Dal 1969 la voce del pensiero laico e liberale italiano e
della tradizione politica che difende e afferma le libertà, l'equità, i diritti, il conflitto.
"Critica liberale" segue il filo rosso che tiene assieme protagonisti come Giovanni Amendola e Benedetto Croce,
Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini ed Ernesto Rossi, Einaudi e il "Mondo" di Pannunzio, gli "azionisti" e Bobbio.
volume XXIV, n.232 estate 2017
territorio senza governo - l'agenda urbana che non c'è
INDICE
taccuino
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67. paolo bagnoli, la nostra preoccupazione
68. coordinamento democrazia costituzionale, appello alla mobilitazione per una legge elettorale conforme alla Costituzione
106. comitati unitari per il NO al “rosatellum”, l’imbroglio degli imbrogli
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territorio senza governo
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69. giovanni vetritto, l’italia del “non governo” locale
73. pierfranco pellizzetti, alla ricerca del civismo perduto
79. antonio calafati, le periferie delle metropoli italiane
84. paolo pileri, molta retorica, pochi fatti
86. giovanni vetritto, post-marxisti inutili
88. valerio pocar, primo comandamento: cementificare
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astrolabio
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89. riccardo mastrorillo, finanziare sì, ma come?
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GLI STATI UNITI D'EUROPA
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93. sarah lenderes-valenti, la risorsa più grande
94. luigi somma, le democrazie invisibili
97. claudio maretto, la discontinuità paga
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castigat ridendo mores
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100. elio rindone, basta con l’onestà!
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l'osservatore laico
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103. carla corsetti, il principio di laicità
107. gaetano salvemini, abolire il concordato
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terrorismo e religione
109. pierfranco pellizzetti, jihad combattuta alla john wayne
114. alessandro cavalli,quattro cerchi
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lo spaccio delle idee
117. gianmarco pondrano altavilla, cari liberisti, chi conosce un buon medium?
118. luca tedesco, savoia o borbone? lo storico è un apolide
«Passans, cette terre est libre» - Abbiamo scelto come logo la fotografia d'un autentico "Albero della Libertà" ancora vivente. È un olmo che fu piantato nel 1799 dai rivoluzionari della Repubblica Partenopea, Luigi Rossi e Gregorio Mattei, a Montepaone Superiore, paese dello Jonio catanzarese. La scritta 'passans ecc.' era qualche volta posta sotto gli "Alberi della Libertà" in Francia.
Mauro Barberis, Piero Bellini, Daniele Garrone, Sergio Lariccia, Pietro Rescigno, Gennaro Sasso, Carlo Augusto Viano, Gustavo Zagrebelsky.
* Hanno fatto parte del Comitato di Presidenza Onoraria: Norberto Bobbio (Presidente), Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Giancarlo Lunati, Italo Mereu, Federico Orlando, Claudio Pavone, Alessandro Pizzorusso, Stefano Rodotà, Paolo Sylos Labini. Ne ha fatto parte anche Alessandro Roncaglia, dal 9/2014 al 12/2016.
La sinistra italiana e la vittoria. A lungo questi due termini hanno indicato un ossimoro, salvo poi tradursi in una serie di vittorie di Pirro che hanno finito, per subordinazione culturale e meschinità politica, col favorire la controparte e il suo progetto di società. Perché una vera vittoria, l’unica realmente tale, è quella che concerne un’idea di convivenza rispetto ad un’altra. Si può, in casi eccezionali, tirare un sospiro di sollievo per aver fermato un progetto rovinoso avanzato dalla “concorrenza” ma, si badi, in questo caso si è già sulla difensiva e prima o poi, restando su questa linea, si finirà ineluttabilmente per perdere quello che si voleva, anche in buona fede, conservare. Si guardi al mondo di oggi, alle dinamiche quotidiane in esso in atto, e si valuti pure la tesi precedente. Infatti l’unica strategia che paga in politica è quella dell’attacco, un attacco che deve radicarsi innanzitutto attorno ad una stretta dialettica con il mondo della cultura che, in ultima istanza, è sempre decisivo. A riguardo la sinistra (non solo italiana) subisce da quasi trent’anni l’offensiva culturale del dirimpettaio, in parte sfavorita dagli effetti “atomizzanti” di una fase di espansione finanziaria che non ha avuto eguali nella storia del capitalismo. Sennonché, alla luce delle ormai prossime elezioni italiane, ci si trova, proprio a partire dal Belpaese, dinnanzi alla necessità di definire un potenziale indirizzo politico di governo che, per i rapporti di forza istauratisi al livello europeo, assumerà di certo, qualsiasi esso sia, un valore meta-nazionale. Questa scelta programmatica la gauche nostrana – e si intende qui rivolgersi alla sua forza maggiore, il Partito Democratico – non sembra averla ancora fatta. Quali sono le motivazioni