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Considerazioni sulla transizione italiana: il governo Monti non è da vedere come un male necessario, ma semplicemente come la massima discontinuità oggi possibile.
La fine di un’era.
Lo sfratto.
Ripensando all’anno appena terminato, la prima osservazione che vien da fare, è che non si può non tirare un sospiro di sollievo al pensiero che il cav. Berlusconi ed i suoi cortigiani siano stati sfrattati da Palazzo Chigi e dalle sedi dei diversi ministeri. E’ ben vero che il principale interessato non ammetterà mai che di sfratto si sia trattato: nessun voto di sfiducia (che comunque sarebbe puntualmente arrivato nel caso in cui non si fosse persuaso ad accettare la resa condizionata delle autonome dimissioni) ha sanzionato la fine del peggior governo della storia repubblicana. Il che ha consentito al grande prestigiatore di tentare di far passare per un atto autonomo di responsabilità, compiuto nel superiore interesse del Paese, quanto invece gli è stato imposto dal venir meno della sua maggioranza e dalla concorde valutazione dell’opinione pubblica italiana ed europea, dei governi europei, e del Presidente della Repubblica. In una situazione quale quella italiana, dove tutto può venir impunemente distorto, l’aver concesso al cavaliere una resa condizionata è stato un rischio. Forse un rischio necessario, in un frangente nel quale anche le ore contavano, e non ci si poteva permettere di attendere quella che in condizioni meno anomale sarebbe dovuta essere la canonica conclusione della vicenda: un voto di sfiducia che restituisse dignità e decoro al Parlamento ed al Paese.
Dobbiamo allora accontentarci del fatto che questo governo sia stato, comunque, spazzato via. E dobbiamo stima al Presidente della Repubblica per aver trovato soluzione ad una crisi che non aveva precedenti nella storia dell’Italia Repubblicana, recitando in termini non formali il ruolo di supremo garante dell’unità del Paese e del rispetto dei concetti stabiliti dai principii fondamentali e dalla parte prima della Costituzione, che altrimenti si rischiava di veder stravolti.
Gli italiani sanno perfettamente che la tesi dell’autonomo gesto di responsabilità non ha alcun fondamento, che già da molti mesi la maggioranza era venuta meno in termini politici, che la sua capacità di azione era arrivata alla paralisi e che, in quanto ai numeri, il governo aveva vivacchiato per circa un anno grazie alla più spudorata compra-vendita di voti parlamentari che mai si sia vista in una democrazia occidentale. Da ultimo, neanche gli Scilipoti e neanche il mercato dell’irresponsabilità sono risultati più sufficienti a tenere in piedi la baracca, mentre il Paese reclamava provvedimenti adeguati e l’Europa, la BCE, i mercati, si rifiutavano di dar più alcun credito a quel governo.
L’età berlusconiana.
La crisi del governo Berlusconi non può esser vista come la crisi di stanchezza di una maggioranza che, arrivata verso la fine di una legislatura, fatica a stare insieme; né può esser letta unicamente in termini di logoramento del leader: tutto ciò ha avuto senz’altro il suo peso, ma in termini marginali rispetto all’evidenza della bancarotta politica ed economica di quel berlusconismo che è stato il connotato politico della seconda Repubblica. Quasi vent’anni della nostra storia sono stati infatti caratterizzati costantemente dall’egemonia di una destra che si era identificata in Berlusconi; ed anche nei periodi in cui questa è stata all’opposizione, il dibattito pubblico è stato pesantemente condizionato dalle posizioni, dalle esternazioni, dalle spallate, dagli interessi del cavaliere. I singoli caratteri di questa destra, o meglio, di queste destre, preesistevano alla figura di Berlusconi, che ha saputo cementarle usando il populismo comunicativo, il provincialismo ed il conformismo culturale, i particolarismi e gli egoismi corporativi, il revanchismo nei confronti della sinistra, la tendenza alla banalizzazione concettuale, il mito del capo, collegandone i diversi tratti e soprattutto i diversi interessi, alcuni dei quali si sono poi rivelati, all’emergere delle difficoltà, mal conciliabili tra loro.
Da qui si è prodotta la mistura velenosa del berlusconismo: un sistema di governo che si fondava su promesse palesemente impossibili, sull’indifferenza sociale ed umanitaria, sul considerare il diritto ed i diritti come subordinati alle convenienze, sul disprezzo del significato e dei metodi della democrazia, sul premiare la furbizia e la forza precostituita rispetto al merito ed al lavoro, sul trascurare le condizioni reali della società e dell’economia italiana per preoccuparsi invece di proteggere quei particolarismi che costituivano il proprio riferimento sociale e la propria base di consenso.
L’aver indebolito il legame che ci univa ad un’Europa che, pur faticando a definire una propria costruzione politica, tendeva a rifuggire dal populismo e rappresentava comunque un fattore di modernizzazione e deprovincializzazione, nonché un termine di confronto in termini di libertà, democrazia, giustizia, è stato ad un tempo conseguenza e condizione necessaria dell’affermarsi in Italia dei caratteri del berlusconismo. La cui politica estera si esprimeva in termini di autorappresentazione personale del cavaliere, trovando non a caso più congegnali il conservatorismo dei repubblicani di Bush, la cleptocrazia postsovietica, la dittatura di Gheddafi, con le conseguenze che sappiamo.
Imbavagliare (con la complicità di quasi tutta l’opposizione, e del PD in particolare) la politica in un finto bipolarismo a tratti tendente al bipartitismo, varare leggi elettorali dettate unicamente dalla propria convenienza, svilire il ruolo del Parlamento, portare a l’aver portato a canone il concetto del partito-persona nel quale i congressi non si fanno o, se si fanno, sono inutili formalità, sono stati anch’essi al tempo stesso strumenti e conseguenze dello sviluppo di questo sistema di governo. Alla fine, il sistema è crollato, essenzialmente per le conseguenze economiche e sociali da esso prodotte o amplificate per quella parte, non irrilevante, le cui cause preesistevano. Conseguenze che per anni si era cercato di occultare e nascondere agli italiani, ma che l’esplodere della crisi ha reso evidenti e non più sostenibili.
La crisi italiana non è di oggi.
Spesa, immobilismo, sperequazioni, mancata crescita.
Occorre, a questo punto, ricordare gli antefatti del determinarsi dell’attuale situazione.
