surplus strutturali da parte sempre degli stessi paesi e situazioni di deficit strutturali da parte di altri paesi. Non a caso Keynes suggeriva che in queste contingenze si imponessero provvedimenti riequilibratori non solo ai paesi in deficit ma anche a quelli in surplus. Il suggerimento trovò solo una blanda attuazione nello statuto del Fmi ma mai un’applicazione convinta. Allora il problema non è solo quello della Cina che anziché dare da mangiare ai propri affamati accumula dollari per poter svolgere un ruolo da protagonista nella finanza mondiale, ma anche quello della Germania, dove sì gli operai guadagnano molto di più di quanto guadagnano i loro colleghi di altri paesi come l’Italia, ma il loro differenziale in termini di salario è di gran lunga inferiore a quello esistente in termini di produttività.
9) L’altro provvedimento da adottare a livello internazionale è allora quello di imporre a Cina, Germania e tutte le nazioni fortemente esportatrici, di adottare provvedimenti che aumentino la loro domanda interna, in modo da conseguire un incremento della domanda mondiale e consentire un certo sfogo anche alle esportazioni di altri paesi. Ma a queste misure si oppongono le nazioni interessate, le quali utilizzano i loro surplus per conseguire politiche di potenza, e forse si oppongono gli stessi Stati Uniti in quanto è l’unico paese al mondo che ha il privilegio di acquisire merci dando in cambio dei pezzi di carta su cui c’è scritto “dollaro”. Torniamo così al problema del ruolo del dollaro, la cui funzione di moneta di regolamento internazionale e di riserva mondiale comincia a presentare problemi seri per la dilatazione delle proprie dimensioni. Nessuno può dire oggi a cosa potrà condurre questa situazione, ne è consapevole il principale detentore di dollari, la Cina, che proprio dopo la crisi ha invocato l’attuazione dell’altra idea che Keynes espose a Bretton Woods, la creazione di una moneta virtuale per i regolamenti internazionali (da lui chiamata bancor), il cui valore deve essere la media delle valute delle principali economie mondiali. Sia consentita a questo punto una considerazione “dietrologica”, e cioè che gli attacchi all’euro sono cominciati proprio quando la Cina accompagnò questa sua proposta con una politica di diversificazione delle riserve valutarie comprando euro e vendendo dollari, quasi che si volesse dimostrare, con quegli attacchi, l’inaffidabilità della moneta europea. Risulta allora assurda anche l’idea, che quasi ogni paese coltiva, di risolvere i propri problemi di crescita attraverso le esportazioni, come si sogna in Italia, innescando così una corsa al ribasso nei salari per “battere la concorrenza cinese” che non fa altro che comprimere ancora di più la domanda interna. Finché non commerceremo con altri pianeti sarà difficile che tutti possano vivere di esportazioni; oltre tutto la compressione dei salari è diventato un problema globale e quindi il deficit di domanda è globale. Questa è una crisi da cui o si esce tutti insieme o tutti insieme si capitola.
10) Il ritenere la cattiva distribuzione dei redditi la causa vera della crisi non deve ovviamente esimerci di chiedere una riforma sostanziale del mercato finanziario globale. Il varo dei criteri della cosiddetta Basilea 3, costituiscono già un passo importante per i maggiori vincoli che impongono alle banche all’espansione delle loro attività quando non si provveda anche a un conseguente aumento del patrimonio (diminuzione della leva) e, soprattutto, si comincia a prendere atto del peso dei cosiddetti prodotti over the counter (cartolarizzazioni e derivati) nella ponderazione dei rischi complessivi di una banca; ma purtroppo la loro completa entrata in vigore coprirà tutto l’attuale decennio, con il rischio di successivi annacquamenti una volta che la paura fosse passata. Ma le attese più grandi riguardano il Financial Stability Board, un organismo internazionale guidato dal nostro Draghi, da cui dovrebbero arrivare le proposte più efficaci. Esse dovrebbero riguardare, oltre che il recepimento di Basilea 3, anche la regolamentazione di quelle strutture sopranazionali, extra bancarie, che negli anni precedenti la crisi sono sfuggite alla vigilanza prudenziale delle banche centrali e che invece devono essere ricondotte sotto un controllo sistematico. Ma si dovrebbe anche stabilire che il controllo della vigilanza debba essere obbligatorio e vincolante non solo per l’intermediario, ma anche per gli stessi istituti centrali, onde evitare il rischio, già verificatosi negli anni della presidenza Greenspan, di “sviste” e “superficialità” molto probabilmente coscienti, dato la fiducia che alcuni avevano nelle doti autoregolanti del mercato. Deve infine essere intrapresa una guerra convinta e tenace a tutti i paradisi fiscali e agli “stati canaglia” dal punto di vista finanziario.
