Eugenio Scalfari, Governo e sindacato uniti nell'errore, la Repubblica. 25 marzo 2012
Due simbolismi contrapposti: l'ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell'articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l'opinione pubblica e il dibattito politico.
I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all'estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro.
Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l'uccisione del delfino degli Asburgo da parte d'un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte.
Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo "spread" potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l'Europa e tutto questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire - mi si passi un'espressione scurrile ma appropriata - chi ce l'ha più lungo.
Infatti il peso e l'importanza dell'articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell'economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell'articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all'articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato.
Conosco bene l'obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d'una propria valutazione. Mi domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma determinassero uno sconquasso sociale.
Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del "salva Italia" ha trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai fini della crescita.
Infine osservo che l'articolo 1 della Costituzione recita che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Si tratta d'una banalità o d'un principio che deve ispirare il legislatore?
Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall'inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell'estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell'estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all'entrata ed anche all'uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico - come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere - ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave.
Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l'errore modificando il testo del governo per quanto riguarda l'articolo 18. I partiti della maggioranza saranno concordi su questa questione?
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Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché anch'essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d'accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l'articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l'intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell'etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.
Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato.
L'articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile.
Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai un'intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio.
La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C'era un solo modo di realizzare quell'obiettivo: fare della classe operaia la principale e coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in seconda fila i suoi interessi particolari di classe.
Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale. Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l'articolo 18.
Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all'interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d'allarme.
Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della "strana" maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.
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Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l'imprenditore e il sindacato d'azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l'11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo.
Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D'Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione.
L'incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti verso l'equità e la pre-condizione d'una crescita che d'ora in avanti dovrà essere la sola preoccupazione e obiettivo di tutti.
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{ Pubblicato il: 24.03.2012 }