dietro a questa vistosa assenza? In primis pesa l’esigenza di cercare fino all’ultimo voto al fine di vincere la partita elettorale; l’idea – comunque vada fallimentare - di tenere strumentalmente insieme, magari grazie a qualche artificio mediatico/contrastivo (contro Berlusconi, Grillo, ecc.), due anime politico/culturali diverse e sostanzialmente incompatibili ai fini di un’autentica inversione di tendenza che porti, progressivamente, dalla difesa all’attacco nell’ambito del moderno e più vasto confronto tra progetti di civiltà. La logica, apparentemente stringente, che vi sta dietro è quella dell’inamovibilità e “conservatività” del voto italiano. Si pensa che facendo l’equazione matematica tra le forze di centro sinistra (Sel e il grosso del Pd) e un’anima centrista (i renziani, ecc.) si possano conservare voti a sinistra senza perderne al centro. Gli elettori, quindi, voterebbero secondo delle appartenenze, quantitativamente misurabili ed elettoralmente addizionabili. Il ragionamento è svolto come se si votasse per compartimenti stagni senza avere la possibilità di convincere e di smuovere chicchessia o come se nessuno, alla luce delle mutate condizioni storiche, sia disponibile a cambiare idea o a provare una strada diversa (ivi compresa l’astensione). Non si sospetta che, in uno scenario caratterizzato da una forte crisi economica e sociale, si possa incidere fortemente solo presentando un programma “radicale”, ovvero che vada a toccare alla radice i problemi che angosciano e colpiscono i cittadini. Eppure molti sondaggi affermano l’esigenza da parte di numerosi elettori di decidere attorno a delle proposte concrete. Certo, per farlo, dovrebbero per lo meno riceverne. Nel mentre le altre forze politiche già cercano di spostare dei voti sulla base di un programma che, nelle reciproche differenze, appare a tutti ben chiaro. Berlusconi, Grillo, Ingroia e Monti si presentano con delle agende politiche precise che, di fatto, definiscono differenti prospettive sul futuro del Paese e della stessa Europa. Ma, nonostante tutto, nel turbinare della campagna elettorale il Pd continua a tacere o, peggio, a parlare con molteplici voci (che equivale a non esistere quale soggetto politico). Vi è, poi, un’altra ragione per questo babelico assordante silenzio. Infatti chiunque si troverà a governare dopo le elezioni avrà il problema di misurarsi con una linea europea, con decisioni prese al livello meta-nazionale. Si pensa, probabilmente, che il non dare una linea chiara consentirà al futuro Presidente del Consiglio di giostrarsi con più flessibilità all’interno dell’area europea e nazionale, avendo quindi la possibilità di tenere eventualmente a bada, nel parlamento che sarà, una componente “gauchiste” riottosa agli indirizzi di Bruxelles tramite un eventuale appoggio al centro che già in questo periodo, a bocce ferme, viene seriamente preso in considerazione come spalla di governo anche in caso di una netta vittoria dell’asse Pd-Sel.
La necessità di una linea comune europea
Si tratterebbe, qualora così fosse, dell’ennesimo suicidio “al governo” di una sinistra incapace di progettare il futuro, che si ritroverebbe costantemente e riottosamente divisa a implementare, a sue spese, una linea liberal-conservatrice. Il tutto nella totale assenza di un indirizzo politico/culturale proprio da far passare in Europa. Cosa gravissima. Non è, infatti, possibile nel 2013 per un partito che aspiri al governo di un paese Ue non avere una chiara e dettagliata linea europea. Perché è solo a tale livello che si possono mettere le premesse per un autentico riscatto, per andare a fondo a “vincere” la sfida del prossimo ciclo politico trentennale. E le elezioni italiane, lungi dall’essere mere elezioni nazionali, avranno, in ogni caso, una forte ricaduta europea. Saranno un messaggio per l’Europa che verrà. In questa fase Bersani non farebbe, quindi, bene ad avanzare una proposta che vada ben oltre i confini patrii, cercando una sponda nel Pse e nelle sue singole componenti nazionali? Non sarebbe meglio passare all’attacco sul terreno europeo (piuttosto che subirlo come convitato di pietra) sostenendo, come fece a suo tempo Hollande, che in caso di vittoria della sinistra si aprirà una nuova fase per l’intera Unione, caratterizzata da una svolta economica e politica? Il Pd non potrebbe stendere un programma minimo comune con gli altri partiti socialisti europei da portare avanti insieme in Europa e all’interno dei singoli quadri nazionali ? A riguardo si ritiene che un’azione in questo senso potrebbe finire per avere effetto anche sul contesto tedesco dove, tra poco, si terranno le elezioni federali che saranno, con quelle italiane, decisive per determinare il nuovo assetto politico europeo. Un asse con Steinbrück potrebbe rafforzarlo e contribuire ad una svolta politica complessiva sul piano dei rapporti di forza su tutto il vecchio continente. D’altronde è evidente che in varie parti dell’Europa si stia manifestando l’esigenza di un’agenda di governo europea capace di andare oltre le politiche di rigore degli ultimi anni.
