[4] La sensazione è quella che il popolo, sempre di più, si trova a recitare il ruolo di Belluca nella novella di Luigi Pirandello «Il treno ha fischiato».
Belluca è un uomo debole e dimesso, sfruttato nel luogo di lavoro e subordinato dentro le mura domestiche. Sempre pronto a lasciarsi soggiogare, mansueto fino a provocare fastidio nel lettore partecipe, un bel giorno sente appunto il fischio del treno. Apparentemente un evento normale, un dettaglio, uno di quei tanti suoni che accompagnano la nostra vita senza che ormai ci facciamo più caso.
Eppure, stavolta, è proprio quell’evento insignificante e accessorio a sconvolgere l’indefessa mansuetudine di Belluca. Il suo apparente ordine interiore subisce un trauma, lo scorrere pacifico della propria vita di uomo sottomesso vede un’interruzione decisiva. Di quelle che i giornalisti descrivono con la nota espressione «nulla sarebbe stato più come prima». E’ bastato anche solo un innocuo fischiare del treno perché un uomo controllato fino al midollo scoprisse una propria forma di follia. Di quelle che forse abbiamo tutti, in chissà quale angolo riposto della nostra coscienza, in attesa di chissà quale suono detonante.
Il fatto curioso è che Belluca, nel suo «deragliare», non muta in maniera sostanziale il proprio vivere. O meglio, il proprio esistere. Continuerà ad essere sottomesso e mansueto, a porgere sempre l’altra guancia e lasciarsi sfruttare dal prossimo.
La sua grande rivoluzione, peraltro non consapevolmente voluta e conquistata, consiste soltanto nel fatto che ogni tanto, quando meno uno se lo aspetta, Belluca comincia a uscir fuori con monologhi senza senso e sconnessi. Eccola lì, la sua grande conquista: una vacanza della mente, un leggero scostamento rispetto allo scorrere della normalità. Ma innocuo. Ancora una volta e come sempre innocuo.
Belluca rimane sottomesso e in balìa della volontà altrui, potendo però concedersi, dopo il fischio del treno, un’innocua vacanza della mente che lascerà le cose esattamente come prima.
Come non pensare alla condizione sempre più triste in cui è piombato il popolo italiano, martoriato su tutti i fronti ma incredibilmente incapace di reagire se non con vacanze della mente, ispirate alla demagogia, al populismo, al favoleggiamento di un mondo che non c’è né può realisticamente esserci.
Vittima di uno smantellamento etico e culturale che, alla lunga, ha prodotto effetti radicali impressionanti. Decenni di fondi tagliati all’istruzione e alla ricerca, commercializzazione e banalizzazione incontrollate del medium televisivo e dei mass media in genere, fino al capolavoro della Rete, che fin dall’inizio nasce come medium superficiale, banalizzante e «misologo» per eccellenza.
I dati dell’Istat parlano di meno di un italiano su due che legge almeno un libro nell’arco di un anno, di circa quattro italiani su dieci che leggono un quotidiano tutti i giorni (considerando, poi, che il più comprato è quello sportivo, non rimangono da fare molti conti), di uno su quattro soltanto che usa la Rete per leggere quotidiani, riviste e news, mentre non posseggo aggiornamenti rispetto al dato del 2000 per cui un italiano su quattro non è in grado di comprendere un editoriale.
Tagli ai fondi all’istruzione e impoverimento della cultura generale sono dati che colpiscono il nostro Paese da almeno un trentennio.
Poiché è frutto dell’utopia, sterile e deresponsabilizzante di questi ultimi tempi, pensare che la Casta politica provenga da un altro mare che non sia quello della nostra società incivile (in cui nuotiamo tutti noi, ognuno con le proprie responsabilità), non ci possiamo meravigliare se, per esempio, la Corte dei Conti della Lombardia dichiara che la corruzione in quella regione è peggiore di Tangentopoli.
