I parrucconi, lo so, non lo titolerebbero così questo articolo. Troppo volgare, improprio, inopportuno per un Paese tanto raffinato, in cui le delicatissime anime bucoliche e intellettuali popolano in gran numero i gangli vitali della società, dagli scranni parlamentari fino alle trasmissioni televisive.
Quindi, vediamo, un titolo più opportuno avrebbe potuto essere questo: l’eterna utopia della democrazia diretta.
E’ quanto continua a ronzarmi in testa ogniqualvolta mi imbatto nell’unica novità politica degli ultimi tempi: il movimento di Grillo.
La teoria fondativa e ispirativa del movimento 5 stelle, infatti, suona in questo modo: una realtà orizzontale, priva di gerarchia alcuna, che trae ispirazione teorica ed operativa dal mondo della Rete. Insomma, questo il succo del «loro» messaggio: il movimento siamo tutti! Questi tutti hanno finalmente modo di esprimersi e partecipare, tutti quanti appunto, grazie a quella nuova e splendida realtà veicolativa che è la Rete.
La domanda sorge spontanea: ma se il movimento 5 stelle è composto da «tutti», chi diavolo mai sono gli «altri»? Sembrerebbe presto detto: la casta, l’attuale classe dirigente e politica, coloro che in tutte le sfere e gli ambiti della società hanno rivestito un ruolo di comando e di potere, contribuendo a sprofondare il Paese in quell’acquitrino maleodorante che è sotto gli occhi, pardon: sotto il naso, di tutti.
Evidentemente, tutti questi signori, il cui numero e la cui identità sono imprecisati per ovvie ragioni, anche qualora navigassero su Internet non potrebbero ritenersi appartenenti a quell’indistinto popolo della Rete che costituisce l’humus ideologico e operativo del M5S. Per una sorta di conflitto di interessi, potremmo dire. Non possono essere al tempo stesso i colpevoli della decadenza attuale e i salvatori della patria.
Ma torniamo al concetto del «tutti», o di quella democrazia diretta che, almeno da Rousseau, costituisce una delle grandi utopie dell’epoca moderna. L’ideale è nobile e facilmente condivisibile: lo stesso termine democrazia ne svela la natura, nella misura in cui si parla di potere (cratos) del popolo (demos). Non per caso lo stesso pensatore ginevrino si esprimeva in termini di «volontà generale», alla ricerca di un sistema di governo, o di un contratto sociale, che realizzasse finalmente la possibilità per ciascun individuo di esercitare un ruolo riconosciuto e rispettato nell’ambito del consesso civile.
Questo anelito, inevitabilmente, si riaccende con nuovo vigore ogni volta che la società vive il trauma della scissione fra privilegiati e subordinati: ai tempi di Rousseau si trattava degli intollerabili privilegi dell’aristocrazia, a fronte della miseria del popolo; ai giorni nostri della sempre intollerabile supponenza, alterigia, sfrontatezza e inadeguatezza di una classe politica e dirigente in contrasto alla crisi sociale in cui è piombato il ceto medio e popolare.
Il problema, perché problema c’è, si presentava allora e si presenta oggi sotto una duplice veste: da una parte si tratta di come individuare, distinguere, accreditare questi «tutti» o questa «volontà generale»; dall’altra di capire chi prenderà il potere, perché qualcuno prende sempre il potere, una volta che a questi «tutti» sarà riuscita l’impresa della grande rivoluzione o del vaffanculo collettivo. Perché anche, e forse soprattutto, all’interno di un movimento indistinto e apparentemente anarchico vige quella «legge ferrea dell’oligarchia» di cui parlava Robert Michels agli inizi del secolo scorso. E quindi, volenti o nolenti, qualcuno il potere lo deve prendere, in maniera chiara e legittimata, a meno di non volersi abbandonare alla legge, altrettanto inesorabile, del più forte.
Ai tempi di Rousseau e della rivoluzione francese, l’indeterminatezza del concetto di volontà generale, che si tradusse facilmente in un’indeterminatezza e fumosità del programma politico generale (dove si vuole arrivare? Governati da quale ideale e partito politico?), portò inevitabilmente a un turbinio di grandi conquiste politiche e sociali mischiate però a contraddizioni, conflitti, ghigliottina e morti.
