[8] Pubblichiamo una documentazione molto importante sulla questione, ora di massima attualità, della ineleggibilità di Berlusconi. Nel 2001 Sylos Labini, presidente di "Opposizione civile", che vedeva in prima fila Critica liberale, accusò i Ds di aver "salvato" dalla ineleggibiltà Berlusconi con un voto parlamentare. D'Alema reagì duramente accusando Sylos di aver scritto "il falso". Ma nella sua replica il nostro presidente portò le prove di quanto era avvenuto in Giunta elezioni, dove le responsabilità dei Ds erano state chiare e non smentibili. D'Alema, sbugiardato, non replicò. [e.m.]
.
cari Ds, manca ancora il rospo
di Paolo Sylos Labini
da l'Unità del 16/11/2001
.
I leader dei ds hanno detto che la perdita dei consensi dipende in primo luogo dalla grave inadeguatezza dei programmi. Vero. Hanno detto anche che dipende dai litigi interni. Anche questo è vero. Manca però il ROSPO: il grave errore di strategia commesso quando, per avviare la Bicamerale, quei leader hanno cercato in tutti i modi un accordo con Berlusconi, che doveva essere il socio di un’impresa tanto ambiziosa quanto assurda: riformare la Costituzione, che era costata lacrime e sangue, con la collaborazione di un personaggio che aveva gravi conti aperti con la giustizia e che quindi avrebbe cercato innanzi tutto di informare a proprio vantaggio il sistema giudiziario: se non avesse avuto soddisfazione, avrebbe fatto saltare il tavolo, com’è accaduto e come alcuni avevano previsto fin da principio.
Non si poteva, da un lato, chiedere ed ottenere la collaborazione di Berlusconi per la Bicamerale e, dall’altro, combatterlo, per esempio, sul terreno del mostruoso conflitto d’interessi. Ecco perché i leader dei ds accettarono come buona la «finzione» - il miserabile cavillo - secondo cui non era Berlusconi ma Confalonieri il titolare delle concessioni televisive, aggirando così la legge del 1957 che stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di «concessioni pubbliche di rilevante interesse economico». Accettato quel cavillo ed avendo così resa inutilizzabile la legge del 1957, i ds hanno dovuto imboccare la strada della nuova legge. Nello sciagurato spirito della collaborazione con Berlusconi fu preso per buono ed approvato, solo alla Camera, un disegno di legge presentato dallo stesso Berlusconi e dai soci, fondato sull’idea americana del blind trust un’idea ragionevole nel caso di titoli e di beni fungibili, come i beni immobili, ma inattuabile - diciamo pure ridicola - nel caso di reti televisive. Il disegno di legge non fu presentato al Senato e rimase con la sola approvazione della Camera\, viene tuttavia ripetutamente gettato fra le gambe dei ds da Berlusconi e da chi sia pure non apertamente lo difende. Forte del tacito assenso dei ds il Cavaliere è diventato sempre più sfrontato sul conflitto d’interessi ed ora ha fatto presentare da Frattini un nuovo disegno di legge che è una vera e propria burletta.
Ha scritto giustamente Sartori che «in Italia sta scomparendo un principio fondante della democrazia, la pluralità e la concorrenzialità degli strumenti d’informazione». Dalla collaborazione con Berlusconi, che era l’inevitabile corollario dello sciagurato errore strategico della Bicamerale, sono derivati vari altri «errori», fra cui lo scarsissimo impegno nel ratificare in tempi brevi la convenzione italo-svizzera - poteva essere approvata già nel 1998 - e la critica ai «demonizzatori» di Berlusconi, come me e come diversi miei amici, tutti o quasi tutti dalla tradizione liberalsocialista (saremmo dovuti essere cooptati nella «Cosa 2», mi pare, ma forse abbiamo capito male).
È vero almeno che «esagerando» nelle critiche a Berlusconi avremmo fatto il suo gioco? No, non è vero: secondo uno studio serio di un centro torinese di ricerche sui flussi elettorali la nostra azione, insieme con gl’interventi di Benigni, di Travaglio e di Veltri e dei giornalisti dell’Economist, avrebbe spostato a favore del centrosinistra, il minor male, da uno a due milioni di voti. Non chiedevamo né ringraziamenti né riconoscimenti\, ma almeno una qualche presa di posizione, nei fatti e negli atti, che la nostra azione non andava duramente criticata, ma utilizzata: siamo nella stessa barca.
