paolo ercolani
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In ogni falso c’è qualcosa di autentico, come sanno bene i filosofi, ma anche gli esperti di arte che smascherano i falsi. Se non altro perché quasi sempre il falsario non resiste alla tentazione di inserire qualcosa di suo, all’interno del grande bluff approntato, magari anche soltanto un particolare impercettibile, dando vita inevitabilmente a qualcosa di autentico. Ma questo dato incontestabile comporta anche il contrario, con molte più ripercussioni sulla realtà quotidiana di tutti noi: in ogni verità è contenuto anche il falso, l’inautentico, ciò di cui faremmo bene a non fidarci anche se ci si presenta con l’espressione più innocente e convincente. Si tratta di una dialettica, quella tra vero e falso, sempre esistita e capace di intrufolarsi in moltissimi ambiti del mondo umano, ma che certamente ha trovato una forma di espressione compiuta in quella che Guy Debord chiamava «la società dello spettacolo». La società che ha raggiunto lo stadio del capitalismo avanzato (e della Politica con la maiuscola retrocessa a dato marginale, a fronte di un’economia che ha invaso e subordinato tutti i campi dell’umano agire e intendere), nell’ambito della quale si realizza quel «mondo capovolto» in cui «il vero è un momento del falso e il falso un momento del vero» (La société du spectacle, Gallimard, § 9).
Siamo in un ambito insidioso e tormentato, generalmente rimosso poiché in grado di far traballare tutto il grande impianto delle illusioni umane, di vulnerare in maniera sottile ma devastante l’apparente armonia delle nostre certezze: costruita su una raffigurazione netta e manichea del giusto opposto allo sbagliato, come del vero opposto al falso. Una terra di confine, glaciale e buia al tempo stesso, in cui può manifestarsi con una luce apparentemente artificiale (ma tragicamente autentica) quel grande nulla che sta dietro al grande tutto di un mondo che appare proprio mentre si nasconde.
Qui risiede forse il dramma più autentico e sofferto dell’uomo, che è homo religiosus proprio nel suo affannoso e mai soddisfatto raccogliere appigli stabili, luoghi confortanti in cui abitare circonfusi di realtà vere e indubitabili, di amori soprannaturali e immortali, ma anche di certezze terrene che invece ci sfuggono come sabbia tra le dita, che ci inondano di correnti gelide proprio mentre eravamo convinti di nuotare in acque tiepide.
Una condizione tragica ma seducente, oltremodo difficile da esprimere sotto la forma di concetti razionali, che forse richiede espressioni artistiche come la poesia, non a caso raffigurata da Heidegger come «casa dell’essere» (di cui i poeti sono i custodi). Oppure un film che, come già accaduto in queste pagine, risulta quanto mai efficace nel portare alla luce le zone d’ombra in cui non vogliamo accorgerci di sostare. Già, un film, un capolavoro come l’ultima fatica di Giuseppe Tornatore, «La migliore offerta», epitome della fiction o finzione per antonomasia, eppure in grado di parlarci della realtà molto meglio di quanto essa stessa non faccia con il suo semplice, e «reale», apparire ai nostri occhi nella sua nudità.
Se è vero che un film parla anzitutto alle emozioni, quello di Tornatore si rivela come un capolavoro anche perché formidabile nel dare da dire (e dare forma) alla mente dello spettatore. Un’opera intensa, che accende l’intelletto e richiede l’attenzione dell’intelligenza, perché costruita su più registri concettuali in grado di rappresentare la dialettica tra vero e falso, tra seduzione e repellenza, in ultima analisi tra amore e morte.
Il protagonista maschile vive nella finzione di un personaggio artefatto ed alieno dalla realtà come dal contatto sentimentale con le altre persone. Indossa costantemente dei guanti per non sporcarsi al contatto col reale, e non ama nessuna donna che non sia rappresentata su un quadro famoso e di valore.
Il paradosso, tragico, spiazzante, imprevisto, è che proprio quando questi incontrerà una donna misteriosa, di una bellezza fragile quanto fascinosa, anche lei apparentemente avulsa dal mondo e da ogni contatto col mondo esterno (rinchiusa in casa per agorafobia grave), donna di cui si innamorerà follemente pur non potendola vedere mai, separato da un muro che ricorda il virtuale dei rapporti in Rete (la virtualità è verità, è falsità, o è una terza dimensione ineffabile, che apre un campo infinito di possibilità tale da superare la realtà vera?), proprio quando si innamora di questa donna, dicevo, ad ella si svelerà e si aprirà come mai era riuscito a fare con nessuno, aprendole la verità del suo cuore e, così facendo, ponendo le condizioni per lo spezzarsi dello stesso.
In un gioco costante di specchi riflessi, dove appunto il vero è un momento del falso (il personaggio maschile fintamente duro e misantropo, ma anche quello femminile, che si rivelerà protagonista di una truffa clamorosa), e il falso un momento del vero (il nascondersi dei due, pur in maniera differente, è solo il preludio di un bisogno intenso di svelarsi alla persona giusta: nel caso di lui per riuscire finalmente ad amare, nel caso di lei per riuscire a truffarlo), Tornatore confeziona una pellicola che svela le gigantesche linee d’ombra di quelle che noi vorremmo vivere soltanto come luci: l’Amore, innanzitutto, che è anche, e forse inevitabilmente, strumento di potere, logica del dominio, viatico per una morte certa e dolorosa, perché da noi vissuto come investimento assoluto e totale verso qualcosa che invece è debole e mortale.
Di fatto un giallo, una lunga, sofisticata e magistrale costruzione del grande bluff in cui cade l’apparentemente inossidabile protagonista (e noi spettatori con lui), dove però a risultare colpevole non è tanto un personaggio in particolare (pur svelandosi, alla fine, i «colpevoli»), ma la natura umana nel suo complesso, raffigurata nella sua inesorabile, contraddittoria debolezza e malvagità, ma anche nella sua condizione di piccola barchetta costretta a navigare le acque buie e tempestose di un mare che la conduce dove vuole lui, che la innalza o la affonda a proprio piacimento, strumento di un dio burlone e crudele.
Molto di quello che non vogliamo, o non vorremmo vedere, è rappresentato in questo film crudo e drammatico, ma straordinariamente eloquente e distruttore di umane illusioni. Efficacissimo nello squarciare quel velo di ipocrita, e disperata finzione, con cui ci piace tanto occultare il profondo e radicale non-senso della nostra umanissima condizione. Che poi è lo stesso, se ci pensiamo con profondità, che consente alla «società dello spettacolo» e ai suoi protagonisti di mettere in scena ogni costruzione e imbroglio, di mescolare vero e falso secondo interessi superiori che sfuggono alla stragrande maggioranza dei più deboli. Quello che consente, a chi detiene il vero potere (economico, politico, religioso, tecnico), ma anche a chi è depositario di una qualunque forma di influenza nei nostri confronti, di ritagliarsi una forza propria dal più grande bisogno di cui siamo portatori: il bisogno d’amore.
{ Pubblicato il: 13.01.2013 }