11) Prima di concludere su questa prima parte vorremo indicare un altro di quei luoghi comuni che vanno a completare la “comoda menzogna”, quello che recita “la finanza ha preso il sopravvento sulla politica e sugli stati”. Questa frase è diventata letteralmente stucchevole, soprattutto quando la si sente pronunciata da certe bocche, non perché non sia vera ma perché sottintende una sorta di fato, di provvedimento degli dei che gli umani hanno dovuto subire. La finanza ha tutto quel potere perché la politica e gli stati, con le loro legislazioni, hanno deliberatamente voluto conferirgli. Non ci vuol niente per far rientrare nei ranghi la finanza, basta introdurre vincoli forti all’espletazione di certe attività, o pervasive normative fiscali.
B) Il caso italiano
1) L’Italia è il paese che è cresciuto meno nel mondo. Nel primo decennio degli anni duemila su 180 paesi presi in considerazione l’Italia è al 179° posto, seguita solo da Haiti. Simili performance si possono spiegare solo se si ammette che i limiti allo sviluppo sono di tipo strutturale, che è l’intero sistema paese ad avere un produttività molto bassa. Il governo Prodi del ’96 aveva avviato riforme di struttura molto serie, prima fra tutte l’adesione all’euro, ma poi la parte incosciente della politica italiana gli ha impedito di continuare. Noi riteniamo che al punto in cui siamo giunti, le prime due emergenze di tipo strutturale che il nostro paese si trova di fronte, e che bisogna aggredire con energia subito, siano il livello di corruzione e l’entità del debito pubblico. Si tratta molto probabilmente di due facce della stessa medaglia che si alimentano reciprocamente, esse costituiscono i freni più resistenti allo sviluppo del nostro paese.
2) Le entrate complessive della pubblica amministrazione ammontano all’incirca a 660 miliardi di euro, così suddivise (cifre arrotondate):
• - imposte dirette 230 mld.
• - imposte indirette 220 mld.
• - oneri sociali 210 mld.
Se pensiamo che gli oneri sociali hanno una loro compensazione e destinazione obbligata nelle prestazioni pensionistiche, sono le altre due voci che finanziano le prestazioni della pubblica amministrazione (istruzione e ricerca, sanità, provvedimenti per lo sviluppo, difesa e ordine pubblico, esercizio della giustizia, ecc.). Il costo annuale per gli interessi sul debito pubblico ammonta ormai a quasi 80 mld. di euro, l’entità della corruzione è stata calcolata dalla Corte dei Conti in altrettanti 80 mld. di euro; assumendo che l’entità della corruzione si trasforma in uguale costo per la pubblica amministrazione, in totale vi sono 160 mld. di euro che escono dalle casse dello stato senza che si producano servizi e prestazioni a favore dei cittadini. Il 70% circa, più dei due terzi, delle imposte dirette (cioè quelle di cui le persone avvertono materialmente il pagamento) non tornano indietro al cittadino attraverso servizi della pubblica amministrazione. La sensazione diffusa che gli italiani hanno di ottenere dallo stato meno di quanto danno è una sensazione giusta e deriva dal servaggio della corruzione e del debito pubblico. Il giorno che i cittadini si renderanno conto di questo forse potrà cominciare una nuova fase nello sviluppo del nostro paese.
