graziella durante
Nessun commentosocietà civile che si indigna. Agli argomenti che questa indignazione
trova, alle bandiere che solleva e alle sue buone e condivisibili
rivendicazioni. Sono rappresentazioni che servono a insabbiare i
motivi forti dell'insurrezione, non meno di quelle che ne sequestrano
le armi e ne denunciano la violenza. Un fintamente 'nuovo' ordine del
discorso - il soffio vitale delle coscienze che non stanno più alle
vecchie regole del gioco - funziona da misura, questa sì ideologica,
per selezionare la giustezza delle cause, degli obiettivi e delle
forme di lotta. Un nuovo che viene da lontano, dalle giuste crociate
in nome della legalità che ha già da tempo il suo paradiso di santi!
La piazza del 13 febbraio è venuta dopo quella di dicembre, e dopo
l'ecumenismo di Marghera che ha traghettato le anime salve
scegliendole tra quelle perdute, senza produrre alcun miracoloso e
salvifico fronte da cui far ripartire un possibile al di fuori del
‘già dato’. Contro le passioni della ‘prima’ piazza del popolo, che
hanno infiammato i volti gelati di dicembre, si è sollevata tutta
l’indignazione ottusa del paradiso dei giusti – da Saviano in poi –
quelli per cui anche l’insurrezione deve sottostare al codice delle
buone maniere, iscriversi nel galateo della buona società, trattare
con diplomazia con chi, pistola alla mano, ti tiene in ostaggio dalla
nascita alla morte. L’indignazione si muove sempre dentro i confini di
‘quel’ possibile, censura ciò che non vi si colloca. Agisce in nome
del ritorno alla normalità, alla dignità, al sostenibile. Agisce per
riportare nel vaso l’acqua che ne è straripata e teme esattamente
quell’ultima goccia che lo farebbe esplodere! Non segue le linee di
trasformazione di un desiderio plurale e comune. Sospetta del suo
balbuziente ma radicale procedere per accostamenti, spostamenti,
agguati, contaminazioni, propagazioni. L’indignazione sa cosa vuole e
i suoi obiettivi sono sempre a portata di mano. Procede dentro i
limiti e le garanzie della discrezione, del dire fino ad un certo
punto. Agisce il proprio desiderio affidando prudentemente al limite
il compito di imbracarne le dinamiche dentro il circuito della
dialettica per vederne assicurata la sopravvivenza, nella forma
spettrale della ripetizione. Le sue sono conquiste confortanti: tutto
è nuovo perché tutto è di nuovo come prima! Chi insorge non vuole
essere rassicurato sugli esiti e sugli approdi. Chi insorge sa che il
desiderio può produrre caos, ma un caos dentro e contro l’esistente.
Alla piazza di febbraio è seguita quella di marzo come un lungo
pellegrinaggio che condurrà, dicono, alla primavera. Ma quest’anno non
è stata la consueta e celebrativa giornata per le donne, dicono anche,
perché sono TUTTE le donne ad esserne protagoniste. Perché c’è una
dignità da far parlare, un’intelligenza da esibire, una rinnovata
questione di genere che vuole far pagare il conto al Sultano e alla
sua corte, un soggetto da rimettere sulle gambe dopo l’azzoppamento
violento e oggettivante dello sguardo maschile. E ci sono anche tanti
maschi da ascoltare, padri, mariti, fidanzati, a cui si può anche
perdonare il ‘lapsus’ di una grammatica possessiva e proprietaria,
purché si rendano disponibili a rimaterializzare il Padre e a
denunciare il senso di solitudine e di morte che si cela dietro al
godimento eterodiretto dalle forze maligne del sistema capitalistico.
C’è chi ha provato a giocare un nuovo matriarcato contro il presunto
spettro del patriarcato e chi ha evocato la memoria storica delle
donne con parole e modi che sono state carburante per l’antica
macchina della gerarchia affidamento-autorità recitato ancora, come
sempre, nel “segno della madre” e della sua palude. E andando di
definizione in definizione, l’elenco potrebbe essere infinito. Mi
oppongo ideologicamente all’auspicabile ricomposizione di un terreno
coeso, perché resisto alla chiamata di una nuova questione di genere
usando argomenti evanescenti che ho riassunto – lasciando molte cose
da parte – opponendo il desiderio di insurrezione ad una piazza
indignata, sacrificando la specificità della questione di genere agli
obiettivi ‘massimalisti’ di una lotta alle nuove dinamiche di
produzione? Eludo il dibattito dell’osceno e dell’esibito, dello
‘spettacolo integrato’ della sessualità, della necessità salvifica del
‘piccolo oggetto’ che mi assicura sopravvivenza psichica mantenendomi
irrealizzato e perduto, perché penso – vitalisticamente ed
euforicamente - un pensiero affermativo? Non si tratta di una comoda
scorciatoia, ma di una ricerca di libertà che sta imparando a trattare
poco con chi non ne riconosce l’urgenza.
