[21] Il mercato dell'abitazione del 2012 è sceso del 26% (-150.000 rispetto 2011). quello del terziario del 25% e quello produttivo del 19%.
La prima casa è meno acquistata. Secondo la Camera di Commercio di Milano le quantità in gioco degli ambiti urbani suscettibili di riqualificazione hanno estensioni tali da non poter essere metabolizzabili nell'arco di una sola generazione. Richiedono tempi lunghi, scale di priorità e la presenza di strategie che riguardano l'organismo urbano nel suo complesso.
Le aree oggetto di trasformazione di Milano e dei comuni delle province di Milano e di Monza e Brianza dalla metà degli anni 90 fino ad oggi, distinte tra opere realizzate e in previsione aggiornata a marzo 2013, sono 3400 per oltre 97 milioni di metri quadri di superficie territoriale. Di questi solo il 21% è stato realizzato o è in cantiere e il 79% è in previsione. Nelle previsioni, le destinazioni principali che connotano tali aree sono oltre il 50% residenziali.
Il problema che caratterizza la situazione del mercato oggi è una crisi di domanda non certo di offerta. Uno studio del Politecnico commissionato dalla CISL presentato due giorni a fa a Milano Abitare in Lombardia al tempo della crisi (a Cura di Antonello Boatti, Maggioli) esamina i dati dal 2002 al 2008 e li proietta al 2018. Si legge che la domanda di ERS è di 525 mila alloggi, mentre quella di edilizia libera è di 387 mila. Ma da lato dell’offerta quella libera è già totalmente assorbita dall’esistente che a sua volta è dieci volte superiore a quella di ERS esistente. Proiettata al 2018 la questione sociale rischia di diventare drammatica, soprattutto nelle aree metropolitane. Devo dare atto che questo PGT non si è sottratto al problema delle 300 famiglie che stanno aspettando un alloggio a canone sociale o moderato, meglio che in proprietà.
In attesa di una legge che obblighi i comuni al censimento degli edifici abbandonati o invenduti da reimmettere in circolazione, è certo che la necessità di nuovi alloggi andrebbe meglio verificata quanto meno su serie previsioni demografiche (come si fa per l’edilizia scolastica a proposito della quale negli ultimi tre anni sono nati a Saronno da genitori residenti in media 40 bambini in meno all’anno rispetto al triennio 2006/2009).
Sono numeri da crisi che è congiunturale per la situazione economica, ma soprattutto strutturale: la casa non è più un bene rifugio protetto dalle tasse.
Bernardo SECCHI a Milano il 20 maggio scorso alla Casa della Cultura ha detto: “più che una crisi economica questa è una crisi politica istituzionale, sociale e culturale: è una catastrofe antropologica. Da una crisi come questa la città esce diversa per attori, per le risorse e le modalità della loro distribuzione”.
Di fronte ad una situazione così grave di cui non si vede la fine si pone un atto come il PGT che riflette il futuro della città e che a Saronno si vota dopo 18 anni. Un atto che trascina tutta la complessità delle questioni: da quelle ambientali a quelle sociali da quelle finanziarie a quelle normative.
In una conversazione con Giancarlo Consonni ho raccolto queste parole: “pensare che si possa uscire dalla crisi rimettendo in piedi ciò che è miseramente crollato è un’illusione e, insieme, il segnale dell’assenza di visione strategica.
Il Pgt entra in questo ordine di questioni. Si può scegliere la strada di non porre ostacoli a una possibile ripresa dei vecchi meccanismi, oppure si può cercare di incidere più nel profondo puntando a valorizzare le potenzialità urbane e metropolitane di Saronno.
Questo Piano illustra le potenzialità delle aree dismesse che si aggiungono ai punti di forza di Saronno. Caratteristiche che non paiono adeguatamente valorizzate negli ultimi decenni, complice una politica urbanistica di corto respiro, uniformata su linee che hanno non poca responsabilità nell’attuale crisi strutturale. Qui, come nel resto del Paese, l’aver puntato sulla rendita immobiliare come su un fattore trainante quasi esclusivo ha, per un verso favorito smobilitazioni generalizzate dell’apparato produttivo e per altro verso sottratto risorse che andavano, e vanno, indirizzate per attrezzare il sistema economico nazionale di fronte alle sfide della globalizzazione. C’è un patrimonio di cultura materiale che è irrinunciabile e l'urbanistica deve interessarsi sulle ragioni della riduzione delle possibilità di lavoro produttivo.
Siamo a un bivio: o si tira a vivacchiare o si pensa in grande, puntando su chiari obiettivi strategici convergenti sull’innalzamento della qualità urbana”.
Con questo PGT se non abbiamo intrapreso la prima strada è certo che gli obiettivi strategici della seconda non trasmettono entusiasmo e nascondono qualche equivoco.
A partire dalla Conferenza dei Servizi. Le autorità sovraordinate e gli enti intermedi non hanno considerato per Saronno essenziale l’unità di territorio, ambiente e paesaggio per la condizione di essere parte della metropoli in cui si trova immersa. Secondo la geografia dell’urbanizzazione, elaborata dall’INU, Saronno sarebbe centro di prima classe, da trattare come un capoluogo di provincia.