Quando il programma è fumoso, inespresso, estremamente duttile e quindi adattabile alla bisogna, ai conflitti del momento, o agli umori di chi da dietro tira i fili, la deriva verso un sistema totalitario è pressoché certa, come ci insegnò Hannah Arendt nel suo Le origini del totalitarismo. E, del resto, anche un signore appartenente a un’epoca molto lontana come Platone, sapeva benissimo che è proprio la democrazia, l’ideale irrealizzabile del potere di tutti, a sfociare più facilmente nella dittatura.
E qui torniamo all’utopia del «tutti», mai come oggi inebriata di nuova linfa da quel mondo anarchico, panteistico e cazzaro che è stato reso possibile dalla Rete. Un mondo perfetto in cui ognuno trova voce e spazio, ognuno può intervenire su tutto, ognuno può sentirsi partecipe di ogni vicenda e, soprattutto, perfettamente informato su ogni cosa grazie all’ausilio potentissimo di un link.
Pensiamoci bene: quando mai, prima di facebook, twitter e i social network in genere, ci capitava così frequentemente di discettare e «postare» su argomenti così diversi nello spazio breve di una sola mattinata?!
Questa nuova «realtà» (non a caso chiamata virtuale), ci ha reso tutti edotti, tutti statisti, opinionisti, agitatori sociali e, oggi, con Grillo e il M5S, esponenti fattivi e irrinunciabili di un movimento politico che si propone di rivoluzionare l’Italia (fenomeni del genere, mutatis mutandis, si presentano anche negli altri paesi, pensiamo ai Pirates in Germania).
I segnali inquietanti non mancano (vedi puntata di PiazzaPulita del 13-9-2012), gli indizi di una scarsa democrazia dentro al movimento, le epurazioni immotivate, decise misteriosamente da uno o due personaggi che in realtà, alla faccia del potere di tutti, sembrano usufruire di un potere assoluto.
Non voglio condannare il movimento di Grillo, sia chiaro, e anzi dico subito di appartenere a quella schiera, presumo ampissima, di persone che non ne possono più di una classe politica e dirigente così incapace, verticistica e ammantata di privilegi tanto immotivati quanto eterni. Ma non dimentico che nulla nasce dal nulla: un popolo più ignorante, più volgare, con scarso senso dello Stato, sta dietro a quella classe politica che esso stesso ha prodotto e votato.
Pensare che la massa indistinta dei «tutti» possa costituire una soluzione pacifica e opportuna può rivelarsi una nuova utopia foriera di guai, pensare che il «popolo della Rete» possa assurgere facilmente al ruolo di «ultimo Dio», vuol dire dimenticare che la storia è stata fatta da gente che si è riservata il monopolio dell’interpretazione dei messaggi di quel dio.
E poi non si capisce perché mai il Pino, Luigi, Giovanni e Luisa che incontriamo ogni giorno, spesso e volentieri sono persone cui non affideremmo neppure il gatto, mentre se li vediamo come autorevoli esponenti del «popolo della Rete» dovrebbero assurgere al ruolo di geni assoluti.
Il mio è un appello al Movimento di Grillo. Sia realistico, renda un servizio a se stesso e quindi alla nazione che aspira a governare: stenda un programma unico e condiviso, elegga dei rappresentanti locali, regionali e nazionali (perché la presunzione di assenza di gerarchia produce altri tipi di gerarchia assai meno democratici e pacifici), si dia una gerarchia democraticamente eletta e, soprattutto, modificabile dopo un determinato tempo. Esca, insomma, dall’utopia dell’indeterminatezza, dall’indistinzione del «tutti» (il tutto confina pericolosamente col nulla!), dalla panacea della democrazia diretta.
Glielo chiede una persona, ma confido nel fatto che siamo tantissimi, che di vaffanculi ne dispone in quantità industriali, in questa società del privilegio per gli incapaci e della frustrazione per chi aspira alla meritocrazia.
Ma caro Grillo, mi creda, glielo dico da comico mancato (e magari rompiballe riuscito): mandarci tutti, a quel Paese, mi darebbe la stessa soddisfazione del non mandarci nessuno. Aggiusti la mira, per favore!
{ Pubblicato il: 14.09.2012 }