francesco molica
Nessun commentoGli affanni economici che attanagliano l’Unione europea, monopolizzando l’attenzione di governi e istituzioni comunitarie, si sono incaricati di oscurare una volta di più l’annoso nodo della cooperazione militare tra gli stati membri. A tredici anni di distanza dallo storico summit di Saint-Malo’, che ne gettava non senza fanfara le fondamenta attuative, la difesa unica europea resta al tempo presente prigioniera di una formidabile impasse, ad onta della trafila di iniziative minori abborracciate in questi anni sotto i suoi auspici. Le circostanze per contro invocano con sempre più insistenza la necessità di dare piena attuazione all’ex “secondo pilastro”, con l’ingresso della Nato in un crepuscolo d’identità – tradotto in tagli alle risorse e coevi sintomi di un graduale disimpegno statunitense – dal quale non potrebbe più riaversi, e le due colonne dell’hard power continentale (Francia e Regno Unito) costrette a sacrificare anche il totem della spesa bellica sul pulpito dell’austerity. Mentre dall’Asia all’America Latina, l’accrescimento degli arsenali bellici è perseguito a tamburo battente dalle economie emergenti, non fosse per insidiare l’ultimo puntello su cui poggia la supremazia mondiale degli Stati Uniti. Il che conferisce alla vertenza un carattere vieppiù “urgente”, per parafrasare il recente appello lanciato dalla direttrice dell’Agenzia per la difesa europea Claude-France Arnould.
Non insensibile a codesto richiamo, sulla scorta di legittime aspirazioni e preoccupazioni geopolitiche (rafforzamento del ruolo di potenza regionale da un lato, contenimento della Russia dall’altro), la Polonia lo ha inscritto tra le priorità del proprio turno di presidenza Ue venuto a scadenza a fine 2011. Promuovendo apertamente il “rafforzamento delle capacità militari comunitarie” e il “sostegno ad azioni volte a consolidare il dialogo tra Nato e istituzioni europee” per “incrementare la posizione dell’Europa sullo scacchiere internazionale”. Si trattava di riprendere le fila del disegno strategico già tratteggiato da Nicolas Sarkozy tra le pieghe dell’ultimo Semestre a guida francese: nella lunga lista di desiderata messa a punto dal capo di stato transalpino nel 2008 figuravano, ad esempio, la creazione di un gruppo navale congiunto e di una flotta area comune.
Allora come oggi tali propositi sono tuttavia scivolati nell’oblio, esautorati da altre impellenze. Decollata nell’intendimento di guidare la definitiva emancipazione dei nuovi membri del club comunitario, Varsavia ha dovuto presto detto rassegnarsi a un ruolo gregario, peggio cosmetico di fronte ai febbrili negoziati per salvare l’euro, per altro penalizzata dal non sedere nemmeno nel novero dei paesi aderenti alla divisa unica.
Cosicché il dossier della cooperazione militare è stato una volta ancora riposto nel cassetto, rimandato a giorni migliori. Polverizzazione del comparto difensivo europeo e insufficienza dei bilanci nazionali ad esso dedicati continuano a costituire le sue principali criticità. Solo tre stati membri su ventisette possono vantare un target di spesa pari o superiore a quel 2% del PIL raccomandato dalla NATO. Ove a conti fatti tutti i paesi Ue hanno in anni recenti dovuto ridurre di almeno il 5% le risorse iniettate annualmente nei propri budget militari. D’altro canto, la Francia e ancor di più il Regno Unito penano ad accettare l’idea che i rispettivi armamenti possano essere un giorno messi a diposizione di decisioni collegiali assunte in sede di Consiglio sotto l’ombrello di una politica bellica comune.