Peggiore tanto da far parlare di una vera e propria «mercificazione del bene pubblico» (da affrontare, fra le altre cose, con appena sei magistrati della Corte dei Conti in tutta la Lombardia). Peggiore persino sul piano etico: perché nel 1992 chi veniva sorpreso a rubare piombava spesso nella vergogna più nera (non pochi i casi di suicidi), mentre oggi valga per tutti l’arroganza baldanzosa con cui Formigoni proclama tronfio tutti i suoi meriti e le sue capacità.
E’ evidente il nesso tra la diminuzione continua, e la degenerazione, dei dati riguardanti l’istruzione e la cultura, e l’aumento costante della criminalità, della qualità crescente nell’appropriazione del bene pubblico da parte di una casta di politici mediamente ignorante, corrotta, corruttibile, incapace. Ma in questo non certamente peggiore né aliena rispetto alla media della popolazione da cui proviene.
Parallelamente allo smantellamento culturale, è proceduto di pari passo quello politico-ideologico, per cui ci si è affrettati con imperizia e superficialità scellerate, a dichiarare la fine delle ideologie, dei grandi progetti per la costruzione di società migliori e più libere, delle visioni ampie rispetto al miglioramento della condizione del genere umano su un pianeta che ci sopporta con sempre maggiore fatica.
Ci si è dimenticati che questi grandi progetti, questa chiamata a condividere un progetto collettivo, implicava la maggiore partecipazione dei cittadini, degli individui tutti, la loro maggiore informazione rispetto alle vicende delle rispettive comunità, mentre oggi assistiamo disperati al terribile scollamento fra le elite governanti e il popolo, un popolo chiuso nel proprio orticello e sempre più indifferente rispetto alla gestione di quella che non per caso gli antichi chiamavano res pubblica.
Certo, gli effetti negativi di un eccesso di politicismo avevano condotto all’ emergere di un homo ideologicus, con la formazione di contrapposizioni spesso all’insegna della violenza. Ma a questo si è sostituito oggi un uomo mille volte più impoverito e deleterio, terribilmente vulnerabile ai condizionamenti e alle imposizioni interessate di chi detiene il potere. Sto parlando dell’homo religiosus, nel senso di un prototipo disumanizzato di individuo votato alla delega totale, al disinteresse completo rispetto a un bene comune che verrà certamente garantito (questa l’illusione) da entità immanenti come il Mercato, il Movimento, la Rete.
Questo uomo non coltiva più idee sociali (ammesso che gliene rimangano molte di individuali), non si informa più, non gli interessa la conoscenza, reputa una perdita di tempo sterile ogni sforzo che lo costringa ad uscire dal proprio orticello felice. Un uomo che ha perso considerazione per l’etica, per la cultura e l’istruzione, per il bene delle generazioni future, per l’azione mossa da quel motivo fondante che è dato dalla giustizia. Lo faccio perché è giusto!
In questo risiede il trionfo di quella logica ispirata all’«innocenza del divenire» (l’espressione è di Nietzsche), una logica imposta dal trionfo dei valori del Mercato e di un’economia che si è appropriata di tutti i gangli vitali del mondo umano. Tanto che oggi non è più possibile fare quasi nulla senza l’avvallo del mercato, senza che la nostra azione debba comportare un valore economico, o senza il benestare delle famigerate leggi del mercato. Persino i governi, ai giorni nostri, non possono più deliberare in nome del benessere dei propri cittadini, in nome di un valore aggiunto per le rispettive comunità, perché sempre più sono vincolati a decidere sulla scorta di quanto è imposto dalle regole ferree delle istituzioni finanziarie sovranazionali. Di istituzioni, sia detto per inciso, che già il premio Nobel per l’economia Stiglitz ci ha insegnato, ed eravamo nel 2002, aver fallito clamorosamente nel proprio «fondamentalismo del mercato», condannando intere popolazioni e nazioni alla fame e alla disperazione (a quel tempo erano le popolazioni dei paesi sottosviluppati: oggi siamo noi!).
