[14] Nel discorso pronunciato ad Assisi il 5 ottobre
2012 Giorgio Napolitano ha offerto una sintesi
della propria interpretazione della storia repubblicana
italiana. L’Italia è uscita dal fascismo
«in uno straordinario moto di avvicinamento tra ispirazioni
ideali e politiche diverse e apparentemente inconciliabili,
ma in effetti già incontratesi nel crogiuolo dell’antifascismo
», un fenomeno grazie al quale «nessun muro tra
posizioni dei credenti e dei non credenti sbarrò la strada
alle forze politiche rappresentative delle une e delle altre».
Tutto ciò rese possibile il lavoro dell’Assemblea Costituente,
che si ispirò a «un’antropologia di base», come, secondo
Napolitano, ha felicemente detto il Cardinal Ravasi.
Per illustrare i particolari di quell’antropologia, Napolitano
ha introdotto nel suo discorso una lunga citazione di Leopoldo
Elia, secondo il quale la cultura di fondo della nostra
costituzione nasce dalla sostituzione dell’«homo oeconomicus
dell’economia liberale» con la figura della «persona
umana», intesa secondo gli schemi del personalismo
cattolico. Per Elia al personalismo si arrivava da «basi dottrinali
cattoliche» come «dal liberal-socialismo o da una
cultura liberal-democratica più matura o dal ripensamento
delle esperienze del New Deal e del movimento laburista
nordeuropeo». Elia rivendicava il fatto che questa impostazione
trovava «maggiori consensi nella cultura cattolica
ed in alcuni ambienti della cultura laica», ma ammetteva
che si trattava di «formulazioni tali da valorizzare punti di
convergenza, e non di antitesi, con la cultura della sinistra
marxista». Il motivo conduttore della storia italiana recente
sarà pure la cultura cattolica con l’apporto di alcuni ambienti
laici e con qualche convergenza con la tradizione
marxista; ma in sostanza si tratta – semplifica Napolitano
– dell’incontro tra «due solidarismi, quello cristiano e
quello socialista».
Se Elia, con i modi curiali della cultura cattolica, insinua
l’idea che a dare l’ideologia portante della costituzione
repubblicana sia stata soprattutto la dottrina cattolica,
nascondendo dietro l’immagine di una convergenza
di indirizzi disparati il rapporto tra cattolicesimo e comunismo,
Napolitano, insistendo sui due solidarismi, cristiano
e socialista, fa scomparire ogni accenno alla tradizione
liberale e occulta l’imbarazzante presenza del comunismo,
assorbendolo nella tradizione socialista, come se il
contrasto tra socialisti e comunisti non avesse costituito
uno dei tratti caratteristici e infausti della storia italiana, all’origine
di una lotta politica senza esclusione di colpi. Interpretate
in questo modo le vicende italiane, l’articolo 7
della costituzione diventa una delle «convergenze di
grande significato di cui è ricca la storia dell’Assemblea
Costituente», una convergenza «essenzialmente politica»:
un’espressione piuttosto ambigua, che sembra voler nobilitare
quello che fu un accordo tra cattolici e comunisti, nel
disprezzo di tutto ciò che di liberale offriva la cultura italiana.