A questo, va detto, si somma il profilarsi di un’ulteriore difficoltà: lo scettro di arbitro supremo dei destini comunitari che, forse suo malgrado, s’è trovata a reggere la Germania. Tanto Berlino dà il ritmo alla riscrittura delle regole fiscali ed economiche dell’euro, quanto potrebbe essere chiamata a rivestire un ruolo decisivo al cospetto di un eventuale scatto in avanti verso una compiuta “comunitarizzazione” delle risorse belliche europee. E questo non è necessariamente un bene. Anzitutto perché la Germania, per ovvie ragioni storiche, esprime una visione ancora acerba della propria proiezione di potenza all’estero. Lo comprova la scrollata di spalle sull’impegno in Libia. In parallelo l’opinione pubblica d’oltrereno intrattiene un rapporto quasi idiosincratico con l’opzione bellica. E’ il sintomo che la leva della Schuldfrage , il senso di colpa per gli orrori del nazismo, opera ancora a tutto tondo nell’inconscio e politico e popolare. Ma qui è un caratteristico paradosso che viene a prendere corpo: perché nello sguardo dei suoi promotori più pragmatici la CECA, e poi la CEE nacquero anche con l’obiettivo dichiarato di neutralizzare ogni futura ambizione militare della Germania.
Le aspirazioni polacche, per la verità, non si sono del tutto disintegrate sugli scogli dell’eurocrisi. Uno spiraglio s’è aperto il 30 novembre scorso, allorquando i ministri della difesa europei hanno dato disco verde al varo di undici progetti di cooperazione in vari campi, quali ad esempio il rifornimento aereo in volo oppure la formazione dei piloti. Ancorché significative, siffatte misure difficilmente scagionano quel misto di colpevole disinteresse e miopia strategica che tiene i paesi membri ben lungi dall’assumere delle vere e proprie azioni dirimenti.
Vedasi a titolo esemplificativo la débacle cui vanno incontro due delle iniziative congiunte sponsorizzate da Bruxelles. Nello sconfinato specchio di mare sul quale si sporge il Corno d’Africa la missione Ue di contrasto ai pirati ribattezzata Atlanta opera a ranghi dimezzati, ipso facto incapace di centrare risultati degni di nota. Identica musica per le forze di polizia europee dispiegate in Kosovo: secondo fonti diplomatiche difetterebbero di quasi il 50% del personale promesso sulla carta.
Fuori dal disastroso mandato comunitario, la crisi delle prospettive militari europeo assume contorni ancor più inquietanti. La recente guerra in Libia a guida anglo-francese, seppure avvolta nel vessillo della NATO, ne ha offerto una plastica dimostrazione. Come ha segnalato senza peli sulla lingua il segretario americano alla difesa Robert Gates a operazioni iniziate: “l’alleanza più potente della storia (la Nato) è impegnata da appena undici settimane in un’azione contro un regime militarmente debole in una nazione scarsamente popolata. Eppure molti alleati sono già quasi a corto di munizioni, obbligando una volta ancora gli Stati Uniti a intervenire per colmare questa lacuna”. Ogni riferimento all’Europa era voluto.
Rebus sic stantibus, l’unica via ormai percorribile è la costituzione di una forza unica comunitaria. Con il triplice e vitale obiettivo di razionalizzare la dotazione militare degli stati, svecchiarla e convertirla alle sfide della modernità. Analisi dettagliate ne svelano infatti profonde carenze: con 1,61 milioni di soldati all’attivo l’Ue è nella capacità di impiegarne appena 50 mila per operazioni di media o alta intensità.
Alcuni passi importanti almeno sul piano della cooperazione bilaterale sono stati invero già compiuti, su tutti l’accordo franco-tedesco siglato a Lancaster nel novembre 2010. Ma bisogna andare oltre, dimenticare gli egoismi nazionali, e infrangere uno degli ultimi tabu’ sulla via del federalismo. Fino a poco tempo fa, per compensare il suo deficit di prospettive militari, l’Ue poteva almeno fare affidamento sul robusto soft power derivatogli dall’ammirazione internazionale per il modello di “capitalismo sociale” di cui è portatrice e il mantenimento di una vasta rete di rapporti post-coloniali. Ma anche quel “potere di attrazione”, da molti decantato, appare oggi alle corde. Per impedire “l’emergere di un mondo post-europeo” è necessario erigere la politica di difesa comune a priorità assoluta, senza derogare a quel paradigma kantiano che fa da fondamento al cantiere comunitario, ma ben consapevoli che in un quadro internazionale in rapida evoluzione il deterrente militare resta tutt’altro che obsoleto.{ Pubblicato il: 03.01.2012 }