Dobbiamo prendere atto, in questo panorama indubbiamente lugubre, della «morte della polis», ossia di una dimensione prolifica e democratica (con i limiti del caso) perché abitata da cittadini informati e mediamente interessati al bene pubblico, in cui l’istruzione e la conoscenza vengono considerate dei valori imprescindibili e fondanti di una società che voglia dirsi libera e giusta.
All’epoca della polis si sta definitivamente sostituendo quella della «web-anarchia», in cui queste due entità impersonali ma pervasive ed invasive (la Rete e il Mercato), e naturalmente chi sta dietro di esse, ci stanno convincendo che possiamo essere i protagonisti della società senza parteciparvi attivamente, che possiamo essere informati su tutto senza bisogno di conoscere nulla, che un’armonia di fondo è garantita da quell’«ordine spontaneo» creato dalle interazioni economiche e telematiche, ben più che da una ragione tutta umana, e in quanto tale fallibile, che attraverso «prove ed errori» (ma quindi sempre vigile e presente, critica e aperta, partecipativa!) si prende cura del miglioramento dell’umanità.
Un’epoca, la nostra, figlia molto di più del presunto «ordine spontaneo» teorizzato da Hayek che non del razionalismo critico di Popper. Un’epoca in cui al centro non v’è la nostra umanità, la nostra ragione, persino le nostre emozioni di esseri umani che si «sporcano» con la realtà e con il contatto diretto con le altre persone e con le situazioni sociali, in cui ci è richiesto di fare esperienza del mondo attraverso degli intermediari impersonali e onnipotenti (la Rete, il Mercato, forse anche un certo tipo di Dio) a cui deleghiamo il compito di vivere al posto nostro, conoscere al posto nostro, stabilire cosa ha valore e cosa può essere espunto dal diritto di cittadinanza nel consesso delle nostre società.
Ci viene spiegato che in tutto ciò risiede la libertà, quando invece è di anarchia che dovremmo parlare. E l’anarchia, quello stato di natura da cui siamo faticosamente usciti quando abbiamo costruito le nostre società moderne, più che garantire la libertà certifica il predominio del più forte, di chi possiede gli strumenti economici, tecnologici e ideologici per sottomettere il resto dell’umanità. Anarchica è la pretesa illusoria di smantellare la società come res publica per sostituirla con una presunta e utopistica «comunità» in cui i legami sembrano più forti, quando in realtà sono soltanto più irrazionali ed evanescenti.
Oggi che stiamo male, oggi che la crisi distrugge intere esistenze, spegnendo la minima speranza di un futuro pieno e condiviso, proprio oggi che sbattiamo con la faccia contro le utopie economicistiche e tecnologiche di un mondo divenuto post-umano (perché l’uomo è ridotto a mezzo per fini che non sono più i suoi), ci troviamo drammaticamente a constatare la distruzione forse definitiva di quell’arma con cui siamo usciti dal medioevo per entrare nella modernità: la polis, intesa come dimensione in cui l’individuo è attore consapevole, razionale e responsabile della costruzione di un mondo di valori condivisi perché ispirati alla centralità dell’essere umano e dei suoi bisogni.
L’Italia è uno specchio tristemente fedele di questa situazione, dove la speranza di riscatto sembra provenire soltanto da movimenti che si richiamano al potere illusorio ed evanescente di una presunta comunità costituita dalla Rete (mi riferisco al Movimento 5 stelle), fintamente contrapposta alle ricette infallibili dei fautori del Mercato, che di fatto rappresentano la proposta alternativa.
Quella stessa Italia che, quando Pirandello componeva la novella «Il treno ha fischiato», nell’anno 1914, si apprestava ad affrontare il trentennio più lugubre e tragico dell’intera storia europea. Di fronte al quale Belluca non avrebbe saputo fare nulla, se non rinchiudersi in un mondo tutto suo fatto di ignoranza e genuflessione.
{ Pubblicato il: 23.02.2013 }