Se si scorge nell’uscita dell’Italia dal fascismo soltanto
il trionfo di solidarismi, e non il tentativo di utilizzare
il consenso che il fascismo aveva ottenuto, anche con
il solidarismo che gli era proprio, non si capisce come sia
nata una democrazia senza alternanza, fondata sulla divisione
del territorio politico tra movimenti che proponevano
idee globali, senza riconoscere, se non strumentalmente, le
diversità; e, implicitamente, la si giustifica. E si perde di
vista anche ciò che, nella ricostruzione successiva alla
guerra, poneva le premesse delle difficoltà che si sarebbero
profilate alla fine del miracolo economico. Oggi è di moda
esaltare gli anni della solidarietà e attribuire tutte le colpe
alla rinascita di idee liberali, resa possibile dalla fine della
guerra fredda e dell’economia di guerra, che essa aveva
promosso in paesi in pace sotto l’ombrello militare delle
due grandi potenze. La chiamata in causa dell’homo oeconomicus,
contro il quale, come contro “la mentalità cartesiana”,
colpevole di ridurre la natura a meccanismo, sono
state scritte tonnellate di pagine, quasi che non fossero due
idee importanti per la costruzione del sapere scientifico
moderno, rientra perfettamente in questa prospettiva. La
nostalgia per mitiche convergenze ha portato con sé l’esaltazione
della costituzione italiana, ridicolmente dichiarata
la più bella del mondo perfino da un comico che si raccomanda
per le sue dissacrazioni, e ha fatto dimenticare che
anche la costituzione italiana è riformabile, contiene sciocchezze
e non è molto liberale. Altro è richiamarsi al rispetto
della costituzione che vige, altro la sua sconsiderata esaltazione,
compreso l’articolo 7, che ha imposto a tutti gli italiani
il riconoscimento di una sovranità religiosa sulla quale
i cittadini non hanno nessun controllo. Ma queste sono le
posizioni di una sinistra nostalgica, che ormai guarda alla
costruzione del consenso con ogni mezzo come a un’età
dell’oro e che onestamente ammette di essere conservatrice:
selettiva, si capisce; ma quale conservatore non è selettivo?
Napolitano tace le pretese fatte valere sulla società
italiana e sul suo governo politico dalla Chiesa cattolica,
che ha sempre cercato di non perdere i privilegi ottenuti
con l’appoggio al fascismo e, in generale, ai regimi totalitari
di destra. L’apprezzamento dell’articolo 7 della costituzione
deriva da questa reticenza, che gli impedisce di ricordare
la vera storia del cedimento dei comunisti alle pretese
del Vaticano. L’unica frizione religiosa nella vicenda
politica italiana ricordata da Napolitano è quella suscitata
dalla proposta, formulata da La Pira, di introdurre nella costituzione
la premessa «in nome di Dio il popolo italiano si
dà la presente Costituzione». Nella rapida ricostruzione di
Napolitano, Togliatti non fa una bella figura, perché aveva
parlato «in termini che possiamo definire del tutto inappropriati,
di un “solco ideologico” che col voto sulla formula
La Pira si sarebbe scavato, in quanto essa “si richiamava
a determinate ideologie”». Non è del tutto chiaro in
che cosa quel discorso fosse inappropriato; perché riduceva
la religione a ideologia? Forse La Pira era un utopista ingenuo,
ma certamente il cattolicesimo era, almeno anche,
un’ideologia o la matrice di un’ideologia, era stato uno
strumento di controllo politico durante il fascismo e aveva
reso più intensa questa funzione quando aveva diretto la
successione al fascismo e l’amministrazione della sua eredità.
Napolitano tace la poco commendevole iniziativa di
Togliatti di inserire il concordato nella costituzione, mentre
gli rimprovera un discorso che denunciava l’uso strumentale
della religione e che abilmente esortava a non sottoporre
ai voti l’appello a Dio. Forse Togliatti ricordava
quanto la cultura moderna dovesse all’interpretazione
delle religioni come strumenti del potere politico e giustamente
se ne avvaleva contro la proposta di La Pira, non sostenuto
neppure dalla sua chiesa, la quale teneva assai più
ai privilegi ottenuti con l’articolo 7 che a una semplice formula
generica, di sapore protestante poi, come se si potesse
invocare direttamente Dio senza passare attraverso la mediazione
ecclesiastica.
