[6] Quando la situazione degenera oltre il limite consentito, quando lo sfascio di un Paese raggiunge livelli così profondi e pervasivi al tempo stesso, non rimane che rivolgersi a un principio ragionevole di fondo che radica l’animo umano. Sto parlando della speranza, quel sentimento che da una parte si declina prevedendo la passività impotente del soggetto (sto fermo sperando che il corso degli eventi prenda una piega a me favorevole), ma dall’altra, fin dalla radice etimologica del termine latino spes, indica anche un’aspirazione o tensione che prevede (anche) l’impegno consapevole e fattivo della persona stessa.
La speranza passiva e sterile, frutto di un anelito nobile e profondo ma incapace di tradursi nella concretezza dirompente, è descritta mirabilmente nel Processo di Kafka. In quest’opera si narra di un uomo che giunge davanti alla porta del paradiso (la Legge), e malgrado essa sia aperta egli si rivolge al custode (la burocrazia, il potere frenante) chiedendo il permesso di poter entrare. Chiedere il permesso per raggiungere quello che è un diritto di ogni uomo, la legge? Il custode non gli fornisce quel permesso. L’uomo si siede e aspetta per giorni e giorni, continuando a chiedere un permesso che gli viene puntualmente negato, con la spiegazione che non è ancora il momento.
Passano anni, un tempo lunghissimo in cui l’uomo ha potuto studiare le caratteristiche del custode con precisione certosina, fino a conoscere persino il numero delle pulci presenti nel suo collo di pelliccia. Il tempo è sovrano, forse l’unico dio di cui disponiamo in questa terra (e di cui vediamo e subiamo gli effetti visibili). L’uomo giunge in punto di morte, e volendosi concedere almeno il lusso della curiosità, rivolge la domanda fatidica al custode: «Come mai in tutti questi anni sono stato l’unico a chiedere di poter entrare?». La risposta del custode è fulminante: «Nessun altro poteva passare attraverso questa porta perché questa porta era la vostra. E adesso andrò a chiuderla!».
La condizione dell’uomo che si sottomette a un potere vissuto come indiscutibile e insuperabile è quanto mai misera e paradossale, fino al punto di far dimenticare quali sono i diritti più legittimi che quell’individuo può e deve pretendere all’interno di un consesso, quello sociale, in cui il potere dovrebbe star lì per garantire il benessere collettivo e non la propria auto-perpetuazione.
Certo, come ben sapeva Shakespeare, «il mondo è tutto un palcoscenico, dove uomini e donne, tutti, sono attori, con proprie uscite e proprie entrate» (Come vi piace: Atto II, Scena VII), così che al momento opportuno, quell’uomo costantemente sottomesso e incapace di far valere i propri diritti, potrebbe trasformarsi da spettatore passivo della propria disfatta ad attore fattivo della propria riscossa. Spogliarsi della speranza nobile ma improduttiva per indossare gli abiti da battaglia della speranza attiva e rivoluzionaria, quella di chi, come il malizioso folletto Puck, costruttore di complotti in Sogno di una notte di mezza estate, afferma: «Si sta recitando? Sarò spettatore. E alla bisogna, fors’anche attore» (Atto III, scena I).
Viene in mente quella che potrebbe essere la parabola del popolo italiano ai giorni nostri.
Un popolo che per troppo tempo si è ritrovato spettatore (ma soltanto spettatore?) di una commedia farsesca e tragica al tempo stesso, di un lugubre spettacolo andato in onda troppo a lungo e recitato da una classe politica e dirigente troppo spesso indegna e criminale.
Mentre oggi gli viene detto che può assumere le vesti dell’attore, di colui che prende in mano la trama della propria esistenza per imprimere una svolta epocale. Il popolo tutto, grazie alla Rete, protagonista di uno spettacolo finalmente nuovo, che si sostituisce al vecchio.
La trama è quella di questi ultimi tempi terribili, mentre il proscenio, infausto, è quello del nostro Belpaese. Dove c’è una destra che si caratterizza per la caratura infima, la figura macchiettistica e l’inadeguatezza spesso truffaldina dei propri elementi. Capitanata da un capo-popolo istrione e furbissimo, perfetta sintesi di molti difetti italici e, forse anche per questo, pervicacemente votato e rivotato malgrado la gravità e le miserie delle sue vicende personali e la sterilità della sua azione di governo.
Dove c’è una sinistra che dopo essersi spogliata del suo vestito ex o post comunista è rimasta nuda pretendendo di convincere se stessa, e un popolo intero, che quella nudità dovrebbe essere la moda irrinunciabile del XXI secolo. Dove il centro, entità sempre un po’ fantomatica, ma oggi sparita del tutto nel magma indistinto della distruzione della polis, non sa più a che santo votarsi perché di santi non ne abbiamo più, e un uomo grigio e di apparato bancario come Monti, oltre che dall’eloquio e dalle politiche noiosamente arcaici ed elitari, intercetta pochi consensi.
