Sabato 10 è apparso sul Corriere della Sera un articolo di R.
Abravanel che è un esempio molto illuminante di come si possano dire
cose di destra facendo finta di essere di sinistra. L’articolo in
questione è accattivante sin dal titolo “Se la sinistra rinuncia a
combattere l’apartheid della disuguaglianza”. Capperi! Ho esclamato,
questo addirittura sembra attaccare la sinistra da sinistra. Gli amici
che mi leggono sanno che attribuisco alla disuguaglianza le colpe
principali di questa crisi, quindi a leggere quel titolo mi si è
aperto il cuore. Anche l’incipit era incoraggiante: “Nel mondo inizia
il sesto anno di crisi economica e si accende il dibattito sulla
disuguaglianza. In realtà è da 20 anni che la disuguaglianza cresce”.
Ottimo! Finalmente qualcuno che comincia a dire che la disuguaglianza
esisteva molto prima della crisi (per chi scrive comincia da 30 anni,
ma la differenza è una bazzecola rispetto all’affermazione del
principio). La gioia del lettore avverte una certa stonatura leggendo
la frase successiva “oggi il grande dilemma della maggioranza dei
leader politici nel mondo è come ridurre la disuguaglianza senza
penalizzare la crescita”. Mi sono chiesto: “ma perché lotta alla
disuguaglianza e crescita sono in contrasto? Non sono invece coerenti,
e il loro legame non è addirittura necessario?”. Ma la gioia di quel
titolo e dell’incipit fa superare questo inizio di ripensamento, anche
perché subito dopo si legge: “in Italia, invece, quasi nessuno si
lamenta ancora del nostro elevatissimo livello di disuguaglianza,
anch'esso di lunga data”. Giusto! Giustissimo! Anche se verrebbe da
dire “la Cgil è da sempre che lo dice”, ma anche questa osservazione
ce la ricacciamo indietro. Poi si legge: “in America il gruppo dei
super-ricchi (il top 1% dei redditi) è sempre più costituito da
manager e professionisti, e sempre meno da imprenditori”. E qui
cominciamo a chiederci più seriamente “cosa c’entra questa
precisazione? Sembra voler togliere le imprese dalla polemica. Il
passaggio più rilevante di reddito documentato da autorevoli ricerche
anche di enti istituzionali mondiali è dai redditi di lavoro a quelli
di impresa e di capitale. E’ questo spostamento di reddito all’origine
del calo di domanda e quindi della crisi”. Ma una frase successiva ci
rassicura: “La mobilità sociale italiana è bassa da sempre, ma per
un'altra ragione: perché i figli dei ricchi ereditano l'azienda e le
proprietà del padre. Nel nostro Paese non solo i poveri sono sempre
stati molto più poveri, ma non hanno mai avuto molte possibilità di
diventare ricchi, come invece avviene negli Usa grazie alle borse di
studio per le migliori Università”. Quindi quella precisazione sui
manager forse aveva solo lo scopo di far rilevare che negli Usa la
mobilità sociale è tale da poter consentire a dei semplici lavoratori,
come in fondo sono i manager, di scalare la vetta della scala della
ricchezza. Va bene ci può stare, anche se avremmo qualcosa da ridire,
ma lasciamo perdere. Sono le affermazioni successive che ci fanno
capire che un po’ alla volta l’articolo vuol parare da tutt’altra
parte: “Del resto il nostro welfare non protegge i più poveri, i
giovani e le donne: difende piuttosto i capofamiglia maschi, ai quali
garantisce il posto di lavoro e una pensione prima di tutti gli altri
Paesi. Quando la sinistra parla di «politiche per la crisi», parla
sempre e solo di «difesa»: difesa del posto di lavoro, difesa delle
pensioni, difesa dei diritti. Non di creazione di opportunità, se non
in termini generici e vaghi. Questo linguaggio è figlio di
un'impostazione conservatrice e anti-capitalista, che pone la sinistra
italiana (e buona parte del Paese) su un pianeta ideologico arretrato
rispetto alle altre nazioni occidentali. Nel «pianeta Italia» la
disuguaglianza viene oggi affrontata basandosi su principi quasi
feudali. Non è l'impresa che crea benessere, ma il lavoro (art. 1
della Costituzione). Il lavoro esiste indipendentemente dal capitale,
dall'impresa, dal consumo”. Vorremmo replicare con tante osservazioni
a cominciare dal richiamare all’autore che è Adam Smith a dire che
all’origine della ricchezza di una nazione c’è il lavoro, e non la
Costituzione italiana, lo può verificare aprendo sulla prima pagina
del libro più importante dello scozzese, addirittura quella
dell’introduzione; le prime parole sono infatti dedicate al lavoro
quale unica fonte della ricchezza di una nazione, ma preferiamo
tralasciare per non essere confusi con quelli che sono contrari in
modo preconcetto all’impresa privata (a certi economisti piace
ricordare solo certe cose di Smith e non altre, d’altro canto lo
stesso Schumpeter considerava un po’ spregiativamente lo scozzese il
padre di tutte “le teorie dello sfruttamento”). Ecco poi le
affermazioni finali che ci fanno capire definitivamente dove
l’articolo vuole andare a parare. Abravanel attacca l’ “atteggiamento
del sindacato, di fronte a occupati e disoccupati. È così che si crea
l'«apartheid» di cui parla Pietro Ichino tra i dodici milioni di
intoccabili (assunti a tempo indeterminato) e i nove milioni di
«precari» e dipendenti delle piccole imprese. La sinistra italiana non
ha capito che è il mercato a creare il lavoro e che il compito dello
Stato non è dichiarare che lo status quo è un diritto e congelarlo, ma
diminuire la disuguaglianza di opportunità favorendo meritocrazia,
concorrenza, scuola di qualità”. Si era partiti con le disuguaglianze
tra ricchi e poveri e si è finiti a parlare e dare la colpa alle
disuguaglianze all’interno della sola categoria dei poveri. Quindi il
problema non è quello dell’impoverimento delle classi medie e basse
determinato dalle imprese e dalla politica in questi decenni, bensì la
“disuguaglianza” determinata dalla sinistra e dai sindacati
all’interno dei lavoratori. (Che poi, immaginiamo come costoro
vorrebbero eliminare tale disuguaglianza …) La ricchezza degli
imprenditori e dei ricchi in generale può restare quella che è. Alla
fine, onde evitare che venisse smascherata la manipolazione, l’autore
fa una specie di distinguo apparentemente a favore della sinistra: “Se
il centrodestra è sempre stato il protettore dei grandi privilegi, la
sinistra si è trasformata in protettrice di quelli piccoli. La
sinistra si pone come alternativa a una destra incapace di fare
nascere questi valori negli ultimi 25-30 anni. Ma riuscirà a superare
quei tabù che l'hanno resa un alleato della destra per creare il Paese
più disuguale del mondo occidentale ?”. Quindi il problema non è
quello di occuparsi dei grandi privilegi elargiti dalla destra negli
ultimi trenta anni in tutto il mondo, bensì combattere i “piccoli”
privilegi tra alcune categorie di lavoratori.
{ Pubblicato il: 10.11.2012 }