gabriele molinari
Nessun commentoIn verità la scelta (infine rivelatasi una conferma) dell’inquilino del Quirinale ha solo reso palesi le laceranti divisioni già esistenti, e l'impossibile coesistenza di visioni inconciliabili della società: che di quelle stesse divisioni sono all’origine, benché non ne costituiscano certamente l’unica spiegazione. Anzi.
Solo un’ostinata quanto presuntuosa indifferenza ai problemi e alle questioni che pure da tempo quotidianamente si ponevano in evidenza, e con essa l’idea – semplicistica più che ottimistica – di poterne sistematicamente evocare il superamento attraverso l’abuso dello strumento/feticcio delle primarie, ha fatto sì che la crisi si trascinasse per lungo tempo, prima di esplodere – proprio ora – con tale violenza. Del resto la storia repubblicana insegna che l’elezione di un Capo dello Stato è un banco di prova insidiosissimo per un movimento balcanizzato quale è oggi il Partito Democratico (come non pensare, ad esempio, al travaglio della DC nel 1992?).
I contrasti personali tra i maggiorenti democratici sono noti, ma su nessuno di essi in particolare vale la pena concentrare l’attenzione. Sembra piuttosto da considerare l’attitudine di un intero ceto politico alla dissimulazione, ovvero alla rivelazione sempre parziale o insincera di quali siano i reali nodi del problema. E, parallelamente, quella di un intero popolo a “voler credere” a tale dissimulazione e a tale latente insincerità; portato, quest’ultimo, di una vera e propria fede: che ha radici antiche, e che – come tale – aderisce a prescindere. Spesso senza domandarsi a cosa.
In un paese normale, due candidati premier della medesima coalizione e del medesimo partito non potrebbero avere idee di governo (e, ribadisco, di società) tanto diverse come quelle rappresentate e sostenute in questi mesi da Renzi e Bersani. Non risulterebbe assolutamente credibile.
Invece, quando in occasione delle ultime primarie del 25 ottobre queste opposte visioni si sono confrontate e misurate, l’impossibilità di una loro reductio ad unum (pur evidente ai più avvertiti analisti, ed inquietante per un partito che ambisca a governare) non è stata minimamente considerata, lasciando invece spazio ad un dibattito assai di maniera su ricambio generazionale e altre questioni, per quanto importanti, non centrali. Quantomeno non essenziali ad affrontare il tema in oggetto: l’Italia e il suo futuro.
Né tra i militanti né, tantomeno, tra i dirigenti si è registrata la minima preoccupazione per l’enorme ambiguità politica di quell’operazione. Poco conta che si fosse palesata una distanza siderale tra due anime dello stesso movimento (che mai esisterebbe nel pur pluralissimo Partito Democratico americano, dove infatti convivono Collin Peterson e Howard Dean), poco conta che ci si fosse trattati per settimane da nemici in casa; il convincente riscontro di partecipazione, l’attenzione dei media, e soprattutto la certezza di una vittoria ormai già in tasca, nella frammentazione data del quadro politico, ancora una volta hanno indotto i democratici a non interrogarsi su cosa siano realmente. Nessuno di loro escluso.
Dopo le elezioni, tuttavia, nello stallo istituzionale, e man mano che ci si avvicinava al momento dell’elezione del Capo dello Stato, lo stillicidio degli inevitabili distinguo è ripreso, e anche l’abitudine a dissimulare ha riacquistato vigore. I punti del confronto/scontro? Come sempre politicamente residuali, quando non palesemente di matrice personalistica. Fino allo sfascio di questi ultimi giorni, tra accuse e veti incrociati, pubblici insulti (direttamente lanciati sui social network dagli stessi interessati), finti unanimismi, reiterati tradimenti nel segreto dell’urna.
Quanto è bastato a rendere di tutta evidenza ciò che – con un po’ di attenzione – avrebbe potuto già risultare chiaro da quel confronto, impossibile, tra opzioni alternative, sopra richiamato e descritto.
Saranno nuove primarie – come si paventa – a dettare la linea a un movimento tanto lacerato e diviso? Se fosse così verrebbe da chiedersi in cosa, e per quale motivo, questa volta dovrebbe essere diverso dal passato. Perché mai, infatti, nuove primarie dovrebbero funzionare dove hanno fallito le precedenti? Solo perché stavolta, sulla scorta della lezione subita, potrebbe vincere finalmente l’uomo giusto? Forse allora dovremmo credere che d’un tratto il 60% di quel popolo votante abbia cambiato idea sull’intera - o quasi - piattaforma programmatica del Pd? No, la risposta più plausibile è che nel frattempo parrebbe essere cambiata l’idea su quell’uomo, giusto o sbagliato che sia, semplicemente in quanto riconosciuto ex post come vincente. Attenzione, però, perché nel frattempo un altro uomo della provvidenza si profila all’orizzonte, con idee e posizioni ancora una volta (completamente) diverse.
L’urgenza delle cose, insomma, sembra travolgere tutto il resto. Ma un popolo sempre pronto a scegliere nuovi leader continuando a non (voler) capire di cosa essi debbano poi esserlo – leader – è un popolo che continua a non porsi la domanda più importante: chi siamo noi?
Questione, questa, ben più che centrale; e ben più importante di ogni leadership e di ogni elezione, primaria o secondaria.
I grandi “capi” della nostra tradizione democratica sapevano bene chi fossero e cosa rappresentassero, e con chiarezza lo indicavano alla loro gente, consolidando un’identità di cui pure sapevano di (dover) rappresentare la più compiuta sintesi. E lo facevano senza divagazioni, e tantomeno fughe sistematiche dalla centralità della questione politica. Quando nel 1952 De Gasperi affrontò e sfidò Gedda, lo fece in modo forte e radicale, perché sapeva bene cosa vi fosse in gioco; perché sapeva che quel che era in discussione non era una semplice alleanza o un regolamento di conti interno ad un’area culturale, quanto piuttosto un’idea precisa – per lui irrinunciabile – di partito e, più in generale, della società italiana. Né pensava alla sicurezza del proprio futuro politico, anzi la metteva deliberatamente in discussione.
Questi sono i leader.
E si costruiscono con la tenace pazienza del percorso; non con l’improvvisazione, per quanto eccitante, dello sprint.
{ Pubblicato il: 20.04.2013 }