chiara lalli
Nessun commentoL’uguaglianza e la libertà sono i primi che mi vengono in mente.
Penso alle lotte di uomini come Gaetano Salve mini, Piero
Calamandrei, Guido Calogero, Lelio Basso, Giu seppe Alberigo e
Norberto Bobbio, per ricordarne soltanto alcuni, e al loro impegno
per garantire la pari dignità sociale e le libertà di tutti gli
uomini e di tutte le donne.
L’uguaglianza non è solo quella formale. In assemblea costituente
Lelio Basso ha sottolineato l’importanza del compito dei poteri pubblici
di garantire una uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini. È
necessario verificare cosa accade nella società e adottare le migliori
soluzioni per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’attuazione di
tale principio che non deve rimanere un articolo astratto. Basta pensare
alla parità tra uomo e donna e considerare che le donne in Italia
votano solo dal Dopoguerra! Oppure alla riforma del diritto di famiglia
del maggio 1975: dal 1966 era stata presentata una proposta di
riforma in Parlamento, ma l’iter parlamentare si protrasse per ben
nove anni perché sarebbe stato impossibile approvare una riforma
in tale materia fino a quando fosse rimasta in vigore la disposizione
del Codice Civile che stabiliva che il matrimonio non si poteva sciogliere
se non con la morte di uno dei coniugi. Insomma, era impossibile
approvare una riforma adeguata alle esigenze della società
perché era in vigore la disposizione normativa che impediva il divorzio.
È stato necessario percorrere una strada lunga e piena di ostacoli:
mi riferisco all’approvazione della legge 898 del 1970 e alle polemiche
politiche e sociali che hanno preceduto la consultazione
popolare del 13 maggio del 1974, quando il 59 percento degli italiani
ha confermato la legge che ha stabilito il principio divorzista in Italia.
Anche questa è stata una battaglia di uguaglianza e di libertà.
Quella italiana è una buona Costituzione? È una condizione sufficiente per garantire i nostri diritti?
Direi che una buona Carta Costituzionale - e quella italiana del
1948 è una delle migliori in circolazione! - sia senza dubbio necessaria
ma certo non sufficiente. La condizione fondamentale per la
garanzia dei diritti è rappresentata dall’opinione pubblica, dall’impegno
civile dei cittadini, dalla conoscenza dei diritti riconosciuti
dalle disposizioni costituzionali e dalla consapevolezza di
quanto sia importante l’obbligo del rigoroso rispetto dei limiti
dell’intervento statale nella vita dei consociati. Naturalmente le
leggi specifiche a garanzia dei diritti sono molto importanti, così
com’è essenziale il panorama circostante: penso alla convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali del 1950 e alle altre costituzioni e carte dei diritti
europee e di altri continenti: è importante la coerenza tra le carte
costituzionali dei diversi Paesi perché la rete di protezione diventi
sempre più ampia e resistente.
Nel dibattito pubblico alcune parole sono abbandonate in una
ambiguità semantica che genera confusione. La palude semantica
riguarda per esempio “laicità” o molte delle parole su cui si
fonda la Costituzione e che vengono ripetute nel celebrare i centocinquant’anni.
Cosa è successo ad alcune parole?
Le parole e le espressioni delle carte costituzionali hanno grande
rilievo, e la presenza o l’assenza di una parola - che comunque
può avere molti significati - determinano importanti conseguenze
interpretative. A proposito di laicità, l’articolo 2 della Costituzione
francese del 1958 sancisce che la Francia è “una repubblica laica e
democratica”. L’articolo 1 della Costituzione italiana stabilisce che
l’Italia è “una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Nel
nostro Paese il percorso della laicità è accidentato: le scelte fatte
in assemblea costituente sono state cruciali. Ma i Patti
Lateranensi (Trattato e Concordato) dell’11 febbraio 1929 contenevano
norme che perseguivano l’obiettivo di garantire la confessionalità
dello Stato e certamente non promuovevano il principio
di laicità delle istituzioni civili. Un aspetto interessante riguarda
l’uso degli aggettivi: nel dibattito politico e nelle polemiche tra gli
Stati e alcune confessioni religiose, come la Chiesa Cattolica,
assai spesso si adottano espressioni come vera laicità o sana laicità,
per indicare la contrapposizione rispetto a forme di laicità
falsa e malata.
Ad ogni modo, non basta certamente una parola per garantire i
diritti: in proposito è significativo l’uso delle espressioni riguardanti
le garanzie del “lavoro”. Mi è capitato spesso, nella mia attività
didattica, di citare l’articolo 4 della Costituzione: “la Re -
pubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Negli anni più
recenti molti studenti, soprattutto i più giovani, sorridono amaramente
e si chiedono dove sia finito questo diritto, tanto importante
da essere sancito dalla Carta Costituzionale. Un principio
può anche rimanere solo un’astratta formula giuridica, priva di
effettivo riconoscimento sostanziale in tutte le ipotesi, purtroppo
assai numerose, nelle quali manchi completamente l’attuazione
di un principio teorico.