Nel discorso di Togliatti si poteva cogliere la minaccia
di una divisione: se la religione si fa ideologia, è legittimo
contrapporle un’altra ideologia. Magari i comunisti e
in generale la sinistra italiana fossero sempre stati così decisi
e così pronti a raccogliere le sfide, dicendo le cose che
andavano dette! Napolitano preferisce le parole di Francesco
Saverio Nitti, il quale evocò sì la «divisione profonda»
che l’iniziativa di La Pira avrebbe potuto produrre, ma con
«accenti accorati», lontani dalla freddezza cerebrale di Togliatti:
«perché — implorava — ci dovremmo dividere sul
nome di Dio? Il nome di Dio è troppo grande e le nostre
contese sono troppo piccole». Togliatti non aveva implorato,
ma aveva suggerito alla chiesa di domandarsi se le
convenisse sottoporre il suo dio al rischio di andare in minoranza.
Una domanda sensata, che in Vaticano dovettero
apprezzare: il povero La Pira, «confermando la nobiltà
della sua iniziativa, d’altronde tutt’affatto personale», lasciò
perdere, facendo, nella ricostruzione di Napolitano,
una nobile figura, al contrario del poco generoso Togliatti.
La vera risposta a La Pira venne da Concetto Marchesi,
che respingeva «la ipotesi atea, che Dio sia una ideologia
di classe. Dio è nel mistero del mondo e delle anime
umane». Il tema del mistero piace a Napolitano, tutto contento
di trovarlo in Bobbio, quando dichiara «di non essersi
mai allontanato dalla religione dei padri» e di non considerarsi
«né ateo né agnostico», di sapere «come uomo di
ragione e non di fede … di essere immerso nel mistero che
la ragione non riesce a penetrare sino in fondo». Forse perfino
il prudente Bobbio avrebbe provato qualche imbarazzo
a vedersi accostato a Benedetto XVI, ricordato per il
brutto discorso di Regensburg, giudicato da Napolitano
«complesso e profondo». Si comprende che ragioni di colleganza
inducano capi di stato a farsi complimenti, ma era
il caso di prendere sul serio le formulette filosofiche di Ratzinger,
per il quale «ragione e fede» possono «ritrovarsi
unite in modo nuovo», se si supera «la limitazione autodecretata
della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento», cioè se la ragione si subordina alla fede come a qualcosa di superiore? È ciò che fanno i laici che si inginocchiano davanti ai papi: Napolitano rievoca Thomas
Mann, che si genuflette a bacia l’anello di un personaggio
come Pio XII; ma ci sono laici meno noti che non hanno esitato
a prender parte alla celebrazione del fondatore dell’Opus Dei.
Ad Assisi Napolitano ha dichiarato di rappresentare,
come Presidente della repubblica, i credenti e i non credenti
È imbarazzante che il capo dello stato divida i cittadini in
cattolici e non, facendo un discorso che, dopo un primo accenno
al dialogo interreligioso, ha riguardato, forse anche
per il luogo in cui è stato pronunciato, soltanto il cattolicesimo,
e che si riferisca a chi non riconosce l’autorità del Vaticano
con l’espressione negativa di “non credenti”. Un intoppo
linguistico prevedibile dopo che il cattolicesimo, e
non la cittadinanza, era stato messo al centro del discorso,
una scelta resa più pesante dalla dichiarazione che il presidente
si propone di unire gli uni agli altri. Non una parola
sul compito dell’autorità politica di permettere ai cittadini
di seguire le proprie strade, nelle loro diversità, in base agli
orientamenti scelti, tra i quali ci possono essere quelli suggeriti
dalle religioni positive e dalle loro autorità, sempre
che queste, come qualunque cittadino privato, non pretendano
di limitare i diritti degli altri. Ma proprio introducendo
l’elogio del discorso di Regensburg, Napolitano ha
di fatto seguito la sana laicità tanto cara alla gerarchia cattolica,
che prevede il riconoscimento di uno status pubblico
alle autorità cattoliche e la subordinazione della ragione al
loro insegnamento. Quando, di suo, filosofeggia anche lui
e tira fuori la formula «riconoscimento, dunque, della dimensione
del mistero, e dell’inadeguatezza della ragione
a penetrarlo sino in fondo», Napolitano adopera il trucco
cui era ricorso il papa: non sono forse i cultori della ragione
a limitarne la validità e a vincolarla ai dati sperimentali?