3) L’Italia, dobbiamo avere il coraggio di dirlo apertamente, è un paese corrotto. L’organizzazione Transparency International pubblica ogni anno l’Indice di Percezione della Corruzione, l’ultima graduatoria disponibile è quella del 2010 e l’Italia figurava al 67° posto: un paese del G7 che come corruzione compare al 67° posto, una cosa desolante. Meno corrotti di noi vengono ritenuti numerosi paesi appartenenti al cosiddetto Terzo Mondo. Nell’Ue sono ritenuti più corrotti di noi solo la Romania, la Bulgaria e la Grecia (che infatti è l’altro malato grave d’Europa). Ma oltre al posto in classifica, quello che impressiona è il voto medio che viene dato all’Italia: 3,9 (la sufficienza è 6). Se consideriamo i paesi europei che più sono a noi paragonabili come posizione internazionale e livello economico, notiamo che la Germania (15°) ha un voto di 7,9, Regno Unito (20°) ha un voto di 7,6, la Francia (25°) ha un voto di 6,8, la Spagna (30°) ha un voto di 6,1. Come si vede hanno tutti la sufficienza piena, e con tali voti diventa perfino secondario il posto in classifica. Quando si dice che gli investitori non vengono in Italia a causa dell’alto costo del lavoro e l’alto livello della tassazione, si mente e, molte volte, sapendo di mentire: in Italia non si viene perché si ha il terrore di essere taglieggiati. La corruzione diffusa, come si registra in Italia, altera la concorrenza non a favore delle imprese più efficienti ma di quelle dalla tangente facile, seleziona una classe politica e, più in generale dirigente, molto scadente, avvelena il processo democratico. La corruzione insomma è il cancro della democrazia, economica e politica. Essendo queste le prime “emergenze strutturali” discendono abbastanza automaticamente le proposte da fare.
4) Introdurre una legislazione molto severa sulla corruzione, sia politica che amministrativa. Il governo italiano non ha ancora ratificato la Convenzione Penale sulla Corruzione del Consiglio d’Europa, segno evidente di scarsa sensibilità al problema anzi, peggio, di connivenza con i corrotti e corruttori. Estendere poi il modello Sicilia attuato dalla Confindustria contro gli imprenditori collusi con la mafia, ai casi di corruzione: le imprese coinvolte in casi di corruzione e concussione devono essere espulse dalle organizzazioni di categoria. Infine lasciare che la magistratura possa agire indisturbata a combattere l’illegalità senza frapporre ostacoli e provvedimenti legislativi speciosi.
5) Introdurre un’imposta patrimoniale per un’entità e una durata (limitata) tali che, unita alla ripresa della crescita, porti nel giro di qualche anno a un rapporto debito/Pil intorno all’80-90%. Nella legge che la introdurrà dovrà anche essere stabilito che le risorse rivenienti da detta imposta straordinaria non potranno essere utilizzate come copertura di alcuna legge di spesa ai sensi dell’art. 81, ultimo comma, della Costituzione. Contemporaneamente occorre reintrodurre anche nel sistema fiscale italiano elementi di maggiore progressività, onde reperire risorse per ridurre il carico fiscale sui meno abbienti e sulle imprese che investono e fanno ricerca.
6) E’ nostra convinzione che la corruzione sia alla base anche dell’altro flagello italiano: l’evasione fiscale. La stima delle risorse sottratte alla collettività attraverso questa via è giunta alla stratosferica somma di 120 mld. di euro. Ma su questo terreno possono essere adottati anche strumenti più specifici reintroducendo per esempio la tracciabilità dei pagamenti per somme superiori ai cento euro, come fu previsto dall’ex ministro Visco e subito abolita dalla coppia Berlusconi – Tremonti.
7) Fondamentale e improcrastinabile per un recupero dell’efficienza generale del sistema Italia risulta essere la riforma dell’intera macchina dello stato intesa non solo come burocrazia pubblica, ma anche come ordinamento politico – amministrativo – giudiziario. E questo non attraverso proposte – fuffa come la modifica dell’art. 41 della Costituzione, tipica di una mente come quella di Tremonti, bensì attraverso un esame serio dei vincoli (“lacci e lacciuoli”) posti dalla pubblica amministrazione a ogni attività di impresa e non, al fine di verificare quelli fondati e quelli superflui o, peggio, introdotti solo per avere un mezzo in più per taglieggiare. In questa ottica, e non solo per i risparmi immediati che consentirebbero, va vista l’abolizione delle province, la riduzione dei parlamentari, attraverso l’eliminazione del bicameralismo, e lo sfoltimento di tutto quello che ormai viene chiamato la “casta”. Il loro ridimensionamento consentirebbe la realizzazione di uno stato più razionale e, quindi, un processo decisionale più veloce ed efficiente, indispensabile al funzionamento di un sistema economico che vuol competere nel mondo globalizzato.
