paolo ercolani
Nessun commentoVelocità, superficialità, quantità. Gli studiosi dei nuovi media concordano sul fatto che queste tre sono le stelle polari della metodologia con cui si produce, si diffonde e si recepisce l’informazione.
Non soltanto il pc, ma anche gli smart phone, l’ i-pad e la tecnologia wireless in genere ci consentono di ricevere tutte le informazioni che vogliamo in tempo reale, in presa diretta, mentre stiamo siamo a un incontro pubblico, oppure stiamo gustando un caffè o magari stiamo eseguendo la nostra ora di jogging.
L’informazione è certamente più veloce, perché un tempo bisognava aspettare l’ora del telegiornale, o la mattina successiva per comprare il quotidiano. Mentre oggi ci è data in tempo reale. Ma è anche più superficiale, perché gli articoli dei media digitali sono (devono essere!) più brevi, limitarsi al «sodo» della notizia, privi di eventuali schede o commenti di approfondimento.
Immancabilmente vengono corredati da fotografie o filmati, possibilmente accattivanti, capaci di «acchiappare» l’attenzione dell’utente e spingerlo a cliccare su questo o quell’altro link.
Ognuno può fare la prova: provate a comprare uno dei tre principali quotidiani politici italiani e poi confrontate la versione cartacea con quella digitale. La povertà di contenuti scritti di quest’ultima, e spesso anche di linguaggio e di apparati capaci di fornire approfondimenti al lettore, risalterà facilmente anche a un occhio poco attento.
Ma quello su cui voglio soffermarmi in questa sede, brevemente (del resto siamo su un sito, no?!), è il terzo aspetto fondante dei nuovi media: la quantità. Ovvero quella logica quantitativa che costituisce il vero nerbo ideologico sottostante al sistema dei nuovi media.
Quella per la quale è importante quante informazioni riusciamo a ottenere, raccogliere e catalogare ma non ciò che sappiamo veramente. Logica che ci porta a, o ci illude di, essere informati su quasi tutto senza di fatto conoscere quasi nulla. O comunque, questo è spesso il rischio, senza di fatto conoscere quasi nulla in maniera che non sia soltanto veloce e superficiale, appunto.
Un esempio lampante di come questa logica della quantità, comunque insita nella natura umana, abbia di fatto preso il sopravvento nella nostra epoca della società in rete, è dato dai risultati delle recenti elezioni amministrative. Certamente la democrazia elettorale è fondata sui numeri, certamente il criterio della maggioranza e minoranza presuppone la logica numerica e, del resto, chi vince in democrazia è anzitutto chi ha trionfato sul piano dei numeri.
Ora, senza voler ricordare che Hitler era salito al potere democraticamente, vincendo cioè la battaglia aritmetica, qualche elemento di pacata riflessione possiamo pure concedercela su una rivista liberale.
Per l’ennesima volta si è parlato di fine di Berlusconi, di vento nuovo, di un Paese che sta cambiando la direzione dei propri gusti. Il tutto sulla base dei numeri: a Milano ha preso più voti il candidato dell’opposizione, così a Bologna e Torino e anche a Napoli l’exploit di De Magistris vorrà pur dire qualcosa. Più in generale: il Pd e i partiti del centro-sinistra sembrano guadagnare in termini numerici, mentre Pdl e Lega lasciano molti voti sul campo. A volersi fermare qui e leggendo questi dati succinti e in maniera acritica come spesso li troviamo sui nuovi media, potremmo tranquillamente accodarci a quanto affermato dal segretario del Pd Pierluigi Bersani: «Vinciamo noi, perdono loro!».
Ma se ci impegniamo brevemente su una riflessione critica che vada contro quelle semplificazioni favorite dall’informazione, saltano subito all’occhio alcuni aspetti che meriterebbero maggiore attenzione: a Milano sembra vincere un candidato che il Pd non voleva e ha osteggiato in tutti i modi. A Torino il Pd trionfa beneficiando dell’eredità di Chiamparino, elemento assai osteggiato all’interno del partito. A Bologna «la rossa» si supera di pochissimo il 50% e comunque il Pd vede una flessione. A Napoli il Pd tracolla in seguito a una serie di amministrazioni locali disastrose e allo spettacolo indegno delle primarie ritirate (per poi imporre un degnissimo candidato dall’alto, punito dagli elettori).
Ma andiamo ancora più in profondità: continua a mancare una visione condivisa all’interno della vasta area del centro-sinistra, quello che una volta si sarebbe chiamato un manifesto programmatico, una lista di ideali e valori condivisi. Un programma. Per non parlare del leader. Oggi sono tutti bravi, anche i cattolici del Pd, ad appoggiare il «comunista» Pisapia, così come fa buon viso il Pd a far finta di provare a vincere con De Magistris.
Ma al di fuori della logica dei numeri e di una superficiale e contingente unanimità di vedute, è bene sapere che i nodi torneranno al pettine. Che toccherà mettere d’accordo ex comunisti ed ex democristiani, che bisognerà lanciare i giovani sulla base di un programma e di valori veramente condivisi e che diano una nuova speranza al popolo che non si riconosce (più?) in Berlusconi.
Perché dire oggi, per l’ennesima volta e ammesso che sia vero, che Berlusconi è finito significa dimenticare che questo signore improponibile e tutta la sua cricca di corifei beneficiati dall’Unto hanno governato per quasi un ventennio. E certamente non significa avere pronta un’azione di governo davvero alternativa e in grado di riformare questo Paese allo stremo!
{ Pubblicato il: 19.05.2011 }