Il pervertimento semantico può essere intenzionale, soprattutto rispetto a parole importanti come “libertà”?
Succede ogni giorno: la parola “libertà” compare nella denominazione
di molti partiti (Popolo della Libertà, Futuro e Libertà), di
parecchi giornali e di numerose associazioni. Si vuole tentare di
convincere che solo il partito, o il giornale, che si definisce “libero”,
o che prevede il riferimento alla libertà nella propria denominazione,
sia davvero garante delle istanze di libertà! Ma, ancora
una volta, non basta una parola per rendere gli uomini liberi. Se
poi quella libertà nasconde, per esempio, un monopolio della
informazione diventa quasi grottesco e l’espressione “libertà”
diventa uno schermo, un insopportabile artificio. È inevitabile che
vi sia un uso diverso delle parole, che dipende anche dal piano
della valutazione e dal contesto; bisognerebbe però limitare l’ambiguità
semantica. La libertà non deve diventare privilegio. Faccio
un esempio: il cosiddetto lodo Alfano, nel quale il principio di
uguaglianza davanti alla legge è stravolto. Una così accentuata
lesione del principio di uguaglianza non può essere introdotta in
un ordinamento senza stravolgerlo e trasformarlo in un regime
illiberale: e questo stravolgimento andrebbe ostacolato, perché
sono pericolose le maggioranze che non credono più nei principi
costituzionali e perché nessun risultato elettorale può giustificare
il superamento delle garanzie necessarie affinché l’ordinamento
rimanga liberale e garantista dell’idea stessa di uguaglianza.
Perché è tanto importante soffermarsi sulle parole?
Intendersi sulle parole e sui loro significati è di fondamentale importanza
per il rispetto delle regole. Se una regola non è comprensibile
è impossibile applicarla e rispettarla. Oppure la si può applicare in
modi molto diversi tra loro, e il risultato è comunque insoddisfacente.
È significativo cosa sia accaduto in Italia nel corso dei centocinquant’anni
dalla formazione del nostro stato (17 marzo 1861),
con il passaggio dal periodo dell’Italia Liberale, a quello del Regime
Fascista e poi, nel 1945, a quello dell’Ordinamento Democratico. La
Costituzione del 1848, lo statuto concesso dal sovrano Carlo Alberto,
il cui articolo 26 affermava che “la libertà individuale è guarentita”, è
rimasta vigente per tutto il Ventennio Fascista, sebbene fosse stata
del tutto svuotata di contenuti. Le norme costituzionali dello statuto
sono rimaste in vigore anche in quegli anni in cui tutte le libertà individuali
e collettive sono state soppresse, soprattutto nel periodo
seguente l’assassinio di Giacomo Matteotti del 10 giugno 1924.
Negli anni del Regime le leggi sono cambiate, nonostante la
Costituzione Albertina prevedesse la formale garanzia delle libertà
individuali. Ecco perché nel 1948 lo Statuto Albertino è stato
sostituito da una costituzione lunga e rigida, che si caratterizza
come una carta costituzionale completa e articolata, nella quale i
costituenti hanno voluto tenere presenti e assicurare le essenziali
esigenze di uguaglianza e di libertà al fine di garantire i diritti
fondamentali dei cittadini, anzi i diritti di tutte le donne e di tutti
gli uomini (mi riferisco, in particolare agli articoli 2 e 3 e a tutta la
prima parte della Costituzione).
La nostra Costituzione afferma la libertà religiosa. Non sarebbe importante anche da parte dei religiosi garantirla? Non è offensivo imporre una religione? Non si umilia, tramite l’obbligo, l’importanza di una scelta?
Finora ho parlato soprattutto dal punto di vista dell’ordinamento
statale italiano. Penso all’articolo 7 della Costituzione: secondo
un’abitudine diffusa si dice che questo articolo regola i rapporti
tra Stato e “chiesa”. Invece bisognerebbe fare molta attenzione al
significato dell’aggettivo “cattolica” usato dal costituente, tenendo
presente che la Costituzione, nell’articolo ora citato, prevede
espressamente i rapporti tra Stato e “Chiesa Cattolica”. Infatti
“tutte le confessioni religiose” sono, per impegno costituzionale,
“ugualmente libere davanti alla legge” e la confessione cattolica è
una delle confessioni, non “la confessione”. Questa differenza è
importante. Dal punto di vista della Chiesa Cattolica lo scenario cambia: per
l’Ordinamento Canonico la religione cattolica è “la Verità”. Se si
parte dal presupposto che una chiesa costituisca l’unica chiesa, la
libertà somiglia all’errore: extra ecclesiam nulla salus. Con la premessa
che quella sia la strada giusta, come parlare di libertà?