Il Socialismo liberale come riferimento ideale
Ciò detto, si consideri come un progetto europeo di tal fatta avrebbe bisogno di un indirizzo ideale che - ci si permette di suggerire - potrebbe essere promosso, qualora si imponesse alle urne, proprio a partire dalle elezioni italiane. Si è infatti manifestata, anche grazie alla crisi economica, in maniera sempre più forte l’esigenza di rispondere simultaneamente a due istanze: in primis all’imperativo di una giustizia sociale capace di ricomporre materialmente ed eticamente un tessuto civile sempre più frazionato e anomico e, in secundis, alla necessaria riaffermazione della libertà e della dignità del soggetto quale forma suprema della civiltà europea, fortemente minacciata dal progressivo erodersi della democrazia e dall’affermazione di una logica del dominio oligarchico che fa strame dello stato di diritto e di ogni forma di convivenza fondata sull’idea della necessaria valorizzazione della persona umana. Una risposta a questi punti si può dare riannodando i fili con una nobile tradizione di pensiero, spesso travisata, che si potrebbe definire come “socialismo liberale”. Quest’ultimo, come ha ben dimostrato Serge Audier1, non ha nulla a che vedere con la terza via di Giddens, la quale, nonostante le buone intenzioni, si è tradotta sul piano propositivo e politico in una sorta di “liberismo solidale” a forte trazione centrista. Differentemente il socialismo liberale nasce come integrazione “in fieri” tra tre tradizioni politiche : quella del liberalismo politico – protezione della libertà individuale, tolleranza, distinzione tra società civile e Stato, ruolo del mercato, ecc. – quella del repubblicanesimo – ricerca del bene comune, ruolo chiave del civismo, complementarietà tra libertà e eguaglianza, ecc. – e quella del socialismo – esigenza di superare o almeno di regolare collettivamente il capitalismo a partire da un ideale di giustizia. A queste tre matrici si è affiancata, nel corso del Novecento, la riflessione dei federalisti europei che ha fornito al socialismo liberale gli strumenti istituzionali per vivere nel nuovo contesto del mondo globalizzato. Ciò detto è bene evidenziare come la finalità comune, in grado di far interagire costruttivamente tali indirizzi, risiede nella promozione della fioritura relazionale di ogni singolo, del pieno dispiegarsi della sua personalità all’interno di un progetto di convivenza comune ricorsivamente fondato sulla valorizzazione delle sue parti (comunitarie e individuali). La prospettiva che ne emerge è, anche alla luce delle istanze pressanti della nostra temperie, in grado di restituire una fonte comune alla sinistra europea facendone rivivere le matrici ideali “a la altura de los tiempos”, per dirla con Ortega y Gasset.
Le differenze rispetto a Monti
Come tradurre tutto questo in un programma politico? A riguardo può essere utile svolgere un confronto con le posizioni di Monti che, presentando un mix di liberalismo e dottrina sociale di ispirazione cattolica, si prestano molto bene ad una non strumentale definizione per differenziazione. Si vada prima agli elementi di fondo : 1) Europa, 2) Politica economica 3) Modello sociale.