Il più delle attuali nostre difficoltà, per usare un eufemismo, preesiste, e non di poco, alla crisi finanziaria originatasi nel 2007 ed esplosa nel 2008. Nel corso degli anni ’90 e del primo decennio del 2000 avevamo conseguito una crescita molto bassa del nostro PIL (e comunque sempre inferiore a quella degli altri Paesi industriali); in aggiunta, la forbice della distribuzione della ricchezza si era notevolmente aperta, con un tasso di mobilità sociale che risultava il più basso nel novero dei Paesi industriali. Dal 1992 (ultimo governo Andreotti), il nostro debito pubblico è stato sempre al di sopra del 100% del PIL, con due massimi, di quasi il 122% nel 1994-95 (primo governo Berlusconi), e di circa il 120% oggi. Negli anni della IIa Repubblica, la spesa pubblica è costantemente aumentata, con picchi sempre coincidenti con i periodi nei quali la destra è stata al governo (la fonte è insospettabile, ed è uno studio elaborato da Oscar Giannino), e fasi di rallentamento.della crescita (ma non di riduzione) in corrispondenza dei governi di centrosinistra.
In buona sostanza, per troppi anni l’Italia ha finanziato con il debito nuova spesa corrente, il più delle volte improduttiva, piuttosto che gli investimenti materiali ed immateriali sul futuro: infrastrutture, cultura, ricerca, istruzione; peraltro, senza neanche riuscire, nonostante il forte carico fiscale e contributivo sul lavoro e sulla produzione, a costruire un sistema di welfare moderno, efficiente ed esteso a tutti. Anzi, al fine di tentare di contenere in un modo o nell’altro il deficit senza affrontare seriamente la questione degli sprechi e della riqualificazione della spesa, gli investimenti pubblici sono stati compressi, nonostante le grandi opere ripetutamente annunciate, sino a culminare nella riduzione di circa il 40% avutasi negli ultimi tre anni e nella politica dei tagli lineari e non selettivi.
La combinazione di mancata crescita, immobilità sociale, ed aumento delle sperequazioni ha eroso in maniera più che significativa le condizioni di vita ed i consumi degli strati sociali a basso reddito e progressivamente, anche degli strati medi della piramide sociale. Era evidente che il perdurare di questi fenomeni finisse col determinare una grave crisi di stagnazione economica e sociale; e che il protrarsi ed il cumularsi degli effetti delle politiche di bilancio che per molti anni sono state seguite, con l’unica eccezione del periodo che ha preceduto ed immediatamente seguito l’entrata dell’Italia nel sistema-euro, alla fine diventassero non più sostenibili.
Euro, un’occasione perduta.
Il passaggio dalla lira all’euro, insieme a molte conseguenze positive ed alcune negative (in primis, tra quest’ultime, la forte riduzione del valore reale di salari, stipendi e redditi fissi, dovuto alla totale assenza di controllo dei prezzi nella fase di transizione), ha rappresentato per l’Italia un’occasione perduta ai fini della possibilità di destinare risorse significative al futuro e/o di proseguire il risanamento dei bilanci che era stato avviato sotto la regia di Amato e Ciampi.
L’economia e la produzione avevano beneficiato dell’eliminazione del rischio-cambio e della conseguente riduzione dei tassi seguita all’introduzione dell’euro; ma ancor più ne aveva beneficiato il principale debitore: lo Stato, per via di un servizio del debito pubblico meno oneroso. In una logica di rigore, avanzi primari anche modesti avrebbero consentito la progressiva riduzione del debito; oppure, in una logica espansiva, sarebbe stato possibile finanziare investimenti tali da promuovere fattori significativi di crescita. Invece, non si è seguita né l’una, né l’altra strada, ed il costo relativamente basso del debito è servito solo a rinviare quanto si andava preparando ed a poter continuare a sostenere che i nostri bilanci fossero sostanzialmente in ordine, omettendo di tener conto del progressivo peggioramento della qualità della spesa, della stagnazione del PIL, del debito che aveva invertito la lenta tendenza alla riduzione, dell’immobilismo, senza pari in Europa, della nostra società e della nostra economia.
In ogni caso, le fondamenta del sistema erano fragili già ben prima del 2008, e la cosa veniva segnalata da più parti, ad iniziare dalla Banca d’Italia e dalla Corte dei Conti.
La crisi internazionale ha colpito un’Italia già ferma.
Si sono così andati concatenando fenomeni quali la bassa crescita, l’iniquità fiscale, il costo e l’inefficienza delle Pubbliche Amministrazioni centrali e territoriali, il peso di corporazioni e monopoli sui prezzi di molti beni e servizi, l’aggravarsi della distribuzione della ricchezza dapprima ai danni dei ceti bassi e poi anche di quelli medi, l’inefficienza e la parzialità del welfare, la mancanza di prospettive per i giovani, la contrazione dei consumi e del risparmio delle famiglie, in una spirale che progressivamente tendeva ad aggravarsi, che precedeva la crisi finanziaria, e che questa non ha generato, ma solo reso drammaticamente più evidente.
Una volta iniziata la crisi e la conseguente recessione, se in altri Paesi è stato possibile utilizzare il disavanzo di bilancio (ed il conseguente aumento del debito pubblico, comunque sino a livelli notevolmente inferiori a quelli che l’Italia aveva già raggiunto prima della crisi) per pararne i colpi ed attutirne gli effetti, in Italia l’ammontare del debito non ha reso ciò possibile, e la crisi di questi ultimi anni ci ha colti impossibilitati a fronteggiarla con provvedimenti di spesa antirecessivi, pur in presenza di un sistema bancario e finanziario meno di tutti gli altri coinvolto in operazioni ad alto rischio. Si è così assistito al paradosso che il Paese meno di tutti esposto a rischi finanziari, e caratterizzato dalla finanza privata più in ordine (ma con quella pubblica più in disordine), si è trovato più di ogni altro a subire gli effetti recessivi sul piano economico.
In altre parole, il già sin troppo elevato livello del nostro debito pubblico rendeva impossibile ricorrere al deficit ed all’indebitamento in funzione anticiclica, anche ove si fosse voluto impropriamente considerare la crisi come un fenomeno congiunturale. Ed il fatto che la nostra economia fosse già da anni in ritardo sulle altre economie europee e sostanzialmente incapace di uno sviluppo endogeno, in assenza di una crescita generalizzata delle altre economie industriali che fosse elemento di traino della nostra, rendeva vana ogni prospettiva di alleggerimento del rapporto debito/PIL agendo sul denominatore di tale rapporto.
In sostanza, nel corso dei 17 anni dell’età berlusconiana, pur in presenza di diverse circostanze che, ben sfruttate, avrebbero giocato a nostro favore, non solo non sono stati ridotti, ma sono stati pesantemente aggravati i fattori di criticità del sistema-Italia: la spesa pubblica ha continuato a correre finanziata dal debito; le iniquità si sono accentuate; la società si è orientata al particolarismo territoriale e di ceto; sino ad arrivare alla palese insostenibilità della situazione.
La crisi degli “spread”.
L’avvio.
In un quadro di difficoltà dello scenario economico e finanziario mondiale che andavano trascinandosi con alti e bassi da ormai più di due anni, nel corso del 2010 diventavano palesi le difficoltà finanziarie dei Paesi più deboli dell’area-Euro, sino all’esplosione della crisi greca, dove diveniva esplicita l’impossibilità dello Stato ad onorare le proprie scadenze.