Dunque bisogna ammettere che c’è dell’altro, più in alto,
più in profondità.
Sarebbe prudente lasciar perdere la ragione, che si
presta docilmente ai trucchi di filosofi e teologi professionisti;
figuriamoci ciò che accade ai dilettanti! Ma le idee di
Napolitano sono ampiamente condivise dalla cultura italiana
che si professa laica: le citazioni di Marchesi, Croce e
Bobbio sono del tutto appropriate e significative. A quella
cultura è sempre mancato l’orgoglio della conoscenza, la
capacità di rivendicare il sapere di cui oggi l’umanità dispone
e in nome del quale è possibile qualificare molte
delle credenze religiose come superstizioni, tabù o imposture.
L’illuminismo non gode di buona stampa e la mentalità
illuministica viene facilmente esecrata, come l’homo
oeconomicus o lo spirito cartesiano, ma chi non si vergogna
dell’eredità illuministica dovrebbe ricordare la fierezza con
cui i dotti del secolo dei lumi si riferivano al sapere che allora
le società progredite avevano conquistato e con il quale
si erano liberate di miti e servitù intellettuali. Le cose che
non sappiamo sono molte e forse quella che conosciamo è
solo una piccola parte dell’universo, ma non c’è un sapere
diverso con cui far crescere quello che possediamo, che
renda quest’ultimo più sicuro di quello che è. Le domande
alle quali non possiamo dare risposte non sono indizi di
misteri impenetrabili, ma proiezioni della nostra esperienza
limitata, utile a dirigerci negli orizzonti ristretti della
quotidianità, mentre in ambiti più ampi perdono senso. Se,
tornando a casa, troviamo la cucina, che avevamo lasciato
in disordine, ben sistemata, possiamo pensare che sia intervenuto
un essere intelligente; se applichiamo questo
schema all’universo, possiamo credere di aver trovato il
Padre eterno o avere almeno l’impressione di esserci imbattuti
in un mistero, come se non sapessimo rintracciare
chi è penetrato nella nostra cucina, per metterla in ordine.
Ma l’universo non è la cucina, a parte il fatto che non è neppure
ordinato. Kant voleva ricuperare religione e teologia
puntando sull’ordine del cielo stellato sopra di noi e sulla
legge morale in noi. Adesso sappiamo che il cielo stellato è
tutt’altro che accogliente, punteggiato di reazioni nucleari,
che sono diventate il simbolo del peggior destino temuto
dall’umanità; quanto a ciò che c’è dentro di noi, meglio guardare
da un’altra parte. Il laicismo si è sempre fatto un punto
d’onore dell’impegno a difendere la libertà religiosa e a rispettare
i credenti e le loro idee, ben consapevole di non essere
ricambiato: i laici sono oggetto di conquista e di conversione
da parte di molte delle religioni positive, che lanciano
contro di loro condanne o, quando le cose sembrano
andare meglio, esercitano la pietà dovuta a chi è stato privato
di un dono. Tutelare la libertà anche per chi è pronto a
limitare la nostra, accettare gli anatemi contro i non credenti,
come gli adepti delle chiese chiamano gli altri, quelli che
considerano infedeli, non esclude che si mettano in luce le
superstizioni, i tabù e le imposture, che costituiscono gli ingredienti
fondamentali delle pratiche religiose.