Come potrebbe, la Chiesa Cattolica, garantire la libertà (di sbagliare),
cioè di credere in altra verità o di non credere? Nell’or -
dinamento italiano, e in tutti gli ordinamenti democratici statali
che garantiscono pluralismo, libertà ed uguaglianza, i diritti dei
credenti (in diverse confessioni) convivono, devono convivere,
con i diritti dei non credenti. Non può esistere “la Verità”.
Quali dovrebbero essere i rapporti tra le religioni e gli Stati?
La partecipazione delle religioni alla vita democratica è molto
complessa. La pretesa di “Verità” mal si adatta alla laicità delle
istituzioni civili. E tuttavia, tra i documenti approvati durante i
lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), vi è un
passo illuminante della Costituzione Conciliare Gaudium et
Spes. Il paragrafo 76 afferma: “Tuttavia essa [la chiesa cattolica,
cioè l’unica chiesa] non pone la sua speranza nei privilegi offertile
dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti
legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far
dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze
esigessero altre disposizioni”. La Chiesa, in sostanza, avrebbe potuto
- a mio avviso, avrebbe dovuto - rinunciare ai diritti ottenuti a
seguito della stipulazione dei concordati, perché i privilegi riconosciuti
da tali accordi avrebbero potuto suscitare dubbi sulla
sincerità della sua testimonianza. Una formula molto raffinata e
problematica, frequentemente citata da quanti, anche tra i cattolici,
contestano la vigenza dei concordati negli Stati totalitari
divenuti Stati democratici. In quegli anni si confidava molto in
questa dichiarazione di intenti da parte chi è abituato a prendere
sul serio le dichiarazioni contenute nelle disposizioni giuridiche,
anche di ordinamenti caratterizzati da forti peculiarità
com’è l’Ordinamento Canonico. Era il 7 settembre 1965 quando
Paolo VI dichiarò che “tutte e singole le cose, stabilite in questa
Costituzione Pastorale sono piaciute ai Padri del Sacro Concilio. E
Noi [...] le approviamo, le decretiamo e stabiliamo […]”. Qualche
anno dopo, l’11 febbraio del 1973, nel periodo cruciale delle polemiche
collegate alla consultazione popolare per la legge sul
divorzio, Pietro Scoppola pubblicherà un articolo sul quotidiano
“Il Giorno”, intitolato Alla Chiesa la prima mossa di rinuncia al
Concordato. I cattolici democratici in quegli anni credevano nella
concreta possibilità di nuovi comportamenti e orientamenti da
parte ecclesiastica - mi viene in mente il titolo del bel film di
Mario Martone Noi credevamo; oggi dobbiamo dire si illudevano
che alle parole potessero seguire i fatti. Ben presto le speranze si
sono trasformate in delusioni; e quasi tutti i principi del Concilio
Vaticano II sono diventati lettera morta, e di recente i silenzi prevalgono
sulle parole.
Non si rischia la riduzione al ridicolo di alcune questioni religiose? Dov’è il libero arbitrio, solo per fare un esempio?
La visione oggi dominante delle questioni religiose e cattoliche
è molto spesso volgare. Penso che i cattolici dovrebbero arrabbiarsi,
constatando quanto spesso i novelli paladini del Catto -
licesimo siano delle caricature e siano mossi da interessi e
ambizioni esclusivamente di carattere politico, o meglio partitico.
E allora bisogna guardare ai migliori: penso al volontariato
o a alcuni preti di strada, impegnati nell’attraversare le frontiere
dell’emarginazione e della speranza. E penso alle posizioni,
quasi sempre condivisibili, per una valutazione delle esigenze di
una società civile, sostenute da un amico di religione valdese
con una sincera visione democratica come Giorgio Peyrot, purtroppo
da poco scomparso. Nelle gerarchie clericali non emergono
personalità di spicco. Nemmeno nel dibattito pubblico a
pensarci bene. E non è un caso. Dovremmo comunque superare
l’ottica che alla Chiesa Cattolica, a tutte le chiese, si possa
chiedere l’impegno spontaneo nel garantire il rispetto delle
libertà di religione e delle garanzie di laicità. Quel rispetto lo
dobbiamo pretendere come cittadini e non aspettare che arrivi
dall’alto o dagli altri.
da IL MUCCHIO SELVAGGIO
{ Pubblicato il: 09.03.2011 }