Non mi piacciono i banchetti ad invito, in cui i gomiti vanno esibiti
tutti in fila sui bordi del tavolo! Credo alla convivialità della
strada dove ogni differenza, situata ma in transito, può non essere
irreale o accolta con tolleranza. Quelle adunate che finiscono con il
lancio del calice a cui non si arriva con il vestito buono e la
coccarda rosa tra i capelli! Lo scandalo politico-sessuale made in
Italy mi offende e mi interroga non solo e non tanto perché delinea un
ritratto agghiacciante delle relazioni uomo-donna,
corruzione-legalità, etc., non perché fa emergere carnefici e vittime,
collusi e pentiti, servitù volontarie e coraggiosi dinieghi. Ma perché
è l’affermazione più spettacolare di come ogni desiderio sia
completamente piegato nel circuito delle nuove logiche di estrazione
di valore e di sfruttamento del mercato del lavoro post-fordista. Per
molti versi ne ho accolto con euforia l’avvento: finalmente il rasoio
che taglia il velo! Che lascia venire alla luce un nuovo ‘ecostistema
del sesso’, iscritto in logiche economiche che ristrutturano e
rinnovano disuguaglianze, producono nuove obbedienze che accadono in
modo diffuso e generalizzato, secondo direttrici trasversali che
investono e riconfigurano confini di genere e di razza, di identità e
di appartenenze.
La mia euforia si è tramutata presto in scoramento, delusione,
inquietudine, rabbia e ribellione appena ho assistito alla gestione
subdolamente compromissoria della sua esplosione. Al suo governo. La
piazza del 13 febbraio è stata una tappa significativa di questo
processo e quel che è arrivato l’8 marzo la faccia patetica e già
stanca di tutta quella feroce indignazione.
Il contratto sessuale che, per alcuni, è il momento di massima
alienazione e degrado della vita di chi vi trova approdo, non è
difforme e dissimile, più offensivo e più degradante, della
prostituzione permanente e forzata dell’intelligenza collettiva. E’
una rapina quotidiana che tiene in vita i corpi estraendone linfa. La
mia lotta non è ascrivibile ad una nuova questione di genere, eppure
la fa esistere, ne rende conto e la immagina. Non mi incanta il gesto
di chi chiama ribellione all’ordine il ritorno, ben più autoritario e
omologante, all’ingegneria sentimentale dell’etica borghese e
cattolica, incitandomi all’adattamento e neutralizzando la pluralità
che io stesso incarno. Se vogliamo parlare di sesso, allora che si
depongano fino in fondo le maschere, vecchie e nuove, che si guardino
fino in fondo tutte le facce della medaglia. Senza indulgenza e, per
favore, senza alcuna tolleranza. Rendendosi indisponibili al solito
gioco dei due piani, quello dei sentimenti e quello delle pulsioni, e
della doppia morale che ne deriva. Se si vuole parlare di amore che lo
si faccia partendo dal gesto autoritario che spesso lo sostanzia senza
per questo esserne la cifra segreta e destinale, e da tutte le sue
implicazioni.
Che cos’è il genere, dinanzi all’emergere di nuove soggettività e
oltre la sua metafisica, chiede Peppe, auspicando carciofi al posto
delle mimose, all’indomani della festa delle donne? Ottima domanda a
cui occorrerebbe dedicare molte riflessioni. A cui, si potrebbe
rispondere fattivamente, in modo provocatorio e ironico insieme, con
la richiesta di una destituzione della celebrazione rituale del nostro
calendario storico. Delle sue tradizioni, le feste comandate, gli
anniversari da commemorare ipnoticamente. Fissarvi nuove date, o non
fissarne alcuna. Non perché della storia non sappiamo che farcene, ma
perchè è un luogo sorgivo prima ancora che una sedimentazione.
Sostituirlo con un calendario ‘terrestre’ e desiderante, la cui
materia è quel presente che fa avvenire il futuro qui e ora.
L’istituirsi di un tempo che non si accontenti del sollievo
dell’indignazione, non si arresti alla grammatica giuridica delle
rivendicazioni. Che sappia insorgere e straripare. E che ritorni a
guardare le stelle, aprendo l’equinozio di primavera con il gesto
affermativo di un desiderio costituente che sappia salutare l’inverno
dello scontento danzando attorno al suo rogo!
{ Pubblicato il: 10.03.2011 }