Recentemente, su “Critica Liberale”, Pierfranco Pellizzetti
si stupiva che la sinistra novecentesca si fosse trovata
postmoderna; ma c’è proprio da stupirsi? Alla radice
della trasformazione c’è probabilmente l’esorcizzazione
della conoscenza, che la sinistra ha praticato generosamente,
preferendo alle conoscenze effettive l’ideologia,
considerata più forte della conoscenza paziente. Quando
le ideologie, con le filosofie della storia arbitrarie che inglobavano,
sono andate a gambe all’aria, la sinistra ha ritrovato
nel postmodernismo i riti, che le erano familiari,
per tenere lontano il sapere reale. Ricordo sempre che Claudio
Napoleoni, quando si convinse che le idee di Keynes
potevano essere assorbite nel filone dell’economia classica,
guardò con speranza alla filosofia di Heidegger e perfino al
neoeleatismo lagunare di Emanuele Severino. Udii una
volta Giorgio Amendola dichiarare altezzoso che la teologia
era il nuovo sapere e fare una tirata sulle sue feconde
conversazioni con i preti, migliori di economisti e scienziati.
E la nuova ideologia ufficiale del Partito Democratico
usa ampiamente il lessico della dottrina sociale cattolica,
quello con cui Napolitano ha scritto il proprio discorso di
Assisi. Il cristianesimo, soprattutto il cattolicesimo (perché
i protestanti, dopo tanta letteratura che ne ha fatto i fondatori
del liberalismo e capitalismo moderni, sono meno
popolari), promettono solidarietà e offrono un’alternativa
all’immagine che della realtà trasmette il sapere effettivo:
caduta l’illusione della filosofia della storia, ci si poteva aggrappare
alle credenze religiose o alla filosofia postmoderna,
secondo la quale tutto ciò che si sa o si crede di sapere
è soltanto il prodotto del decadimento del sapere originario,
religioso e sapienzale, ormai perduto, almeno in
occidente, dove la scienza moderna ha fatto tramontare
l’essere. Sempre Pellizzetti sembra cogliere qualche segno
di ravvedimento nel fatto che Umberto Eco, che proprio
postmoderno non è mai stato, anche se, bulimico com’è, ha
civettato anche con questa tendenza, ha abbandonato l’ebbrezza
delle interpretazioni inanellate in catene infinite e
si è fatto persuadere da un minimo di realismo. Ma il modo
in cui lo ha fatto, sostenendo che «ogni ipotesi interpretativa
è sempre rivedibile … ma, se non si può mai dire definitivamente
se un’interpretazione è giusta, si può sempre
dire quando è sbagliata», denota la persistenza del mito
socratico, secondo il quale la caccia all’errore è aperta
anche a chi non sa nulla, che si dimostra anche più abile di
chi possiede qualche nozione. Invece la prova che qualcosa
è sbagliato richiede un apparato teorico ben costruito
e la stabilità dell’elenco degli errori dipende dalla stabilità
delle «ipotesi interpretative»: non si può conservare ipotesi
ballerine e bandire definitivamente gli errori. E di ipotesi
stabili quanto basta, soprattutto se non manipolate per
trarne affrettate teologie, ne abbiamo parecchie, e sono
quelle che una cultura ora non tanto popolare ha usato per
trovare gli errori annidati nelle pratiche e nelle credenze
correnti. Jean de Launoy, il seicentesco denicheur des saints,
era guardato con timore e rispetto da preti e abati, non ancora
toccati dalla la sua critica erudita, con cui aveva cacciato
dalle loro nicchie i santi protettori di tanti santuari;
quando sarebbe toccato a loro? Già, se si incomincia a buttar
giù le statue dei santi, quali altri simulacri faranno la
stessa fine? Meglio fare una capatina in piazza S. Pietro
quando si fabbrica un santo nuovo, anche se si tratta di Josemaría
Escrivá de Balaguer.
[Questo articolo di Carlo Augusto Viano è stato pubblicato sul fascicolo speciale di Critica liberale, n. 207, dedicato ai dossier sulla secolarizzazione e sulla presenza delle confessioni religiose nei media italiani]
{ Pubblicato il: 05.05.2013 }