Punto primo, l’Europa : Mario Monti è un convinto sostenitore dell’integrazione europea e appoggia in prima persona una serie di riforme del quadro istituzionale Ue, volte ad introdurre maggiori elementi di democraticità nel complesso del sistema politico europeo, da cui il titolo del suo ultimo libro, dagli echi tocquevilliani, “La democrazia in Europa”2. Sennonché si rifiuta di pronunciarsi direttamente a favore di un’Unione federale europea (ovvero, formula classica ma meno pertinente, degli Stati Uniti d’Europa) ritenendolo un obiettivo da porsi in un non meglio precisato futuro. Vari elementi della sua proposta – ivi compresa l’idea di dare un “mandato costituzionale” al nuovo parlamento europeo – sembrano condurre lo stesso in questa direzione che, tuttavia, resta segnata dal motto “larvatus prodeo”. Di contra la posizione della sinistra europea dovrebbe essere apertamente a favore di una federazione europea e spingere affinché tale innovazione avvenga il più velocemente possibile secondo un percorso apertamente democratico e un vasto dibattito pubblico. L’Ue non può più permettersi di andare avanti con una “democrazia dimidiata” e a Monti bisogna chiaramente dire che le, pur utilissime, riforme del quadro istituzionale Ue non avranno alcun effetto democratico di fondo fino a quando non si creerà una sovranità dei cittadini europei, da esercitare secondo i dettami di una costituzione federale, che sostituirà la sovranità dei singoli stati nazionali. Qui, probabilmente, vi è una differenza sostanziale riguardo al modo di intendere la democrazia : per Monti e per un certo liberalismo la democrazia consiste nel controllare, tramite il popolo, il potere, nel poter esercitare un discorso di “accountability” degli eletti e nel garantire a questi ultimi il potere di avanzare delle proposte legislative. Tale scenario, pur necessario e irrinunciabile, garantisce solo una democrazia incompiuta. Il cuore della democrazia dei moderni è dato dalla sovranità della cittadinanza, del corpo dei cittadini, e, nella misura in cui una parte di quest’ultimo potrà, opponendo un veto sovrano, far fallire una politica comune (es. la politica estera) non vi sarà alcuna democrazia in Europa. Non si tratta si badi della benedetta logica della maggioranza e dell’opposizione, ma proprio del suo contrario. La sovranità nazionale impedisce che si attui al livello europeo, sulle questioni da risolvere in comune, proprio tale logica sostenendo che non è possibile dare un parere di maggioranza o di minoranza vincolante in quanto, in ultima istanza, è possibile per uno Stato ignorare e far fallire le disposizioni comuni (pur se adottate in un quadro in cui sono garantiti giuridicamente i diritti delle minoranze) nella misura in cui esso resta sovrano. Né basta, in merito un semplice trasferimento dell’esercizio di una potestà sovrana. Infatti un sovrano - come chiosava lo stesso Hobbes - può trasferire l’esercizio di vari poteri (tra cui quello sulla moneta) ma non potrà mai rinunciare, pena la fine della sua stessa sovranità al potere sugli eserciti e a quello sulle finanze pubbliche3. Come hanno ben spiegato due sentenze del Bundesverfassungsgericht gli Stati, fermo restando l’attuale assetto sovrano, si opporranno ad ogni concessione in tali ambiti dichiarandola incostituzionale4. Peccato che all’Europa, in un mondo globalizzato, serva proprio deliberare “con una bocca sola” su queste due questioni. L’unica strada democratica che resta è, quindi, quella della costituzione federale e della fine delle sovranità nazionali (che non coincide affatto con la fine tout court della sovranità). Da qui il necessario impegno del Pd nel porre come primo punto di un comune programma della sinistra europea la creazione, per via democratica, di una federazione europea tramite un percorso che veda nel 2014 l’anno della svolta costituente. Bisogna muoversi immediatamente in tal senso altrimenti, con una crisi economica che non accenna a finire (ne lo potrebbe facilmente visto l’attuale quadro politico/istituzionale dell’Unione), non si avrà l’Europa che sogna Monti, bensì una crescita simultanea di nazionalismi e populismi che potrebbero creare seri problemi all’esistenza della casa comune europea.