Ma diciamo di più: dove una classe dirigente intera risulta ormai superata e insopportabile, legata alle poltrone come delle sanguisughe a un cadavere spolpato. Dovrebbero togliersi di mezzo tutti, su questo Grillo ha ragione. D’Alema, Veltroni, Rosy Bindi, Berlusconi, Cicchitto, Gasparri, La Russa, Fini, Casini, Monti, e tanti, troppi altri che rappresentano dei nomi ormai persino impronunciabili senza venir colti immediatamente da un attacco di irritazione! Gente che porta sulle spalle il peso di un ventennio di fallimenti, ruberie, vecchiume ideologico e politico, incapacità manifesta, tanto da aver condotto il Paese in quella situazione di disastro che è sotto gli occhi di tutti.
Responsabilità, basterebbe questa parolina magica: lor signori, profumatamente pagati e investiti dei privilegi della casta, dovrebbero assumersi la responsabilità per un Paese che non hanno saputo guidare, portandolo a schiantarsi contro le scogliere di un mondo globalizzato che non consente più cialtronerie, improvvisazioni, anacronismi inefficaci.
Il tutti a casa è doveroso e forse anche opportuno: se si vuole ripartire ci si deve spogliare di uomini, idee, dinamiche politiche che sono figlie di un secolo e di un tempo ormai alle spalle. Mai come oggi la resistenza pervicace di una casta potente e impotente al tempo stesso può rivelarsi distruttiva per il Paese.
Occorrerà pensare a forze nuove, movimenti politici dotati di persone capaci e soprattutto portatrici (sane) di un programma chiaro ed articolato, in cui non si torni soltanto a distinguere la destra dalla sinistra, i moderati dai progressisti, ma soprattutto chi ha a cuore il benessere collettivo e chi soltanto la perpetuazione meccanica del proprio orticello e del proprio «particolare». Chi è in grado di proporre soluzioni nuove ed efficaci e chi galleggia in uno stagno fermo e maleodorante.
Dimissioni collettive, ecco ciò di cui ha bisogno il Paese. Non solo dimissioni di personaggi ormai superati dalla storia, ma anche di idee che non sono più in grado di fornire risposte per i problemi di un’epoca terribilmente cambiata.
Idea balzana? Mica tanto, in fondo, se pensiamo che si è dimesso un Papa (Benedetto XVI), evento rarissimo nella storia, forse schiacciato dal peso degli scandali sulla pedofilia e sulle banche vaticane non proprio specchiate, ma certamente non più in grado di rappresentare l’istituzione morale per eccellenza in un’epoca che la morale non la conosce più.
Se l’attuale classe dirigente non ha il coraggio, la voglia o l’interesse per farlo, questi signori devono sapere che ormai è arrivato il tempo in cui il popolo italiano lo farà per loro, con il proprio voto ma anche con un’esasperazione sociale ed esistenziale che, accompagnata alla terribile crisi economica, potrebbe tradursi e sfociare in qualcosa che mai vorremmo vedere.
Una classe dirigente inadeguata e fallimentare, lo vediamo in questi giorni immediatamente successivi alle elezioni, responsabile della distruzione della polis e, con essa, di un vero legame di cittadinanza e di cultura condivisa, sta per essere sostituita da una web-anarchia di cui il Movimento Cinque Stelle rappresenta soltanto la punta dell’iceberg.
Disoccupazione, disagio sociale, nuove povertà, frustrazioni umane e individuali di fronte ai benefici insopportabili di pochi privilegiati, costituiscono un terreno incredibilmente aperto su cui potrebbe esplodere una guerra sociale di dimensioni enormi e incontrollabili.
Pensare che il popolo possa governarsi da solo, senza una classe dirigente competente e democraticamente eletta perché tanto ci sarà la Rete a fornire la misura della «volontà generale», rappresenta una forma di nuova utopia (l’utopia della web-anarchia, appunto) che può essere arginata e (forse, se ancora siamo in tempo) fermata soltanto in un modo: riconoscendo che quell’anelito incontenibile di ribellione e anarchia, di distruzione di ogni forma di rappresentanza e intermediazione fra il popolo e la classe chiamata a governare è anzitutto il frutto di un fallimento storico della generazione che ci ha governato fino ad oggi. Che non può essere negato, che va riconosciuto e punito! Grillo e il suo movimento non sono la malattia, semmai costituiscono il sintomo di quel vero e proprio cancro rappresentato da un’intera classe politica divenuta casta, senza più programmi chiari, idee importanti, credibilità personale.