Nel corso del 2011 la questione greca era stata tardivamente e malamente affrontata da un’Europa che non riusciva ad uscire dal gioco degli interessi nazionali e dei relativi elettorati, rendendo in tal modo palese a tutti gli osservatori le rigidità e le fragilità intrinseche al sistema-euro. BCE, Francia, Germania, partendo dal presupposto non infondato che una crisi che avrebbe potuto coinvolgere tutti avesse per origine prevalente lo scompenso (ed in più l’infedele rappresentazione, nel caso greco) dei conti pubblici di alcuni Paesi, condizionavano aiuti e sostegno all’adozione di misure di austerity. Non che di queste non vi fosse bisogno, ma non era realistico ritenere che queste, da sole, in una fase già di per sé recessiva, potessero essere contemporaneamente sufficienti e sostenibili nel tempo.
Si sono create così le premesse perché i debiti di quei Paesi che, o a seguito dell’ammontare del debito pubblico, o della stagnazione delle economie e dei bassi tassi di crescita, o ancora degli eccessivi deficit dei bilanci pubblici, si presentavano più deboli ed aggredibili, divenissero l’oggetto di scommesse speculative realizzate mediante azioni selettive, condotte per cerchi concentrici. BCE, Francia, Germania, Poco interessa l’indagare sull’origine di tali azioni: il fatto è che queste sono state avviate, ed in maniera efficace, trovando rispondenza tanto nelle situazioni oggettive dei titoli e delle economie presi di mira, quanto nel poco che si faceva per arginarle sul nascere; anzi, le indecisioni ed una sorta di moralismo economico non producevano altro effetto che quello di buttare altra legna sul fuoco, quando un intervento, non incondizionato, ma più tempestivo e determinato, avrebbe potuto circoscrivere la malattia prima e con minor costo per tutti.
L’Italia ’anello debole della catena.
Tra i Paesi più direttamente esposti agli attacchi speculativi, si trovava e si trova, in prima linea, l’Italia, che già da tempo vedeva accumularsi e rafforzarsi la sinergia dei tre fattori negativi qui sopra indicati.
Pur non essendo il deficit pubblico italiano il più elevato dell’area-euro, i dati d’insieme della nostra economia e dei nostri bilanci pubblici hanno presentato, da decenni, e quasi strutturalmente, il carattere specifico di un eccesso di spesa (e quindi di formazione di debito), indirizzata a finanziare un malinteso ed iniquamente frammentato e ripartito consenso sociale più che a sviluppare investimenti.
Ne sono seguiti la grande rigidità di bilancio dovuta all’eccesso di spesa corrente improduttiva ed al peso del servizio del debito pubblico e, successivamente, i tentativi di contenimento del deficit realizzati attraverso la forte compressione degli investimenti pubblici e di tutte quelle spese che rappresentano un investimento sul futuro, portando alla virtuale impossibilità di finanziare politiche espansive e per lo sviluppo. Riguardo a queste, in aggiunta, occorre osservare come l’efficacia di una loro eventuale adozione fosse fortemente limitata dalla presenza di importanti fattori di rigidità e di freno del sistema economico e produttivo. Tra questi, una legislazione fiscale iniqua e punitiva nei confronti di lavoro e produzione, rigida verso chi non può sfuggirvi, ma tale da consentire larghe aree di elusione e di evasione; un mercato del lavoro diviso in un’area protetta ed iper-rigida ed in un’area senza alcuna protezione e senza regole; costi impropri a carico di famiglie ed imprese dovuti alle estese aree di privilegio corporativo o di rendita monopolistica; un apparato pubblico costoso, inefficiente, e spesso paralizzante.
Nel corso dell’era berlusconiana le criticità italiane si sono aggravate, aggiungendo agli elementi di tradizionale arretratezza, una visione culturale e politica che tendeva a generalizzarli ed a farli divenire sistemici. E la visione politica fondata sul particolarismo e sui conseguenti meccanismi di consenso populista che aveva impedito di affrontare l’ammodernamento del Paese e di aprire l’economia e la società -fatto che avrebbe messo in crisi il rapporto tra la destra ed estese aree del proprio radicamento sociale- perdurava anche quando questa aveva iniziato a rivelarsi insostenibile e si stava arrivando al capolinea.
Tra l’altro, la nostra situazione era resa ancor più critica dal fatto che la nostra finanza pubblica si regge sul ricorso al mercato per rifinanziare emissioni in scadenza e nuovo debito per circa 250-300 miliardi all’anno, dei quali circa metà collocati presso operatori esteri la cui fiducia aveva iniziato a venir meno.
Così, nell’impossibilità di affrontare seriamente le difficoltà di una situazione fortemente deteriorata, si tentava di sviare la questione negando le difficoltà o sminuendone gli effetti e, per un altro verso, cercando di differire nel tempo interventi che, a prescindere dal merito delle singole scelte, avrebbero avuto comunque costi sociali e di consenso.
Nel valutare quanto stava avvenendo, ci si limitava ad osservare che il sistema finanziario italiano era “fondamentalmente” sano o comunque meno intossicato di altri, che il patrimonio pubblico e privato era rilevantissimo, che la situazione era sotto controllo, che la crisi era già superata, che le voci in dissenso erano alimentate da una propaganda interna ed estera a carattere antinazionale e da strumentalizzazioni politiche. In un coro che univa la maggioranza di governo ed alcuni massimalisti di sinistra, si elaborava la teoria del complotto, tuonando con inutili recriminazioni contro la speculazione. E si tardava ad attuare qualsiasi intervento.
Intanto, l’aumento dei rendimenti del debito pubblico italiano, dovuto alla maggiore attenzione che, in via del tutto generale (basti a questo proposito osservare l’aumento del prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza, nel 2010-2011), i mercati avevano iniziato a porre nei confronti delle prospettive e della solvibilità a medio e lungo termine, ha portato all’esplosione di una spirale speculativa capace di autoalimentarsi, in quanto ogni incremento degli “spreads” dei nostri titoli pubblici veniva colto come ulteriore motivo di sfiducia, in ragione del maggior squilibrio che ciò avrebbe determinato sui nostri conti pubblici, determinando così l’ulteriore peggioramento della prospettiva.
La “questione italiana” diventava così di importanza centrale per le prospettive dell’euro, ed il problema Italia veniva visto come “il” problema dell’euro. I Paesi forti e la BCE temevano un tracollo della finanza pubblica italiana che avrebbe portato alla paralisi del Paese per l’impossibilità di rifinanziare le nostre emissioni in scadenza, finendo per coinvolgere tutte le economie europee ed il sistema-euro. Da qui l’insistenza con la quale i nostri partners e la BCE sollecitavano un riluttante governo italiano ad intervenire, ed alla svelta.