Punto secondo, Politica economica: in merito alla Politica economica di sostanziale austerity promossa da Monti in Italia e in Europa bisogna dire che, innanzitutto, ha mancato nel suo obiettivo fondamentale, ovvero nella creazione di un sistema efficace, tipo “eurobond”, di gestione in comune del debito europeo. Il meccanismo europeo di stabilità, pur necessario ma non sufficiente, e il percorso messo in moto dal “fiscal compact” non sembrano a riguardo garantire non solo una base su cui fondare la ripresa economica dell’Eurozona, ma neanche la stabilità dei singoli paesi al suo interno. Alla luce della mancata risoluzione della crisi economica europea era dunque difficile intervenire con successo in Italia, dove qualcosa – e deve essere riconosciuto – è stata pur fatta dall’ultimo governo. I risultati positivi sono stati due: il rifinanziamento del debito italiano (che non sembrava affatto garantito con il governo Berlusconi) e la discesa dello spread e con esso la diminuzione momentanea di buona parte degli attacchi speculativi al nostro Paese. Differentemente, come è stato spiegato da Pier Giorgio Gawronski5, il governo ha sostanzialmente fallito nel tentativo di realizzare tutti gli altri obiettivi economici che si era dato per le scadenze segnalate da sè medesimo. Non solo l’economia italiana non è ripartita ma è entrata in una spirale di stagflazione (recessione + inflazione) che sembra estendersi a perdita d’occhio. Bisogna attentamente valutare a riguardo le mosse del governo Monti che fin dal decreto “Salvaitalia” non si è affatto limitato a rastrellare fondi per garantire la stabilità finanziaria del Paese, ma ha spostato ingenti risorse, tramite ACE e Irap lavoro, dalle famiglie alle imprese (o meglio alle società di capitali) diminuendo le tasse su queste ultime per renderle più competitive per l’esportazione. Seguendo quanto è stato argomentato in un’audizione presso il Senato da Giuseppe Vitaletti6, è possibile evidenziare come queste misure - che, di fatto, si ispirano ad una politica economica attuata in tutt’altre condizioni dalla Germania della cancelliera Merkel - finiscano per impattare pesantemente sulla domanda italiana sul fronte dei consumi finendo per non compensare, in termini di crescita, i pur ragguardevoli successi raggiunti sul piano delle esportazioni. Questa strategia, com’era stato previsto da vari studiosi, non sta pagando e non sembra garantire alcuna prospettiva di crescita, almeno nel medio periodo. Ma nel lungo periodo, come diceva Keynes, siamo tutti morti. L’alternativa a questo, è bene dirlo subito non può essere quella, fallimentare, del “keynesismo in un solo paese” con cui nel 2013 si rischia solo di compromettere definitivamente la propria tenuta finanziaria. Molto meglio sarebbe, al fine di riattivare una domanda che sembra in forte crisi in buona parte dell’Europa, un “piano europeo di sviluppo sostenibile” per una spesa complessiva di 300/500 miliardi di euro da erogare in tre/cinque anni secondo quanto previsto da Alfonso Iozzo su un interessante paper del Centro Studi sul Federalismo7. La sinistra europea dovrebbe mobilitarsi in modo da garantire la necessaria azione politica di supporto capace di promuovere l’implementazione di quel piano. Ciò detto si consideri come la svolta europea è necessaria, ma non sufficiente, per cambiare la situazione in Italia. Per quanto riguarda specificamente la situazione italiana, si dovrebbe riequilibrare la tassazione secondo una logica dell’eguaglianza (e non dell’equità) introducendo, ad esempio, un aliquota Irpef ad hoc per i redditi superiori ai 200.000 euro l’anno e riequilibrando l’ Imu tramite l’applicazione sulla stessa dell’Isee (indicatore della situazione economica equivalente). Si dovrebbe, altresì, promuovere un’azione volta a contribuire al rilancio dei consumi da affiancare alla più vasta e incisiva iniziativa europea. In merito a quest’ultimo punto, si cercherà di fornire qualche ulteriore proposta nelle prossime pagine, quando si passerà ad elencare alcuni elementi per una futura agenda di governo.
Punto terzo, modello sociale: Il modello sociale promosso da Monti è chiaramente influenzato, nella sua logica e nel suo lessico, dall’approccio solidaristico della Chiesa cattolica, unito ad una spruzzata di politically correct liberale. Si prenda, ad esempio, l’utilizzo del termine “equità”, problematizzato da pochi e affatto pacifico e “neutro” come apparentemente sembrerebbe. Lo si veda a confronto con il concetto di “eguaglianza”, tipico della tradizione socialista. Come era già capitato di sostenere a chi scrive se quest’ultimo, “oltre ad avere una portata etica, comporta la possibile trasformazione della società secondo un modello considerato dai suoi stessi membri come giusto o semplicemente migliore”, il primo, invece “implica esclusivamente una prospettiva economico-distributiva che non tocca in alcun modo il funzionamento e la logica immanente alla società stessa. Inoltre, mentre l’equità è un tentativo di bilanciare o considerare delle situazioni particolari