8) Una riforma delle giustizia appare urgente, ma non per legare le mani ai giudici e consentire ai delinquenti, corrotti e corruttori di farla franca, ma per rendere questo ramo importante dello stato in linea con le esigenze di un paese civile ed economicamente avanzato. Non è possibile che un creditore impieghi anni e anni, se non decenni, per incassare il suo credito (se mai lo incasserà), che un imprenditore aspetti lo stesso tempo per ottenere che la controparte inadempiente venga indotta ad adempiere alle sue obbligazioni. Ecco un altro aspetto che frena gli investimenti esteri in Italia.
9) Più in generale vi deve essere un maggior rispetto delle “regole” tipiche di un capitalismo maturo. Non è possibile che a capo di importanti istituzioni finanziarie possano restare persone inquisite e condannate, sia pure non ancora in forma definitiva, per reati gravi proprio di tipo finanziario. Occorre ripristinare in tutta la sua gravità il reato di falso in bilancio. Occorre riconoscere una reale indipendenza alle cosiddette Authority, e toglierle dall’attuale dipendenza dal potere politico, sin dal momento della nomina dei vertici di queste istituzioni. In generale la politica deve ritirarsi da certi condizionamenti non pertinenti che sistematicamente attua nell’economia italiana in modo non trasparente, al fine di lucrare e far lucrare rendite di posizione. Lo stesso sistema finanziario deve essere reso più efficiente in modo che accompagni il nostro sistema imprenditoriale verso una sua maggiore concentrazione, visto che uno dei mali del “sistema Italia” è proprio il nanismo industriale. Allo stesso tempo esso deve impedire che si perpetrino ancora quelle vere e proprie truffe che molte volte gli azionisti di maggioranza infliggono a quelli di minoranza. E’ necessario regolamentare una volta per tutte il conflitto di interessi onde evitare il rischio che si verifichi in futuro un nuovo “caso Berlusconi” e tanti altri piccoli e grandi conflitti di interesse.
10) In particolare, per restare al sistema finanziario, reintrodurre la distinzione tra “banche di deposito e commerciali” da un lato e “banche di investimento e di credito speciale” dall’altro, al fine di evitare quelle concentrazioni di rischio e quei rischi di liquidità che si sono avvertiti in questa crisi. Tra l’altro questa dovrebbe essere una riflessione che dovrebbe riguardare tutto il mondo.
11) Bisogna mettere mano anche al sistema del welfare, ma non per ridurre le prestazioni a favore dei cittadini, e soprattutto delle categorie più bisognose, bensì per razionalizzare il funzionamento, eliminare gli sprechi e combattere la corruzione (anche qui è rilevante). Riteniamo valido il principio dei “costi standard” da utilizzare per la determinazione dei trasferimenti dallo stato alle regioni, che pertanto andrebbe introdotto subito. Ma la riforma più importante e incisiva da fare in questo settore è di cacciare la politica dalla gestione della sanità, diventata in questi anni la vera mucca da mungere. In merito alle pensioni, più che abolire drasticamente quelle di anzianità appare più equo e percorribile l’estensione immediata del sistema contributivo erga omnes.
12) Anche le cosiddette “liberalizzazioni” vanno senz’altro attuate, sia nel campo produttivo (energia), che dei servizi (televisione, servizi locali), che delle professioni, dove vanno abolite anacronistiche “tariffe minime”.