Il crollo di credibilità di un esecutivo che tergiversava per mesi, annunciando e ritirando provvedimenti dopo esser andato sbandierando l’annuncio della fine della crisi e la favola che l’Italia fosse “messa meglio” dei nostri partners europei, contro ogni evidenza ed all’unico scopo di evitare di assumere provvedimenti impopolari e tali da compromettere una maggioranza già inesistente sul piano politico, non è stato che l’ultimo tra i motivi dell’esplodere della crisi e, insieme a ciò, del gravissimo discredito che, nei rapporti con l’Europa e le sue istituzioni, ha circondato il governo del nostro Paese in questa vicenda.
Il governo Monti non è né un male necessario né il modello per il futuro, ma il massimo della discontinuità oggi possibile.
La messa in sicurezza dei conti.
Per via delle motivazioni che hanno presieduto alla sua costituzione e del metodo e del percorso seguito nel costituirlo, la formazione del Governo Monti, oltre ad essere l’ultimo appiglio cui aggrapparsi per evitare il tracollo internazionale e finanziario del Paese e la gravissima crisi del sistema-euro, rappresenta quindi, piaccia o meno al cavaliere, la certificazione del fallimento di questi 17 anni.
E, piaccia o meno a chi ne contesta gli indirizzi ed il significato politico, questo governo rappresenta il massimo della discontinuità oggi possibile, a meno di passare per il ricorso anticipato alle urne, con quali conseguenze è ben facile immaginare.
Al nuovo governo è stata affidata la gestione di due emergenze, strettamente connesse tra loro: quella di avviare, in quanto indispensabile, l’azione di risanamento dei conti, e quella di restituire credibilità al Paese sul piano della serietà di intenti e della volontà di affrontare efficacemente la situazione: entrambe premesse di un rapporto con gli altri Paesi e con le istituzioni europee più decoroso e tale da restituirci la capacità negoziale che il precedente governo aveva fatto perdere all’Italia.
La garanzia del raggiungimento del pareggio di bilancio per il 2013, senza rimandare ad eventuali successivi provvedimenti la compensazione di eventuali ammanchi veniva indicata come il gradino iniziale dell’azione di risanamento e come il metro di valutazione sul quale i nostri partners ed i mercati potessero verificare che, almeno stavolta, in l’Italia si stesse facendo sul serio. Di qui l’esigenza di mostrare determinazione e di selezionare in primo luogo provvedimenti tali da produrre effetti di certa entità ed immediata efficacia. La prima manovra del governo Monti ha risposto, ed in modo coerente, a quest’esigenza. Ma solo a questa: per sintetizzarla in riferimento ai tre parametri sui quali era stata incentrata la “mission” del governo (rigore, equità, sviluppo), dobbiamo constare che si è visto molto rigore, ma non equamente distribuito, e ben poco in quanto allo sviluppo.
I rapporti europei.
In secondo luogo, andava affrontata con immediatezza l’emergenza determinata dal sostanziale isolamento dell’Italia in Europa. Era evidente come la crisi italiana che, alla fine, avrebbe riguardato tutti (e proprio questo giustificava le pressioni europee, altrimenti prive di senso e di legittimità), imponeva senz’altro, e preventivamente, misure a carattere nazionale che rappresentassero una netta ed immediata inversione di rotta; ma è altrettanto certo che queste, pur costituendone una necessaria precondizione, non potranno esser sufficienti a mettere il sistema in sicurezza, ove non si affermi un maggior grado di concertazione e coordinamento ed un diverso atteggiamento da parte di Francia e Germania, tale da introdurre criterii di sviluppo, sostenibilità e solidarietà nella valutazione delle misure comuni e di quelle da adottare da parte dei singoli Stati.
Ma non era certo l’Italia berlusconiana a poter fornire idee ed impartire lezioni al riguardo: ad affermar ciò, oltre che l’avvio delle misure necessarie, si richiedeva da parte del nostro Paese il recupero di un nuovo status di autorevolezza e credibilità, innanzi tutto sul piano politico.
Status che era stato distrutto dal barzellettiere screditato e da una concezione dei rapporti internazionali personalistica, provinciale, costantemente sopra le righe e che, nella sguaiataggine del cavaliere e dei La Russa, Maroni, Calderoli, ricordava i “me ne frego” di lontana memoria. E dall’anteporre gli interessi privati ed i particolarismi agli interessi generali, del Paese e dell’Europa. Basti ricordare i rapporti con Gheddafi e Putin, le controversie sull’immigrazione, le numerosissime procedure di infrazione, la vicenda delle quote-latte, le ridicole ed irritanti ostentazioni di una inesistente leadership personale; e confrontarle con la realtà dei fatti, espressa dalle risate della Merkel e di Sarkozy. Soprattutto, non poteva essere sostenuto da un governo che, negando l’evidenza dei fatti, cercava di rilevare le pagliuzze negli occhi altrui senza voler mai voler tenere conto della trave nel proprio.
C’è ora da augurarsi che i primi passi compiuti dal governo nei rapporti europei, anche se per il momento sostenuti solo da azioni di governo iniziali e dallo stile e credito internazionale, possano portarci a recuperare una capacità negoziale tale da far pesare i nostri punti di vista: in primis, quello dell’assoluta necessità di un governo europeo dei fenomeni economici e finanziari, che non può esser lasciato né al gioco dei singoli egoismi nazionali, né alla concertazione preventiva tra alcuni governi, col risultato di una governance politica nell’Europa “larga” e nell’area “euro” oscillante tra la paralisi dei veti ed il decisionismo a due di Francia e Germania.
Il ripristino di un’autorevole presenza italiana in Europa può esser prezioso nella definizione di un comune sistema di governo economico-finanziario, di cui la definizione degli indirizzi di politica monetaria che, pur in regime di autonomia funzionale, alla BCE spetta di attuare, è solo una parte, e che necessita della ricerca di una convergenza fiscale e dell’adozione di comuni criteri di valutazione contabile.
In sostanza, il nostro risanamento finanziario ed il ripristino di una nostra capacità negoziale in Europa, per la quale oltre che una forte convinzione europeista ha peso anche uno stile sobrio e serio, sono questioni tra loro strettamente connesse e non possono procedere disgiuntamente: l’uno ha bisogno dell’altra, e viceversa. E sono, l’una e l’altra, entrambe questioni di vitale importanza.
Appare infatti sempre più evidente come quella che si è andata determinando sia una crisi di sfiducia che ha finito per coinvolgere l’intera l’area-Euro, nella quale nessuno è esente da responsabilità; questa ha toccato in misura più pesante l’Italia per il fatto che, a motivo delle ragioni qui riassunte, il nostro Paese si trova in una posizione particolarmente debole ed esposta, di facile aggredibilità e, anche a causa dell’enorme mole del nostro debito, priva di adeguate armi di difesa nazionali e da parte del sistema-Euro.