A giudicare da recenti dichiarazioni di diversi leader del centrosinistra e dei ds in particolare sembra che ciò stia finalmente avvenendo. Tuttavia, per contrastare con efficacia i reiterati attacchi di Berlusconi e di altri sulle posizioni dei ds riguardanti il conflitto d’interessi e la «pigrizia» nella ratifica della convenzione sulle rogatorie e per persuadere i votanti delusi ed amareggiati che muteranno veramente la loro politica i leader ds debbono fare chiaramente ed esplicitamente autocritica per quel grave errore strategico, magari invocando come attenuante il fatto che il cinismo e la slealtà di Berlusconi hanno superato ogni limite, sia pure riconoscendo che la politica non è un’attività per educande. Solo con una tale autocritica - e non con la generica ammissione che errori sono stati compiti - i leader ds possono via via recuperare credibilità.
.
Berlusconi e la Bicamerale
di Massimo D'Alema
da l'Unità del 22/11/2001
.
Pubblichiamo questa lettera di Massimo D’Alema in risposta ad un articolo del professor Paolo Sylos Labini apparso sull’Unità del 16 novembre.
Gentile professore,
in generale cerco di non replicare agli attacchi personali. Tendo volentieri a discutere - questo sì - opinioni e punti di vista anche assai distanti dai miei, ma di solito mi trattengo quando colgo nell'interlocutore un elemento di pregiudizio.
Se nel suo caso mi sottraggo a questa consuetudine è per due ragioni: la stima che nutro verso la sua figura di intellettuale e di studioso e, su un piano diverso, la speranza di sgomberare il campo - chissà - una volta per tutte - dall'accusa che da più parti mi viene rivolta di essere stato l'artefice di uno scambio inconfessabile e immorale in materia di Costituzione e di conflitto di interessi con l'onorevole Silvio Berlusconi.
«Un pettegolezzo, invecchiando, diventa un mito» così scrive in uno dei suoi illuminanti aforismi Stanislaw Lec. E questo mito mi viene fatto gravare sulle spalle da diversi. Da alcuni per una concezione consapevolmente calunniosa della lotta politica; da altri in buona fede, come nel suo caso, ma con non minore asprezza.
«D'Alema - lei scrive - ha come prima responsabilità quella di aver consentito che venisse aggirata, con un miserabile cavillo, una legge del 1957 che stabiliva la ineleggibilità di titolari di importanti concessioni pubbliche, e ha bloccato ogni serio tentativo di risolvere il problema del conflitto di interessi; tutto ciò per portare a compimento, niente meno, la riforma della Costituzione: con quel socio! Sembra incredibile».
Già, sembra incredibile; ma soprattutto ciò che lei scrive è falso, caro professore.
Ma procediamo con ordine.
Nel luglio del 1994 la giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò a maggioranza il ricorso contro la elezione a deputato di Silvio Berlusconi. I deputati del mio partito (del quale ero segretario da pochi giorni) votarono ovviamente contro, come gli altri parlamentari progressisti. Con la maggioranza si schierarono due deputati del Partito popolare, allora sotto la guida dell'on. Buttiglione. Non vedo proprio quindi che cosa mai avrei io consentito, in cosa potesse entrarci con la Bicamerale la decisione del '94. In realtà ciò che si dimostrò allora è (come poi più volte ho sostenuto) la insostenibilità di una norma che, in tempi di sistema elettorale maggioritario, affida alla giurisdizione domestica e politica del Parlamento il giudizio in materia di ineleggibilità. Anche per questo proposi in seguito una riforma che consentisse il ricorso di fronte alla Corte costituzionale, cioè a un giudice indipendente dalle parti politiche.
E anche questo aspetto dimostra quanto fosse necessaria una riforma della Costituzione.
Per realizzare le riforme l'Ulivo indicò la via di una commissione parlamentare in alternativa alla proposta della destra di una Assemblea costituente. E insistemmo molto sulla necessità che le riforme non fossero imposte dalla volontà di una maggioranza parlando - come recita il programma elettorale dell'Ulivo - di «un patto da scrivere insieme». Continuo a pensare che quella scelta fosse giusta e comunque quella linea politica, del dialogo e della comune responsabilità di fronte alle istituzioni, ci consentì di vincere le elezioni del 1996. Non è affatto vero che l'istituzione della Commissione Bicamerale bloccò o impedì l'esame di una legge sul conflitto di interessi. La legge venne discussa e approvata all'unanimità nell'aprile del 1998. Certo, si trattò di quella legge che il centro-sinistra considerò poi del tutto inadeguata a risolvere in modo efficace e serio i nodi del conflitto di interessi. Ma non fui certo io ad imporla, né vi era alcun nesso con la vicenda della Bicamerale che aveva tra l'altro già concluso i propri lavori.