proprie a gruppi o a individui, l’eguaglianza è una modalità sistemica- che comporta diritti e responsabilità – comprendente l’universalità di una comunità. Non è un caso che con l’equità si definisse l’idea di giustizia classica e medievale, ovvero di un mondo immodificabile dall’uomo, in cui si poteva solo intervenire bilanciando delle situazioni particolari all’interno di un quadro dato. Al contrario con l’eguaglianza si entra in una prospettiva moderna in cui l’uomo modifica volontariamente il proprio mondo sociale”. Ciò detto risulta chiaro come una sinistra ispirata dal socialismo liberale possa dare vita esclusivamente ad un modello sociale ispirato alla logica dell’eguaglianza e non a quella dell’equità che assume, nel suo fondo, impossibilità di modificare la condizione sociale di partenza del singolo riducendo l’intervento sociale alla sola possibilità di alleviarne il dolore secondo un’impronta caritatevole e “solidaristica”, che è d’ispirazione tipicamente cristiana. Basti, tra l’altro, scorrere l’agenda Monti per vedere come essa abbia il suo fulcro sociale nell’aiuto ai “non-autosufficienti”, nel volontariato e nella famiglia (a riguardo della quale, tra l’altro, mancano proposte concrete). Nulla di male, per carità, ma si tratta di una prospettiva insufficiente a muovere verso un’idea di giustizia sociale (si prospetta lo studio e non l’introduzione di un reddito di sostentamento minimo…come se mancassero le proposte a riguardo). Il punto principale di un programma sociale non può essere quello di ricevere degli aiuti per sopravvivere o per alleviare delle sofferenze, sostenendo inoltre (e questo, invece, al di fuori di qualsiasi ottica cristiana) la necessità di proteggere la persona come “primo capitale”. Si tratta di realizzare un modello sociale in cui il capitale abbia un’utilità per la persona e non viceversa, in cui solo l’economia sia “di mercato”, ma non la società. Di nuovo già nel lessico si vede quanto le due prospettive non vadano ad incontrarsi. La persona non va solo protetta, va valorizzata, va fatta “fiorire”, secondo una bella espressione di Carlo Galli. L’obiettivo principale, per una sinistra a vocazione europea, è quello di garantire universalmente alla persona i mezzi e le opportunità tramite cui realizzare la sua individualità (che è sempre un esito e non un dato). Si tratta di un’idea di giustizia, di un necessario dover essere, non di una concessione pietistica, caritatevole o solidaristica; il che significa agire sul piano degli ammortizzatori sociali andando, ad esempio, nel senso della proposta contenuta nel libro di Giuseppe Bronzini sul “reddito di cittadinanza”8. Ciò comporta l’ aumento della quota di Pil europeo e italiano destinato all’istruzione, alla cultura e alla ricerca, perché senza cultura non vi è alcuno sviluppo della persona. La stessa prevenzione di numerose problematiche sociali e individuali passa dal miglioramento dell’istruzione. Si deve, sulla stessa scia, considerare come primo punto di ogni agenda sulla sicurezza, a partire dal livello locale, un piano per la “sicurezza sociale” contenente un elenco di servizi da fornire a tutta la cittadinanza, con costi progressivi a seconda del reddito, ivi comprese quelle categorie disagiate (una parte delle quali citate dallo stesso Monti) che vengono marginalizzate e uccise dall’attuale, si perdoni la battuta, “tessuto asociale”. Si tratta di pensare ad una politica del lavoro che preveda da parte del lavoratore, anche con mezzi nuovi, la possibilità di resistere alle pressioni del datore di lavoro in modo da creare una società dove non si sia costretti a vendersi come schiavi per sopravvivere e dove si possa applicare una “flessibilità dal basso”, ovvero in cui sia il lavoratore a scegliere, di sua spontanea volontà, se e come cambiare lavoro al fine di migliorare professionalmente e di perfezionare il suo contributo allo sviluppo della società. D’altronde si deve fornire al datore di lavoro un quadro di servizi e di garanzie che gli consentano di investire e di restare sul mercato senza, ad esempio, essere gravato da un eccessivo costo del lavoro, dalla mancanza di accesso al credito o da un’immensa mole di pratiche burocratiche dalla lenta, costosa e difficile evasione. In ogni caso, si comprenda come precarizzare il lavoro e flessibilizzarlo incondizionatamente sia la strada principale verso una “società di mercato” in cui non esiste la dignità personale, in cui viene meno l’interesse generale e in cui la disgrazia dei singoli va ben oltre l’essere costretti a vendersi : i componenti di essa, infatti lottano tra di loro per poter avere accesso alla schiavitù e per uscire così dalla vuotezza misera della loro esistenza quotidiana. Tale forma di convivenza tragicamente paradossale sarebbe solo l’ennesima e terribile edizione di una società gerarchica e oligarchica che nega alla radice ogni libertà personale. E’ questa forma di barbarie, sempre più presente nel mondo contemporaneo, il primo nemico della sinistra europea.
I Sì e i No. Elementi per un’agenda di governo.