13) Veniamo ora alla questione del cosiddetto “mercato del lavoro”. Sembra che l’unico modo per dare flessibilità e slancio al nostro sistema economico sia quello di dare libertà di licenziamento alle imprese sopra i 15 dipendenti. Niente di più falso, e lo hanno ammesso pubblicamente importanti imprenditori. Da quando la precarizzazione del nostro mercato del lavoro si è prepotentemente insinuata nel nostro sistema economico, l’Italia ha subìto un crollo della produttività. Trattasi di un fenomeno noto da sempre agli economisti che non hanno i paraocchi dell’ideologia. Un costo del lavoro eccessivamente alto comprime i profitti e toglie l’incentivo a fare impresa, ma un costo del lavoro eccessivamente svilito, oltre a diminuire la domanda per consumi, toglie l’incentivo all’innovazione e all’automazione. C’è da chiedersi perché un’impresa dovrebbe investire in tecnologia e innovazione di processo se ha la possibilità di comprare, al posto di un impianto all’avanguardia, un esercito di giovanotti a 800 (quando si arriva a questa cifra) euro al mese? Oltre tutto i giovanotti si mandano a casa quando si dovesse scoprire che le cose non vanno poi così bene, il macchinario invece lo si deve pagare comunque. Ma con questi ragionamenti l’Italia si sta divorando il suo futuro. E’ stato calcolato (Ricci, Damiani e Pompei su www.lavoce.info) che l’Italia è stato il paese che ha avuto la maggiore variazione in aumento dei contratti a tempo determinato nel periodo 1995-2007 (7% all’anno) e, nello stesso periodo, è quello che ha avuto le performance peggiori in termini di produttività dei fattori: fatta 100 la produttività del 1995, nel 2007 è scesa (dicesi scesa) a 96, mentre quella del Regno Unito saliva a 105, quella della Francia a 107,5 e quella ella Germania a 108,5. Quando i nostri politici e alcuni industriali e top manager nostrani continuano a indicarci la Cina come nostro benchmark, non fanno altro che aggravare questa situazione e condannare il paese alla marginalità. Allora come prima proposta che si può avanzare è quella, almeno, di far riconoscere un prezzo alla flessibilità estrema. Si ammetta pure che certe imprese abbisognino di contratti di lavoro a due o tre mesi e poi via: bene, ma allora si paghi questi lavoratori non meno degli altri con posto fisso, ma di più, molto di più, per esempio il 50%. L’assicurare contemporaneamente la flessibilità massima e il costo più basso è un’aberrazione gravissima che altera in modo sostanziale il processo delle scelte che si compiono quotidianamente in un sistema economico, in quanto si dà ad alcune imprese un beneficio competitivo (la flessibilità) gratis, anzi con un costo negativo. A quel punto il sistema diventa tutt’altro che efficiente. Andrebbero poi considerati tutti gli altri effetti secondari, anch’essi importanti nel minare la tenuta di lungo termine e l’efficienza di un sistema, come l’impossibilità per un giovane di programmare un futuro (vedasi il crollo della natalità a 1,4 figli per donna fertile quando dovrebbe essere almeno 2,1 solo per mantenere la stabilità della popolazione), il non attaccamento all’azienda in cui si lavora, l’assunzione sempre più di un atteggiamento distaccato e non collaborativo, e via discorrendo.
14) Se poi, accanto a questo processo degenerativo, mettiamo anche il crollo degli investimenti in ricerca e nell’istruzione, si può comprendere come il cosiddetto declino italiano non è un’ipotesi dei soliti pessimisti, ma una possibilità concreta se non si interviene prontamente, sia attraverso incentivi a favore delle imprese che investono in ricerca, sia estrapolando sempre dai tagli di spesa il settore dell’istruzione e della ricerca. Ma si torna così ai punti iniziali di questa seconda parte: abbattere drasticamente la corruzione e il debito per liberare risorse per la crescita.
15) Per ultimo indichiamo l’Europa e l’euro come i due fari che devono guidare quotidianamente l’azione dei nostri governanti. Il nostro paese deve tornare a essere protagonista della costruzione europea. Lo deve sia per onorare la storia, la quale ci vede tra i fondatori dell’Unione Europea, sia per scongiurare definitivamente quel rischio, che ogni tanto riemerge, di una deriva populistica e regressiva. In particolare per quanto riguarda la moneta unica, si dovrà anche essere disponibili a cedere altre quote di sovranità nel campo fiscale, pur di giungere a una vera moneta europea in tutti i sensi.
{ Pubblicato il: 20.11.2011 }