In un bel libro di recentissima pubblicazione («Democrazia e conflitto di interessi. Il caso italiano») Stefano Passigli, che pure ricostruisce in chiave fortemente critica l'intera vicenda, ridicolizza la tesi dello scambio o «dell' inciucio» tra D'Alema e Berlusconi. In effetti basta leggere gli atti del Parlamento per rendersi conto che quella legge fu voluta dall'intero centro-sinistra; dal governo che fu attivamente partecipe della discussione e della elaborazione del testo con il sottosegretario Bettinelli, sino alle componenti più insospettabilmente anti-berlusconiane. Come ricorda Passigli in sede di dichiarazione di voto l'on. Elio Veltri, braccio destro del dr. Di Pietro, ebbe a dire «Questo testo non è molto distante dalla proposta di legge che avevo presentato - abbiamo ottenuto garanzie maggiori nelle procedure - perché la separazione della gestione fosse effettiva e il trust fosse effettivamente cieco». Nella maggioranza dell'Ulivo la posizione più critica fu invece proprio quella dei Ds che cercarono, almeno sul piano fiscale, di rendere la normativa meno "di favore" per il proprietario di Mediaset.
Se dunque errore vi fu, e certamente vi fu, esso rivelò un limite culturale dell'intero centrosinistra.
Ma i fatti smentiscono nel modo più netto la teoria dello scambio Bicamerale/conflitto di interessi di cui sarei stato protagonista io. Non mi sfugge tuttavia che, al di là dei fatti, il diffuso pregiudizio, il sospetto, il disagio per la ricerca di una intesa costituzionale con la destra ha finito per incrinare il rapporto di fiducia fra noi e una parte dell'opinione pubblica di sinistra. E ciò, paradossalmente, è tanto più significativo proprio perché quel pregiudizio non è fondato sui fatti né su una seria analisi politica della vicenda della Bicamerale.
La Bicamerale rappresentò infatti un momento indubbiamente positivo per l'Ulivo. Fu un aiuto per il governo Prodi in quanto concorse ad un clima parlamentare favorevole alle scelte difficili ma necessarie per la rincorsa dell'Euro. Fu un momento alto del profilo riformista. Costrinse la destra a un confronto che ne stemperò il carattere "eversivo" di forza di rottura istituzionale e fece emergere articolazioni e divisioni.
Soprattutto delineò un impianto di riforme - certo non privo di debolezze e incongruenze - ma che avrebbe potuto rappresentare la base per una grande riforma da fare in Parlamento e che segnasse un approdo sicuro della lunga transizione italiana. Fra l'altro sul tema che ci appassiona, della incompatibilità e ineleggibilità, il progetto della Bicamerale segnava un netto passo in avanti prevedendo la possibilità di ricorso alla Corte Costituzionale.
Fu Berlusconi a rompere e a far fallire il disegno della Bicamerale. Prova questa indubitabile che nel progetto di riforme non si nascondeva alcuna oscura concessione sui principi e sui valori, come pure invece si è poi detto in questi anni. E da questa rottura comincia la sua rivincita. Anche perché egli non pagò alcun prezzo e fu anzi aiutato dalla campagna sull' «inciucio» che, sostenuta in modo aspro anche da una parte della opinione del centrosinistra, gli spianò la strada scaricandolo di ogni responsabilità per aver fatto fallire le riforme costituzionali.
La verità è che non pochi furono quelli che, anche nel nostro campo, tirarono un sospiro di sollievo. E l'Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle resistenze conservatrici, finì per lasciare sbiadire via via (con l'eccezione della legge sul federalismo) il suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terreno costituzionale.
Resta in me la convinzione che ci abbia danneggiato di più - anche elettoralmente - non averle fatte le riforme che avere cercato di farle con la Bicamerale. Ma lei dice: «con quel socio!». Capisco il problema. E sarebbe troppo facile rispondere che le riforme si fanno in Parlamento e i soci non li scegliamo noi ma il popolo italiano. Questo non la commuove dato che come lei scrive nel suo libro non esclude - per una comprensibile indignazione civile - di «dimettersi da italiano».
Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l'impegno politico, ha l'ambizione di tornare a governare questo paese e intanto il dovere di concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni. Con questa destra, sulla quale il mio giudizio non differisce molto dal suo, continuo a pensare che tra «l'inciucio» (che non ci fu ma apparve), e la demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi) possa esserci una terza via capace di unire la nettezza della contrapposizione politica, programmatica, etica (quando ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando siano in gioco le istituzioni e il bene dell'Italia.