Concludendo non ci si esimerà dall’avanzare qualche proposta specifica da inserire nell’agenda del futuro governo italiano ispirandosi alla prospettiva di cui sopra. Per segnalarla si adotterà il sistema tanto caro alla stampa e al circuito mediatico dei “sì” e dei “no”. Si tratta di una procedura banalizzante e schematica, ma pur sempre utile a fissare in poco spazio dei singoli punti significativi, su cui si potrebbe trovare a lavorare una sinistra di governo nei prossimi anni. E’ bene precisare subito che dirsi riformisti non significa assolutamente niente fino a quando non si specifica in che senso lo si è e su quali proposte. Tutti sono per promuovere delle riforme, il vero problema che si pone è quali riforme portare avanti e secondo quale ordine di priorità. In merito, bisogna chiarire subito che il punto primo di qualsiasi agenda a venire per la sua assoluta rilevanza sul futuro del modello di convivenza democratica è quello dell’avvio di un percorso democratico, che porti alla federazione europea senza la quale non si riuscirà a determinare alcuna inversione complessiva di tendenza rispetto alla crisi di civiltà che stiamo da tempo vivendo. Lo stesso valga per la politica complessiva portata avanti dal prossimo governo che dovrà, necessariamente, essere coordinata con una strategia più vasta concernente l’intera Ue. Premesso questo, si passi a qualche proposta da realizzare a partire dal contesto italiano.
I Sì: 1) Sì al programma di 8 punti pregiudiziali fissato da “Critica Liberale” per cercare di venire fuori dalla peculiare emergenza democratica italiana9; 2) Sì ad una riforma del titolo V della Costituzione senza la quale non sarà possibile arginare lo sperpero del denaro pubblico pericolosamente incrementatosi negli ultimi anni. In merito sarà bene che la sinistra faccia un doveroso “mea culpa” per l’ibrido istituzionale creato con la sua riforma del 2001, procedendo a delineare una forma coerente di Stato che vada nel senso di una compiuta federazione infra-nazionale (nella quale sarebbe sensata l’adozione di una “clausola di superiorità” del livello nazionale) o di un coerente Stato unitario decentralizzato. Tra i due, per quella che è stata la recente storia italiana segnata dalla crescita della corruzione e del rapporto politica-criminalità organizzata proprio al livello regionale, sarebbe meglio optare per uno Stato unitario decentralizzato, ovvero in uno Stato che lasci nelle mani del potere centrale la possibilità di intervenire sulle competenze delle regioni. In ogni caso solo in questo modo, ovvero modificando il titolo V, sarà possibile procedere alla definitiva abolizione delle province e alla razionalizzazione della governante periferica e della spesa ad essa connessa; 3) Posto che ogni sistema elettorale ha il suo difetto e che il sistema elettorale va concepito come un elemento di un sistema politico determinato storicamente, senza attribuirgli di per sé una funzione taumaturgica, Sì ad una riforma elettorale nel solco del modello spagnolo, ovvero un proporzionale dotato di circoscrizioni molto piccole di tipo infra-regionale con uno sbarramento al 3% al fine di aumentare la stabilità dei governi, pur conservando degli elementi di rappresentanza proporzionale fondati sul territorio, cosa necessaria per un Paese culturalmente e socialmente diversificato come l’Italia. A riguardo, sarebbe inoltre bene introdurre il sistema delle preferenze in modo da mettere fine all’attuale scandalo dei nominati via “porcellum”. Tale sistema potrebbe funzionare meglio se combinato all’introduzione, via statuto pubblico dei partiti, di “parlamentarie” obbligatorie per ogni partito politico; 4) Sì all’istituzione di un “reddito minimo di cittadinanza” in Italia pensato all’interno di una strategia europea per la sicurezza sociale; 5) Sì al varo di un “pacchetto crescita” che preveda, simultaneamente, liberalizzazioni (es. professioni, energia, telecomunicazioni, poste, assicurazioni, parte dei servizi locali), legalizzazioni (droghe leggere e prostituzione), semplificazioni (riduzione dei livelli burocratici e massimizzazione della trasparenza), riorganizzazione e potenziamento del sistema dei controlli (fiscali, sanitari e così via), una strategia per determinare l’aumento della quota di Pil da assegnare alla ricerca (da portare al 3%), taglio delle accise sulla benzina, taglio dell’Iva e un’ulteriore diminuzione del costo del lavoro per le imprese legata a degli incentivi e a dei disincentivi (premio per chi assumerà a tempo indeterminato e penalizzazione per chi non lo farà); 6) Sì a una riorganizzazione della spesa pubblica con una progressiva redistribuzione dei fondi pubblici, attualmente assegnati ai privati, alle strutture pubbliche (ospedali, università, scuole ecc.). A tale redistribuzione bisognerà far seguire anche una progressiva riduzione e razionalizzazione delle esternalizzazioni relative ai servizi e alle attività della pubblica amministrazione. Si dovrà, poi, procedere a collegare strettamente il costo del servizio pubblico per il cittadino al modello Isee. Il fine è quello di far sì che le strutture pubbliche siano rimesse in condizione di garantire un servizio pubblico di portata universale dai costi progressivi a seconda della fascia di reddito d’appartenenza; 7) Modifica dell’Imu da armonizzare, come già si è detto, con l’Isee e da estendere a quei soggetti che attualmente nelle loro attività commerciali ne risultano di fatto esentati a causa della loro generica “funzione sociale” (ad esempio la Chiesa cattolica); 8) Sì al prelievo di un contributo “speciale” sui redditi superiori ai 200.000 euro l’anno (si potrebbe, ad esempio, introdurre un’aliquota Irpef ad hoc); 9) Sì alla cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia e per gli immigrati regolari che dimostreranno di essersi integrati 10) Sì ad una riforma della giustizia che riduca i tempi della stessa agli standard degni di un paese europeo rispettoso dei diritti dell’uomo. Tale riforma avrebbe un importantissimo impatto sull’economia del Paese, ben superiore ad ogni altro intervento concernente la flessibilizzazione del lavoro.
