[21] Contenitori. L’organico, l’indifferenziato, il vetro, la carta.
Giallo, verde, blu, per strada è una corsa al cassone giusto, quello preposto allo smaltimento dei nostri rifiuti.
Una questione di civiltà, ci mancherebbe, ma la nostra corsa al contenitore giusto trascende le politiche ambientali, trascende la nostra coscienza civica, spontanea o coartata che sia.
Il bisogno di un contenitore adatto fa parte del nostro smarrimento moderno, del nostro abbondare di pretesi contenuti spesso precari. O dell’essere, noi stessi, dei contenuti pretesi e precari.
Prendiamo una relazione sentimentale (o anche, più genericamente, sociale), la necessità e talora anche l’urgenza di trovare forme e definizioni per rappresentarla ai nostri occhi e a quelli di chi vive intorno a noi.
Una necessità del tutto naturale, che tuttavia diventa allarmante quando ciò in cui inseriamo, o con cui descriviamo il nostro essere in relazione, si espande sino ad essere – in forma e definizione – la relazione medesima.
Questa è peraltro la storia, ed in ciò la crisi stessa, di molti rapporti. Rapporti che non si capisce esattamente dove inizino e dove finiscano, per lasciare finalmente emergere noi, protagonisti (almeno teorici) di storie personali.
Invece di personale a volte c’è poco, se non il cruccio di sbagliare, di essere nell’incertezza, di non sentirsi garantiti: e non tanto da una persona, quanto semmai dal contesto – pratico e testuale – in cui e con cui si definisce il rapporto con essa.
La realtà è che di fronte a un contenitore, o al bisogno di esso, siamo talmente presi dal timore che non sia quello giusto che spesso non ci interroghiamo abbastanza sul contenuto. Anzi, può accadere che non ci interroghiamo affatto.
A volte è per imprudenza, a volte per noia, a volte per deliberata e consapevole trasgressione.
Il motivo che sta alla base dell’errore è irrilevante se si parli di raccolta di rifiuti: metti una lattina nel recipiente per l'organico e sarai sanzionato. Diverso è negli altri casi di inserimento cosiddetto sbagliato.
Quando, ad esempio, non si parli di rifiuti ma, anzi, dei nostri beni più preziosi: come i sentimenti e le idee.
Nessuno controlla i nostri innamoramenti, siano essi per un uomo, una donna o un progetto di vita e di società. Siamo noi che decidiamo, siamo noi che a posteriori – se troviamo l’obiettività, la lucidità e la forza per farlo – esprimiamo un giudizio su quella scelta.
Così capita che spesso ci si ritrovi a negare, a negarci, la delusione per gli errori commessi, insistendo ostinatamente in scelte sbagliate. Siamo abili ad ingannarci, e così – ingannandoci – noi diventiamo un tutt’uno con l’inganno perpetrato.
Ma non pensiate che si parli per forza d’amore. Nient'affatto. Pensate alla politica, pensate alla società e al nostro sentire il mondo che abbiamo intorno.
Pensate ai mille progetti di nuovi movimenti che ogni giorno nascono, per abortire poco dopo, perché in fondo non progettavano nulla. Perchè forse neppure potevano ambire a progettare qualcosa. E pensate ad altri progetti finiti, i cui interessatissimi custodi ogni giorno decidono di mantenersi sterilmente in vita dietro il paravento di qualcosa che almeno sia riconoscibile. Come un partito politico tradizionale che non fa politica. Ce ne sono tanti.
Come ci sono tante riunioni in cui si parla di tutto lo scibile umano. Ci si impegna a fare, a trasformare, a cambiare. Una volta il tema è il fisco, una volta il lavoro, un’altra volta ancora la scuola. Partecipiamo numerosi e abbiamo tutti idee degne di essere considerate.
Il fatto è che raramente riusciamo a confrontarle. La dispersione del confronto è spaventosa. Perché spaventosi sono i condizionamenti che subisce la nostra attitudine a porlo in essere, un confronto.
I nostri pregiudizi sono forti e radicati, i dati di cui disponiamo sono troppi e spesso troppo falsificabili, l’abitudine democratica a dibattere è spesso – lo sappiamo bene – una mera imitazione della democrazia: quel che ne risulta è un appiattimento di concetti che non produce analisi reali.
Ma troppa è la fretta, la precipitazione di definire un contesto, un'area, addirittura una bandiera; siamo ancora lì a discutere di imposte indirette, di previdenza, di maestro unico e già si leva il grido che richiama all'ordine. E l'ordine è inserimento. Inserimento che brucia, travolge le nostre fragili ipotesi.
Siamo, in definitiva, prigionieri di forme. Siano deliberative, siano identificative, sempre si richiamano ad un concetto di luogo ideale, che pare sia indispensabile a farci sentire esistenti. Esistiamo, insomma, perchè lì dentro siamo: inseriti appunto.
Talmente bisognosi di questo richiamo da dimenticare di portare con noi reali e solide proposte.
Spesso restano biglietti scarabocchiati, appunti disordinati sui tavoli dei meeting tematici.
Oppure, ritornando al privato, sono corrispondenze interrotte, senza prospettive, di qualunque cosa si parlasse. Amore, oppure amicizia, o ancora progetti per un libro da scrivere a quattro mani.
Ci si ritrova governati da contenitori spesso senza governo, a cui siamo pavidamente liberi di costringerci.
Così là fuori è pieno di idee, sentimenti e sfide, che crescono nella nostra incoscienza: piante spesso rigogliosose ma trascurate, come in un giardino abbandonato. Che non è di nessuno, che – bontà sua – non cerca né padroni, né perimetri.
{ Pubblicato il: 23.06.2013 }