.
Noi, Berlusconi, l'opposizione
di Paolo Sylos Labini
da l'Unità del 24/11/2001
.
Nella lunga lettera pubblicata su l’Unità del 22 novembre D’Alema risponde alle critiche da me sollevate alle sue scelte politiche nel libro-intervista «Un paese a civiltà limitata» e poi in un articolo pubblicato su l’Unità del 16 novembre. Da principio riconosce la mia «buona fede nel credere ad un pettegolezzo che invecchiando diventa un mito, come scrive Stanislav Lec»; poi però si lascia un po’ andare e, riferendosi alla posizione da lui presa consentendo che la legge del 1957, che stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di concessioni di rilevante interesse economico, venisse aggirata con un cavillo (titolare delle concessioni tv sarebbe stato non Berlusconi ma Confalonieri), afferma: «ciò che lei scrive è falso, caro professore» e ricorda, in primo luogo, che «nel luglio 1994 la Giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò a maggioranza il ricorso contro la elezione di Silvio Berlusconi».
Subito dopo aggiunge: «I deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come gli altri parlamentari progressisti». Sono costretto a ribattere: no, caro presidente, quello che scrivo non è falso e il suo ricordo non è esatto. A suo tempo, quando, per far rispettare quella legge, io ed altri amici costituimmo un gruppo di pressione, intorno al quale fu fatto un vuoto pneumatico, mi documentai con scrupolo; ho con me vari documenti. Così, negli atti della Giunta per le elezioni della Camera di mercoledì 20 luglio 1994 a pagina 3 risulta che l’unico oppositore fu il deputato ds Luigi Saraceni, che, come dichiarò ad un mio amico del gruppo di pressione e come mi ha confermato oggi per telefono, prese la decisione autonomamente: i suoi colleghi ds votarono a favore. Tutto questo avveniva nel 1994, quando la maggioranza era del cosiddetto centrodestra. Anche più grave è ciò che accadde dopo le elezioni del 1996: allora la maggioranza era del centrosinistra ma non ci fu nessuna opposizione; anche in questo caso ho gli atti della Giunta - martedì 17 ottobre, pagine 10-12. Del 1996 il presidente D’Alema non parla. Di tutto questo scrissi diffusamente in un lungo articolo apparso nel fascicolo 5 del 2000 della rivista Micromega; debbo ritenere che sia sfuggito alla sua attenzione.
Siamo d’accordo sulla regola, praticata dagli altri paesi europei, che sui ricorsi in materia d’ineleggibilità il giudizio non deve essere affidato al Parlamento, ma ad un organo esterno, come la Corte Costituzionale; questa esigenza, però, fu considerata in seguito e non nell’avvio della Bicamerale. Desidero essere chiaro: non sostengo che ci sia stato uno scambio Bicamerale/conflitto d’interessi. Sostengo una tesi diversa e cioè che una volta scelta come prioritaria la linea della Bicamerale l’inevitabile corollario - lo scrivo nel mio articolo su l’Unità - sarebbe stato quello di un atteggiamento non ostile verso il Cavaliere: non si poteva, da un lato, chiedere la sua collaborazione per riformare - niente meno - la Costituzione e, dall’altro lato, combatterlo con la necessaria intransigenza. Questa è la mia tesi e non quella dello scambio che necessariamente presuppone una sorta di trattativa. Un altro corollario - anche questo scrivo nell’articolo - era quello di prendere le distanze dai critici duri e intransigenti di Berlusconi, ossia da quelli che sono stati denominati i «demonizzatori», una categoria alla quale appartengo. Vedo, con rammarico, che lei non ha abbandonato l’idea che la «demonizzazione reciproca giova solo a Berlusconi». Mi sembra evidente che la linea alternativa, quella della legittimazione reciproca, è stata catastrofica per il centrosinistra ed ha giovato solo al Cavaliere, il quale ha incassato i vantaggi della legittimazinoe offerta dai ds, ma li ha ripagati continuando, anche più ossessivamente di prima, a definirli «comunisti», collusi con le «toghe rosse» e quant’altro: in breve, la non demonizzazione è stata unidirezionale. Quanto alla tesi che i demonizzatori avrebbero portato acqua al mulino del Cavaliere, è una tesi smentita da un’analisi dei flussi elettorali diretta dal professor Ricolfi della Facoltà torinese di sociologia, secondo cui l’azione congiunta di vari «demonizzatori» ha spostato a favore del centrosinistra da uno a due milioni di voti pescandoli principalmente fra chi pensava di non andare a votare: questo ha ridotto quella che lei ha chiamato un’«incrinatura» - parlerei di una grave incrinatura - fra una parte dell’opinione pubblica di sinistra e i ds. Non sarebbe allora il caso di riconoscere che la critica dei demonizzatori va abbandonata? Che altro debbono combinare Berlusconi ed il suo governo per convincere tutto il centrosinistra che è necessaria un’opposizione intransigente?