Dopo aver detto dieci Sì ci si potrà permettere anche qualche No: 1) No alla riforma del titolo I della Costituzione, che resta ad oggi un faro di civiltà e di lungimiranza. Tale titolo potrà essere “superato”, nel senso dell’Aufhebung hegeliana, solo grazie alla nascita di una Costituzione federale europea; 2) No ad ogni possibile concentrazione di incarichi dirigenziali - tra pubblico e privato o all’interno delle rispettive sfere - su un unico soggetto. Si tratta di un sistema che alimenta le inefficienze e la corruzione in tutti i settori; 3) No alla logica del creare “business” ad ogni costo. In questo modo si sono alimentate tutte le mafie e le corporazioni italiane sino ad oggi causando danni per milioni e milioni di euro. In proposito sembra fondamentale alimentare un’economia sostenibile e fortemente rispettosa del sistema ecologico e costituzionale del Paese; 4) No alla retorica dei diritti contro l’economia. Se il sistema dei diritti può essere modernizzato è pur vero che sono ben altre le ragioni al fondo della crisi economica italiana fortemente connessa ad un capitalismo corporativo, chiuso in se stesso e scarsamente propenso a investire. La mancanza di investimenti in Italia. infatti, ha alla radice non tanto l’impossibilità di licenziare, quanto la lentezza della risoluzione dei problemi giuridici e burocratici connessa alla mancata riforma della giustizia, una diffusa corruzione, la pochezza e l’irresponsabilità di una classe dirigente spesso incapace di promuovere un tessuto industriale e sociale competitivo e così via ; 5) No ad un aumento delle spese in ambito militare. Si tratta di un capitolo di spesa da trasferire al più presto al livello europeo; 6) No alle grandi opere inutili (es, il ponte sullo stretto di Messina) e Sì alla manutenzione, alla connessione e alla modernizzazione delle infrastrutture esistenti; 7) No all’aumento delle forme di precariato, che si traducono rapidamente, più che in opportunità per il soggetto, in un sistema di dominio dalle pesanti ricadute democratiche; 8) No ad un ulteriore tassa sui beni immobili – la cosiddetta patrimoniale (esiste già l’Imu che si può modificare secondo quanto si è già scritto).
Un invito conclusivo
Nonostante la sua voluta ambiguità sul piano programmatico, l’alleanza Pd-Sel potrà forse imporsi egualmente al governo grazie alla debolezza e all’arroganza dei suoi avversari. Di certo, se essa non darà subito vita a un programma e ad un’azione di “sinistra” strategicamente fondata sul livello europeo, non avrà lunga fortuna al governo né – e questo è molto più importante - un impatto positivo sulla crisi italiana ed europea. Si verificherebbe, così, l’ennesima vittoria di Pirro : senza invertire la rotta ci si ritroverà presto peggio di prima con una compagine divisa e degli avversari sempre più forti e legittimati. A riguardo non bisogna farsi illusioni: l’idea di ridurre la società ad un mercato o a una comunità chiusa, gerarchica e etnicamente “pura” non morirà dinnanzi a una proposta politica debole e intrisa di subalternità culturale. Infatti la rotta, se si vuole virare sul serio, deve essere presa con una bussola ideale, con un modello di società alternativo da portare avanti su una scala ben più vasta di quella italiana. L’unica possibile vittoria degna di tale nome passa dalla strettissima cruna costituita da quest’ultimo punto ovvero dalla sfida in esso racchiusa. Si spera che una nuova classe dirigente sappia farsene coerentemente e coraggiosamente carico.