Molti passi avanti sono stati fatti: tra il precedente governo e l’attuale c’è un abisso morale, intellettuale e di stile. Il governo dei giullari non c’è più e, quale che possa essere l’opinione che si possa avere sul modo col quale si è formato questo governo o sui provvedimenti adottati o allo studio, è francamente un sollievo il trovarsi di fronte ad una persona seria, non sguaiata, che non trasforma la menzogna in arte di governo.
Inoltre, cosa per noi importantissima, sembra che la combinazione della natura e tempestività dei primi provvedimenti adottati con uno stile severo ed una solida capacità di argomentazione, stia dando i primi risultati sul fronte dei rapporti europei. Se non altro, non c’è più da temere che, dopo ogni incontro internazionale, gli addetti alla comunicazione di Palazzo Chigi debbano penosamente rimediare ad una barzelletta irripetibile o idiota, od alla consueta “gaffe” dovuta al delirio di protagonismo di un maleducato.
Omissioni nella manovra di Natale.
Tutto bene, allora? Non proprio, non tutto.
Pur riconoscendo come lo stesso Monti sia stato il primo ad ammettere il concetto che la manovra definita prima di Natale avesse carattere di emergenza e fosse integralmente dedicata a ridare un minimo di sicurezza ai nostri conti, assicurando che a brevissimo termine sarebbero stati avviati, pur sostanzialmente privi di fondi, i primi provvedimenti destinati a favorire lo sviluppo, (e che in questi giorni sono in discussione), resta aperta la questione fondamentale dell’equità, riguardo alla quale qualche segnale più concreto delle lacrime del ministro Fornero era pur possibile darlo.
Non si tratta soltanto di una doverosa giustizia sociale e politica, ma di una condizione imprescindibile per rimettere in movimento il Paese. I sacrifici necessari saranno resi accettabili, e saranno accettati a condizione che si abbia la chiara percezione che la prospettiva verso la quale ci si muove è quella di un Paese caratterizzato da minori disparità sociali, da minori iniquità fiscali, da maggiori prospettive di mobilità sociale, dall’eliminazione delle sacche di privilegio di monopoli, consorterie e corporazioni varie; in sostanza, dalla prospettiva di un futuro migliore per la maggior parte degli italiani. Ma non si tratta solo di rendere accettabili i sacrifici a chi li deve sostenere.
Una iniqua ripartizione di pesi e vantaggi è di per sé un forte fattore economico di freno allo sviluppo, nel deprimere le iniziative, l’aspettativa a migliorare, i consumi.
Sotto questi aspetti, pur ritenendo che l’indirizzo generale sul quale sono stati orientati i primi provvedimenti adottati fosse sostanzialmente inevitabile, questi presentano alcune omissioni significative e di non poco conto; tra queste, per citare le principali:
• L’aver prontamente rinunziato, dopo lo stop imposto da Berlusconi, ad ogni ipotesi di imposizione patrimoniale: ne è seguita un’imposizione di natura altrettanto patrimoniale, ma concentrata sul patrimonio immobiliare e sulla casa, anche quella di chi ne possiede una sola: cioè su forme di patrimonio che riguardano i livelli medi e bassi della distribuzione della ricchezza. E ne è seguito il forte l’aumento delle accise sui prodotti petroliferi, con i relativi ed evidenti effetti a carico delle famiglie e delle imprese.
• Il non aver toccato in alcun modo le larghe agevolazioni fiscali riservate alla chiesa cattolica ed agli enti ecclesiastici ed i contributi, anticostituzionali (Art.33 della Costituzione), alla scuola privata.
• Il non aver immediatamente annunciato la riduzione delle spese militari, ed in particolare l’eliminazione o la riduzione o il differimento di programmi per nuovi armamenti dei quali non si vede oggi né la necessità, né l’urgenza. Programmi, tra l’altro, che sono in ridiscussione in molti Paesi e sui quali pesa, come nel caso del caccia multiruolo F35, più di un’incognita sui costi e sull’efficacia tecnica.
• Il non aver posto con immediatezza all’ordine del giorno l’eliminazione delle Provincie.
• L’aver sostanzialmente accantonato misure di non risolutivo impatto contabile, ma di notevole efficacia politica, quali sarebbero state l’immediato taglio delle indennità parlamentari e l’obbligo per le Regioni di uniformare il trattamento dei relativi Consiglieri, Assessori, e Presidenti a livelli più adeguati.
Scelte diverse su questi punti avrebbero consentito di concedere qualcosa all’equità o allo sviluppo, sia in termini simbolici che sostanziali, ed avrebbero potuto comunque portare ad una manovra meno depressiva.
Limiti fisiologici del governo.
Emergono così i limiti intrinseci alla formula di un governo che è “tecnico” in quanto non composto da politici di mestiere, ed è di “emergenza” in quanto è stato varato al preciso scopo di affrontare una situazione finanziaria, economica, e politica, che il gioco delle forze presenti in Parlamento non era in grado di affrontare, e che non consentiva margini temporali per un ricorso alle urne che probabilmente si sarebbe rivelato non conclusivo, ma che è anche, necessariamente, “politico” nel senso che esso si fonda comunque su una maggioranza parlamentare.
Che però si compone per metà da coloro che votano la fiducia ed i provvedimenti del governo vedendovi la continuità con il precedente stato di cose, e per metà da coloro che votano la stessa fiducia e gli stessi provvedimenti vedendovi invece una discontinuità. Ed invece, troviamo ad opporvisi tanto chi vi vede una troppo scarsa continuità con gli indirizzi precedenti: la Lega ed alcune frange qualunquiste, quanto chi vi vede troppa continuità: i seguaci di Di Pietro, almeno nel merito dei provvedimenti e, fuori dal Parlamento, Vendola ed i suoi.
Si assiste così in Parlamento alla scena surreale di gruppi politici che votano gli stessi provvedimenti con premesse politiche e motivazioni opposte da parte degli uni rispetto agli altri. E di gruppi politici che invece votano contro quegli stessi provvedimenti o vi si oppongono, anch’essi partendo da motivazioni opposte degli uni rispetto agli altri.
Si tratta di un limite oggettivo posto alle possibilità di scelta di un governo al quale, esattamente come è stato in occasione della sua stessa costituzione, non c’è alternativa se non quella del ricorso alle urne e del tracollo finanziario e politico del Paese; governo che tutto induce oggi a ritenere che rappresenti il massimo della possibile discontinuità. In tale insostituibilità sta la sua forza; ma nel necessario sostegno parlamentare sta il fatto che i suoi interventi trovino evidenti condizionamenti nella loro portata economica e sociale.