Lei, presidente D’Alema, riconosce che, nell’assai ambizioso progetto di riformare la Costituzione, Berlusconi non era un socio raccomandabile. Ma, osserva, le riforme si fanno in Parlamento e i soci non li scegliamo noi ma il popolo italiano. Un tale ragionamento dà per certo che, non le riforme in generale, ma - niente meno - la riforma della Costituzione non fosse in alcun modo procrastinabile. Non è così: era sconsigliabile intraprenderla fino a quando bisognava farla con un socio che aveva quel po’ po’ di conti da regolare con la giustizia. Io, proponendo idee condivise da molti miei amici, le inviai una lettera aperta pubblicata su Repubblica - certo se ne ricorda. D’altro canto, l’unica riforma veramente urgente era quella riguardante la giustizia, per la quale quel pessimo socio aveva evidenti interessi personali. Ma, a detta di numerosi giuristi e di magistrati, le più importanti riforme in questo campo potevano e dovevano essere attuate con leggi ordinarie, lasciando in pace la Costituzione. Verso la fine della sua lettera osserva, rivolgendosi a me: «Lei non esclude - per una comprensibile indignazione civile - di dimettersi da italiano. Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l’impegno politico ed ha l’ambizione di tornare a governare questo paese ed intanto ha il dovere di concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». È vero: io non escludo di essere costretto a dimettermi da italiano. Ma per ora, come vede, non mi sono affatto dimesso. E l’opposizione a questa destra, sulla quale il suo ed il mio giudizio non differiscono molto (salvo che nell’idea che questa sia veramente una destra), dev’essere netta ed intransigente proprio per salvaguardare le istituzioni. Dico questo con una certa fiducia che anche su tale campo vitale le nostre differenze oramai non siano grandi: penso che quel che ha combinato il governo Berlusconi nei suoi primi centoventi giorni di vita abbiano fatto cadere ogni illusione, per via dell’assalto che hanno dato proprio alle istituzioni, a cominciare dalla giustizia. Come lei sa, le illusioni sono cadute anche nei nostri partner, in Europa e fuori, principalmente per il mostruoso conflitto d’interessi, che a detta di intellettuali che ben possono essere considerati di destra è all’origine del discredito - Sartori ha parlato di disprezzo - che oggi all’estero ricopre, non l’Italia, ma Berlusconi e il suo governo. In Parlamento ed a Pesaro ho notato segnali incoraggianti, come - faccio solo due esempi - la vigorosa reazione agli attacchi alla magistratura e l’appoggio, da lei proclamato, alla proposta del referendum volto ad abrogare la vergognosa legge sulle rogatorie, una proposta lanciata da tre riviste della sinistra liberale (Micromega, Il Ponte, Critica liberale), alla quale auspichiamo che lei voglia aderire - proprio ieri abbiamo avuto l’adesione di Sergio Cofferati. È da considerare anche la possibilità di cancellare le altre due vergogne: la depenalizzazione del falso in bilancio e la gigantesca sanatoria fiscale legata al rientro di capitali. Sì, discutiamo pure delle formule - socialdemocrazia, liberalsocialismo - e, ancor più, dei programmi. Ma il cosiddetto popolo di sinistra vuole comprendere se i ds sono disposti a fare un’opposizione robusta e non oscillante. Anche qui qualche segnale positivo c’è: recentemente lei su Berlusconi ha fatto dichiarazioni così dure che l’ottimo Giuliano Ferrara, che qualche mese fa paragonò Bobbio e me a Goebbels, l’ha minacciata d’includerla nella mia stessa categoria. Caro presidente, tutte le forze di opposizione sono nella stessa barca. Noi non chiediamo a nessuno prebende o posti e neppure orologi d’oro. Ci muove l’aspirazione a vivere in un paese dove non solo non venga la tentazione di dimettersi, ma in cui si possa vivere bene e senza angoscia civile. Se in qualche modo possiamo collaborare, eccoci qua.
{ Pubblicato il: 24.03.2013 }