La resistenza strenua di questa vecchia classe dirigente, l’attaccamento alle poltrone e ai posti di un potere non più in grado di gestire e rappresentare (perché il potere deriva dal popolo, in democrazia, e il popolo gli ha voltato le spalle), costituisce la linfa vitale con cui si alimenta e rinforza sempre di più l’utopia web-anarchica. La resistenza della vecchia classe dirigente, di destra, sinistra, centro, è il fondamento più solido del trionfo di un movimento di popolo (virtuale) che può soltanto sfociare in confusione ancora più improduttiva (bene che vada) o addirittura in una forma aggiornata di autoritarismo distruttivo (male che vada). Soprattutto se le nuove, e concrete, forme di disagio e di richiesta sociale non troveranno ad ascoltarla una rappresentanza degna, capace, in grado di affrontare i problemi con chiavi di lettura rinnovate e adeguate, una rappresentanza che francamente è impensabile che possa provenire da quel miscuglio indistinto, impersonale, spesso cialtrone e «impolitico» per definizione che si ritrova in Rete.
Il deterioramento culturale ha prodotto un popolo che nel suo complesso, la massa allo stesso modo dell’oligarchia di governo, ricorda la terribile denuncia di Gadda in Eros e Priapo (1944-45), in cui lo scrittore milanese descriveva con parole furenti il ventennio di vergogna dell’Italia fascista, quello in cui un «cupo e scempio Eros» aveva prevalso sui motivi di Logos.
Come non pensare, infatti, guardando all’Italia che ancora vota il duce affetto da priapismo, o che vorrebbe rifugiarsi nell’alternativa del comico distruttore di tutto ciò che non si conforma al suo credo (la fantomatica e impercettibile Rete!), alle parole con cui Gadda descriveva la massa «che ama e idoleggia l’Istrione suo e così com’egli è, o par che sia, lo desidera»; oppure ancora a come inquadrava, col suo linguaggio funambolico e mascherato, il «folle narcissico», «incapace di analisi psicologica, che non arriva mai a conoscere gli altri, né i nemici né gli alleati; perché la pietra del paragone critico, in lui (o in lei) è esclusivamente una smodata auto-lubido: tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo» (Eros e Priapo, Garzanti, Milano 1990, pp. 79 e 143).
E’ in questa situazione degenerata che l’unica via di uscita, l’extrema ratio, la speranza attiva assume le vesti coloratissime ma incerte della «cyber-utopia» grillina. Un intero popolo che, grazie al potere immenso e soprattutto diretto della Rete, può prendere finalmente in mano le sorti della propria Storia, avvalendosi della straordinaria libertà per tutti gli individui, della compartecipazione e dello spirito di comunità resi possibili dalla realtà virtuale. A venire titillato dalla cyber-utopia è l’io collettivo della Rete, che però, se ci si riflette bene, si rivela alla stregua di un tutti e nessuno allo stesso tempo, perfettamente in grado di aprire le porte a nuove forme di autoritarismo.
In fondo l’essenza della web-anarchia consiste proprio in questo, e qui risiede la sua utopia funesta, nella capacità di ricreare un terreno in cui se a poter contare sono tutti (tutti i fantomatici connessi), in termini politici è come se non contasse nessuno (chi ha il potere effettivo di decidere, perché alla fine la politica è decisione?): «Tutti quanti esaltano Internet per le sue tendenze decentralizzanti. Tuttavia la decentralizzazione e la diffusione del potere non equivalgono a un minore potere esercitato sugli esseri umani. Né equivale a una condizione di democrazia. Il fatto che nessuno possiede il controllo non vuol dire che tutti siano liberi, come scrive Jack Balkin, della Yale Law School». Il leone autoritario del Potere potrebbe anche essere morto, chiosa Morozov, ma ciò non toglie che ora vi siano centinaia di iene affamate che girano intorno al suo cadavere (E. Morozov, The Net Delusion. The Dark Side of Internet Freedom, Public Affairs, New York 2011, p. 256).
Non a caso nella Rete non c’è Stato, non v’è la legge, non ci sono regole condivise e valide per tutti. L’eccesso di libertà conduce all’anarchia, ed essa è la dimensione per antonomasia dove prevale il più forte, che spesso non è il migliore, il più preparato, il più giusto. Di sicuro non è il più votato dalla maggioranza degli elettori, perché a quel punto, nella perfetta coincidenza fra elettori e rappresentanti, sarà stata distrutta l’idea stessa di rappresentanza (e quindi la prassi del voto liberamente espresso).
Una classe dirigente ormai vecchia e logora, segnata da fallimenti e inadeguatezze palesi, col suo rimanere pervicacemente attaccata alle luci della ribalta (e dei privilegi), sta contribuendo all’esasperazione popolare. Un’esasperazione che la crisi economica fa diventare anche disperazione, ed essa induce a scorgere nella cyber-utopia l’unica luce in fondo al tunnel.
Siamo alla fine di un’epoca. Dobbiamo soltanto capire se a calare sarà semplicemente il sipario, perché lo spettacolo è finito e si è in attesa di uno nuovo. Oppure se a calare sarà una Rete, capace di avvolgere e irretire un popolo che diventerà nuovamente prigioniero. Chissà per quanto tempo
{ Pubblicato il: 10.03.2013 }