Non ha quindi senso addebitare al nuovo governo i limiti di una gestione di emergenza, quando proprio da questa esso è nato; limiti che vanno invece addebitati alla sclerosi nella quale, da tempo, è andata ad ingolfarsi la nostra politica.
E’ chiaro quindi che le azioni di questo governo, per sua natura costitutiva, non possono travalicare le compatibilità che le forze che oggi lo appoggiano sono disposte a consentire, e che spezzare questa cornice comporterebbe, sul piano politico, la conseguenza del voto; e, sul piano economico e finanziario, il tracollo.
Dovrebbe quindi esser chiaro che a questo governo non si può chiedere altro che di puntellare la casa preparando le condizioni per tirar fuori l’Italia dalle sabbie mobili nelle quali essa stava sprofondando e rimettendola in un qualche modo in moto; e, cosa non meno importante, di riportarci in Europa.
Esigere di più sarebbe inutile, in quanto contradditorio con la sua ragione costitutiva; d’altra parte, non è chiedere poco, e quello avviato non è un impegno di poco conto o di piccolo effetto, e comunque è condizione necessaria ed indispensabile per qualsiasi nuova prospettiva.
Ma il compito di superare la fase di emergenza che è stato affidato al governo Monti non può di per sé risolvere tutti i problemi di casa nostra, che sono all’origine di un’anomalia italiana i cui effetti si misurano su ogni aspetto della vita politico-istituzionale, economico-finanziaria, civile, sociale; ed anche morale. Si tratta di un’anomalia che, pur avendo origini lontane, le politiche seguite dalla destra in questi anni e l’incapacità della sinistra di rappresentarne un’alternativa, non solo non hanno risolto, ma hanno pesantemente aggravata.
E, sul piano degli aspetti finanziari che così spesso e strettamente si sono negli ultimi tempi intrecciati alle considerazioni politiche, è anche evidente come la stabilizzazione di un sistema di finanza pubblica quale il nostro, che in definitiva si regge sul credito e sulla fiducia che riesce a riscuotere, in larga misura da parte di investitori esteri, richiede che ne sia assicurata l’affidabilità su un arco temporale ben più ampio del tempo che resta all’attuale legislatura. Quest’ultima è una delle ragioni che spiega perché, pur sostituito il governo ed avviate le prime azioni di risanamento, apprezzate più dai mercati che dal cittadino medio italiano che ne paga i costi, i rendimenti del nostro debito pubblico sono rimasti ancora attestati su livelli elevati, e come all’impennata dei rendimenti dei mesi scorsi non abbia fatto seguito un’altrettanto rapida discesa.
In sostanza, una volta venuta alla luce l’intrinseca debolezza del sistema, ci si vuol vedere più chiaro, e si chiedono rendimenti maggiori prima di impegnarsi su Paesi considerati a rischio e che solo adesso iniziano a metter mano al proprio risanamento, e si preferisce acquistare Bund o titoli pubblici considerati, a ragione o a torto, più sicuri. Il vederci più chiaro riguarda tre aspetti: la percezione della continuità dell’azione di risanamento nel tempo (in altre parole, cosa avverrà dopo la fase dell’emergenza e dopo le elezioni politiche); la percezione della sostenibilità delle misure adottate (cioè se, in presenza di politiche di spesa e fiscali improntate a severità sia comunque possibile riprendere un percorso di crescita); la percezione di una maggiore capacità europea di coordinare le politiche economiche, fiscali, finanziarie.
Il declassamento operato da S&P del debito pubblico di mezza Europa ha espresso queste preoccupazioni, ed ha aggiunto ben poco, come poi si è visto, alle indicazioni che già i mercati stavano fornendo (vedi al riguardo, sul sito “Spazio Lib-Lab”, il seguente commento: E’ l’Europa ad esser bocciata dai declassamenti da parte di S&P. ).
Quelli che lavorano contro il governo.
Il disfacimento è l’obbiettivo dichiarato di una Lega che senza mezze parole, e preannunciandolo con entusiasmo, punta apertamente sul crollo del Paese: presupposto, se non della formale separazione, almeno dell’aprirsi di un’ulteriore frattura tra Nord e Sud e della riaccendersi del populismo padano.
Il tracollo del Paese è anche annunciato con malcelata soddisfazione da alcuni settori del radicalismo di sinistra, che invece vi vedono le premesse dell’uscita dell’Italia dall’euro e della rescissione dei nostri legami con l’Europa, puntando apertamente sul default e la rinegoziazione del nostro debito pubblico, che ci porrebbe automaticamente al di fuori delle economie sviluppate od in grado di svilupparsi.
Occorre quindi avere consapevolezza del fatto che augurarsi il fallimento delle iniziative di questo governo equivale ad augurarsi allo stesso tempo l’uscita dell’Italia dal novero dei Paesi modernamente sviluppati. E’ evidente che ciò non sia visto come un male da evitare da chi rifiuta a priori il concetto di Italia e da chi tende ad interpretare come un disvalore il concetto di modernità.
A completare la valutazione del quadro nel quale si sta muovendo il nuovo governo, occorre poi osservare gli atteggiamenti di non pochi esponenti della precedente maggioranza, ad iniziare dal suo leader. Le sue ricorrenti affermazioni (“il governo durerà sin che lo vorremo noi”, “la cura Monti non funziona”), i paletti corporativi e populisti posti sulle liberalizzazioni dopo quello sulla patrimoniale, le critiche al blitz fiscale di Cortina, la “comprensione” nei confronti dei forconi siciliani e dei tassisti, l’appoggio alle proteste dei professionisti, la minaccia di imporre la modifica del decreto liberalizzazioni in sede di conversione, fanno capire con chiarezza che il fronte del particolarismo populista non è ancora stato battuto, e che questo non si limita alle prese di distanza di Di Pietro ed alle deliranti affermazioni della Lega.
Si ha la sensazione che sia all’opera un partito di fautori del tanto peggio, tanto meglio. Alcuni, apertamente autodichiaratisi come tali; altri pronti, ove le difficoltà dovessero aumentare, ad approfittare della situazione per lucrare in termini elettorali, o per potere poi dire agli italiani che, tutto sommato, era meglio prima.
L’unica strada per combattere questo partito è quella di andare avanti con determinazione. Le due questioni delle liberalizzazioni e della concretezza della lotta all’evasione fiscale sono contemporaneamente, l’una e l’altra, terreno di misura dell’equità e della possibilità che questo Paese esca dall’immobilismo, e diventano il vero campo di battaglia tra chi vuole por fine al sistema dei privilegi e delle protezioni, e chi invece vi vede l’occasione di continuare a raccogliere consenso populista.
In ogni caso, va sempre ricordato quanto la durezza dei provvedimenti adottati sia direttamente proporzionale alla colpevole negligenza ed ai ritardi coi quali il governo Berlusconi ha affrontato la situazione, e come l’avere per mesi taciuto e negato le reali condizioni del Paese, accusando di disfattismo chi esprimeva dubbi al riguardo, ha rappresentato, oltre che un criminale attentato all’elementare diritto dei cittadini italiani a giudicare sulla realtà, anche un atto di masochismo per ciò che attiene alla credibilità del Paese, con la conseguenza di un più duro e lungo ritorno alla realtà.
La prospettiva politica.
Oggi si tratta di puntellare la casa; ma, per ristrutturarla, sarà necessaria una maggioranza politica.
Tutte queste considerazioni convergono nell’indicare come, pur avendo a che fare con un governo “tecnico”, sia egualmente, e forse ancor di più, importante il ruolo della politica. Nel senso che, una volta dichiarata la bancarotta finanziaria e politica del berlusconismo e varata una soluzione di emergenza, si tratta ora di costruire una prospettiva del tutto nuova.
Non si tratta più di condurre, con maggiore o minore determinazione, la battaglia della democrazia contro un berlusconismo che stava affondando il Paese. Né si tratta di limitarsi a sostenere fermamente, seppure in modo non acritico, un governo che ci si deve augurare che riesca nel suo scopo, ma che ha a sua disposizione, per regola costitutiva, un orizzonte politico circoscritto ed un arco temporale limitato.
Il Paese ha bisogno di ben più che di pervenire al pareggio di bilancio per il 2013, e di ben più che di portare il sistema-Italia ad un minimo di liberalizzazione e di competitività. Se queste sono senz’altro precondizioni necessarie, e va dato atto a questo governo del suo operare con determinazione in questa direzione, non sono condizioni sufficienti a far riprendere alla democrazia italiana la strada di un progresso economico e sociale dotato di respiro e di basi solide e durature.
Si tratta di riformare profondamente la società italiana, nella vita economica e sociale, nelle istituzioni e nel modo di concepire la politica e la rappresentanza, nella formazione culturale, scientifica e tecnica, nell’amministrazione e nell’organizzazione dello Stato, introducendo criteri di dinamismo, di libertà, di equità, di merito, di coesione sociale, che troppo a lungo sono stati messi da parte cercando di accontentare prescindendo da ogni visione di comune interesse, ora questo, ora quello, per non fare poi in definitiva l’interesse di nessuno.
Per far ciò occorre una forte spinta culturale e politica, sostenuta da una nuova e durevole maggioranza che in questo Parlamento oggi non sussiste. Senza volere per nulla sminuire il significato ed i meriti di questo Governo, sarebbe irreale il pretenderne riforme profonde e tali da trasformare stabilmente la società e l’economia italiane, quando esso poggia su uno schieramento composto ad un tempo dalla gran parte dei massimi responsabili delle difficoltà attuali e dalla gran parte di coloro che, spesso troppo debolmente e senza riuscire a rappresentare un’alternativa reale, quanto meno vi si sono opposti.
E non si vede neanche con quale fondamento e con quali prospettive in una democrazia rappresentativa si possano definire, avviare e sviluppare processi di portata generale e di profonda trasformazione della società, riguardanti tutti gli italiani e comportanti un arco temporale non effimero, senza che su questi si sia svolto un confronto politico, e soprattutto senza che i cittadini elettori abbiano detto la loro, se possibile servendosi di una legge elettorale non liberticida.
In altre parole, ed in sintesi, se il compito dell’attuale governo è quello di puntellare la casa evitandone il crollo, sarà solo una vera maggioranza politica sostenuta dal voto dei cittadini, a poterla ristrutturare definitivamente in modo che essa sia duratura ed abitabile.
Le forze riformatrici.
La politica, quindi, pur avendo a che fare con un governo nato dall’iniziativa della Presidenza della Repubblica, e solo indirettamente dai partiti, non sta, né deve star ferma. Le forze politiche hanno davanti a sé il compito di definire, e di misurarsi nel proporre al Paese i caratteri che la nuova Repubblica dovrà assumere. Ed è una partita che già da ora occorre avviare. La discussione sulle liberalizzazioni proposte dal governo (eccessive, nell’opinione di larghi settori della vecchia maggioranza che, nonostante i giri di parole, vi vedono intaccate le protezioni care a categorie ad essi contigue; adeguate, secondo i centristi che vi vedono un punto d’equilibrio tra il mantenimento di una tradizione corporativa di lunga durata e l’esigenza di abbatterla; ma che nel merito non possono che esser considerate come indirizzate sulla strada giusta, per quanto timide e limitate a causa dell’esser frutto del delicato equilibrio sul quale si muove il governo) è un primo esempio di questa esigenza.
Alle forze riformatrici, di progresso, modernizzatrici, spetta nell’immediato di fronteggiare atteggiamenti che, per vie diverse, rischiano di concorrere all’insuccesso dell’azione di governo: quello di chi, apertamente o meno, da destra e da sinistra, auspica il fallimento dell’azione di rimessa in carreggiata che si sta avviando; e quello di chi opera perché quest’azione venga condotta in maniera annacquata e mantenendola nel solco di una sostanziale continuità con l’era berlusconiana.
Questo governo esprime l’unica possibile via di uscita dal berlusconismo: pertanto va sostenuto contro chi lo avversa perché vi vede mettere in discussione quelle arretratezze, protezioni, sperequazioni sulle quali aveva costruito le proprie fortune politiche o di categoria, o perché vi vede combattere quei particolarismi e quelle demagogie che erano stati la propria ragion d’essere. Ma, ciò detto, occorre anche avere la consapevolezza del fatto che il modello culturale e politico che esso rappresenta esprime appunto la necessaria transizione, l’unica possibile, ma non la definitiva soluzione dell’anomalia italiana, che non può scaturire da soluzioni emergenziali, ma può esser affidata solo all’evoluzione verso una democrazia compiuta.
Rafforzare la democrazia nei confronti di populismi e tecnocrazie.
Perché possa completarsi la riemersione del Paese dalle macerie lasciate dal berlusconismo, occorre quindi una maggioranza politica che, insieme ad un risanamento finanziario che richiederà anni, sappia proporre al Paese, e guidare, politiche di coesione sociale e territoriale, l’ammodernamento e la riduzione del costo del settore pubblico centrale e periferico, l’eliminazione del peso di rendite di posizione e da monopolio, politiche industriali adeguate, un welfare moderno, efficiente, esteso, gli investimenti sul futuro in infrastrutture, ricerca, istruzione.
E’ una lista infinita, che non è possibile chiudere in qualche riga; in definitiva si tratta sia di rimuovere antiche e consolidate ragioni di arretratezza, che di riparare ai guasti di questo ventennio. Ed occorre, nel far ciò, assicurare agli italiani la prospettiva di un futuro che sia migliore per tutti e non solo per alcuni, e che dia un senso agli inevitabili pesi che, tutti, e non solo alcuni, dovranno accollarsi.
Un compito di tale portata richiede consenso politico, nonchè coesione sociale e territoriale. Ciò comporta il pieno funzionamento di una democrazia rappresentativa e partecipata che sia solida e pienamente operante, ad iniziare dalla vita che dovrebbe svolgersi all’interno dei partiti politici che ne sono il presupposto, da un sistema elettorale adeguatamente rappresentativo e non soggetto a cancellazioni e semplificazioni di comodo, dal ripristino delle funzioni del Parlamento.
Abbiamo sotto gli occhi l’evidenza di quanto nei 17 anni appena trascorsi il particolarismo populista abbia chiuso e paralizzato società ed economia, frenato lo sviluppo, fatto venir meno equità e libertà, e corrotto la democrazia persino nel funzionamento formale delle sue istituzioni; ma questa evidenza e la formazione di questo governo non significano affatto che il populismo italico sia stato sconfitto e che le sue tentazioni non siano pronte a riaffiorare. Il più delle volte, gli interessi particolari sono più facilmente percepibili e percepiti dai gruppi che ne sono i portatori di quanto non lo sia un interesse generale: ciò fa sì che i primi trovino facilmente sostenitori rumorosi e pronti a concedere o togliere il consenso ad una politica che, priva di una visione generale, vi si fa condizionare; mentre il secondo molto di rado trova una difesa altrettanto evidente ed efficace. La concezione della politica come strumento di tutela dei particolarismi ha nel nostro Paese radici salde e profonde, ed è stata la risposta ad una politica incapace di produrre progetti di interesse generale, e non solo nel campo economico-sociale. La demagogia populista, la personalizzazione della politica, la prassi delle transumanze parlamentari, ne sono state a loro volta le conseguenze sulle forme e sui comportamenti della politica.
In Italia, demagogia e tendenze populiste, con il relativo corollario dei partiti personali, hanno assunto forme che non si limitano al corporativismo di interessi che è andato radicandosi nel partito berlusconiano trovandovi copertura, o al particolarismo territoriale di cui la Lega è la massima e virulenta espressione, ma che trova adepti anche nei forconi del Mezzogiorno d’Italia. Ed anche gli atteggiamenti istrionici ed antipolitici delle 5 Stelle di Grillo, e la demagogia savonarolesca di Di Pietro costituiscono altrettante manifestazioni di demagogia populista inutilizzabile ai fini di un pieno sviluppo della democrazia.
Ma l’ovvia, viste le recenti esperienze, avversione al particolarismo ed alla demagogia populista non deve, come per eccesso di reazione, indurre ad una non impossibile reazione verso l’aristocrazia oligarchica dei tempi moderni: la tecnocrazia; cosa che peraltro sostanzialmente alcuni caldeggiano.
Si tratta di una forma degenerativa della democrazia che è in atto in tutte le società industriali e che le stesse esigenze di governo sovranazionale di processi quali l’integrazione europea, od il necessario governo dell’economia globalizzata, che da più parti si auspica, tendono a rendere più facile.
Le crescenti esigenze specialistiche, la capacità di prevedere e governare fenomeni e sistemi articolati e complessi, la profondità e l’estensione delle informazioni e delle conoscenze necessarie ad assumere qualsiasi decisione rilevante, sono fattori oggettivi, che nelle società industriali agiscono concordemente nel senso di limitare l’accesso alle sfere decisionali a chi, per formazione culturale e scientifica, per censo, per pregresse esperienze, sia in possesso di adeguate conoscenze e capacità.
Nella situazione dell’Italia di oggi, processi di questo tipo, il cui effetto è quello della formazione di una casta tendenzialmente chiusa sono già ampiamente presenti. Ma rischiano di rafforzarsi ulteriormente per via dell’esigenza largamente riconosciuta di sostituire alla irrazionale semplicità dei particolarismi visioni d’insieme e capaci di dare efficienza al sistema, necessariamente articolate e complesse.
Ma non è pensabile che i criteri di scelta della politica, che sono il risultato delle conflittualità che si articolano nella società, e che per definizione sono relativi, possano esser ridotti alla presunta oggettività e neutralità della scienza, della tecnica, dell’economia, portando in nome di tale oggettività il potere tecnocratico a sostituirsi ad una democrazia nella quale i cittadini ed i loro rappresentanti possano dire la loro.
Il conseguimento della necessaria efficacia di funzionamento di una democrazia aperta è invece il risultato di rapporti corretti ed equilibrati tra la capacità decisionale, quella di controllo e quella rappresentativa delle strutture istituzionali; del corretto rapporto tra decisione politica e valutazione ed esecuzione tecnica; del pluralismo e dell’articolazione dei corpi intermedi; della diffusione pluralista del sapere e del conoscere come antidoto laico al formarsi di caste di chierici depositari della verità; della possibilità di partecipazione politica da parte di cittadini informati a partiti, associazioni, sindacati.
Ed il fatto che oggi sia all’opera un governo che ha forti connotati tecnocratici non altera questa valutazione, nel momento in cui si deve oggi far fronte ad un’emergenza che riguarda tutti. Ma la prospettiva futura va riaffidata al giudizio dei cittadini ed al funzionamento di una democrazia nella quale le scelte di merito e di schieramento dovranno necessariamente svolgersi nei termini del pubblico confronto politico e del dibattito tra culture politiche.
Concludendo, l’apertura di un nuovo ciclo che rivitalizzi la democrazia italiana deve guardarsi dai colpi di coda populisti: non può quindi passare per il riciclaggio di una destra che ha infiniti demeriti e che, pur facendo a meno del cavaliere, cerchi un rapporto con i centristi che, pur articolato su un dosaggi diversi da quanto già è stato sperimentato nel passato, non potrà sostanzialmente alterare gli indirizzi sin qui seguiti.
Ma neanche si può immaginare che ciò possa arrivare da un centrismo tecnocratico benedetto da Confindustria e dalla chiesa cattolica, che veda il suo perno politico nelle attuali forze di centro (delle quali, tra l’altro, la massima parte è stata attivamente protagonista del degrado di questi anni, fatti salvi i più o meno lontani pentimenti), che cerchino verso settori della vecchia maggioranza e della vecchia minoranza quel collegamento necessario a cercare di esser maggioranza.
E’ invece solo dalle forze riformatrici e laiche (in senso lato) del centrosinistra che può invece partire l’assunzione di responsabilità per un governo che possa ridare coesione ed una nuova spinta al Paese. In vista di ciò, la costituzione di un’area politica saldamente orientata su metodi, contenuti, e comportamenti ispirati alle concezioni di un liberalismo e di un socialismo aperti ed orientati a cercare comuni convergenze, assume un ruolo importante.
Gim Cassano (gim.cassano@tiscali.it), 24-01-2011.
{ Pubblicato il: 26.01.2012 }