Per l’appetibilità delle aree in una delle zone più strategiche della Lombardia, le province e gli altri enti invece di limitarsi a dare giudizi a cose fatte avrebbero dovuto fare di tutto per governare i flussi e gli insediamenti attorno alle grandi infrastrutture viabilistiche. Se le strade oggi non raccontano più niente almeno servano a contenere l’aggressività della competizione fra contesti comunali (come, ad esempio, sui centri commerciali con Gerenzano e Uboldo o il residenziale di Ceriano a Cascina dal Pozzo). Così si distrugge l’identità e il senso dei luoghi di antica origine.
Se non sei sollecitato da chi ti sta sopra è inevitabile che il Comune si distragga rispetto alla necessità di chiamare e tenere alla ribalta tutti gli attori: la PA, i privati attuatori, i cittadini. Si sono visti dei risultati assimilabili più alla consultazione che alla partecipazione, e la lista Tu@Saronno è stata certamente in prima fila, come anche le scuole cittadine, ma sarebbe stato necessario ripetere l’esperimento del 1997 del laboratorio di partecipazione per l’area Isotta. Non dobbiamo sottovalutare che stiamo per trasformare aree che non sono mai state abitate, che formano una vera e propria città inaccessibile e dopo tutti questi anni di chiusura forse nemmeno esistente nell’immaginario della maggior parte dei cittadini.
Questa osservazione mi porta alla questione fondamentale del ruolo della committenza pubblica in tema di qualità urbana. È un obiettivo che compare nel DdP ma che si sfuma quando incrocia l’interesse privato.
Ancora il prof. Consonni.
“L’iniziativa privata può trovare la sua giusta remunerazione partecipando a fare città. Ma occorre che anche gli operatori privati si rendano conto della necessità di una regia da parte dell’Istituzione comunale intesa a conquistare elevati livelli di qualità urbana perseguendo allo stesso tempo l’integrazione sociale. La rivoluzione è prendere atto che l’urbanità è una risorsa per tutti”.
Gli ho obiettato: “ma l’iniziativa privata può trovare la sua giusta remunerazione partecipando dopo a fare città, al momento della presentazione dei singoli piani. Perché questo non è un programma operativo”.
Risposta di Consonni: “l'amministrazione comunale definisce gli indici e i mix funzionali, ma non è in grado di governare gli assetti finali (la reale destinazione d'uso, le sinergie fra le attività e l'architettura dei luoghi). Questi temi sono di fatto delegati ai proprietari delle aree, i quali fin qui in Italia hanno combinato solo disastri. I privati non hanno intelligenza sociale. Per le grandi aree di trasformazione urbana, il compito di indirizzo progettuale deve essere assunta dalla Pubblica amministrazione (in larga parte da rieducare, perché priva di cultura del progetto urbano) anche attraverso un concorso a inviti in cui siano indicate stringenti linee guida, curando con la previsione di pesanti penalità che i progetti non vengano lasciati a metà (vedi, a Milano, lo scalo di Porta Vittoria, City Life o a Saronno l’area ISI)”.
Qui è il caso di fare una notazione significativa: le controdeduzioni si preoccupano della fattibilità delle trasformazioni. Fattibilità è una parola generica che richiede di essere precisata. Vuol dire che l’indice volumetrico concesso per l’edilizia libera deve garantire il livello di profitto e di rendita atteso. Quale sia questo livello purtroppo non è detto, ma lo si può ricavare da uno studio di Roberto Camagni, professore di economia urbana al Politecnico: “si tratta di livelli scandalosi, soprattutto quando si pensa che la plusvalenza complessiva nelle grandi operazioni immobiliari in città come Milano e Roma, si avvicina e talvolta supera il 50% del valore del costruito, al netto del profitto imprenditoriale del costruttore e dello sviluppatore. A Monaco di Baviera e in altre città tedesche il totale delle prestazioni pubbliche in capo all’operatore privato supera il 30% del valore costruito e includono la cessione per ERS”.
C’è in molte osservazioni non accolte il tema della perequazione. generalizzata su tutto il territorio. La perequazione è prevista dalla legge ma non è obbligatoria, è politicamente discutibile e di rischiosa attuazione.
Le volumetrie della perequazione sono il compenso che sarà pagato al proprietario per la cessione di un certo terreno ora agricolo che così entra per esempio nel progetto della rete ecologica multifunzionale capillare. Quello del verde è un tema di certo apprezzabile, ma se ci spostiamo di qualche pagina nella relazione al DdP sul paragrafo del dimensionamento per la trasformazione urbana delle aree in cui quelle volumetrie finiranno devo dare ragione a chi – come Luca Gibello nel Giornale dell’Architettura già nel novembre 2004 – scriveva che “il verde è l'elemento di compensazione rispetto a schemi urbani omologhi e privi di ricerca che prenderanno forme di edifici la cui unica logica riconosciuta è quella immobiliarista”.
E la stessa critica che trovo nel volume “Rapporto dal territorio del 2010” pubblicato dall’INU dove a pag. 394 leggo che “la perequazione diventa un veicolo di collocamento di crediti smerciabili per ogni dove senza rettifica dell'indice territoriale a seconda della posizione e del valore immobiliare dell'area di origine e di recapito, il che equivale a stampare moneta urbanistica di valore variabile a seconda di dove la si scambia”. Il che significa che i volumi generati da un terreno ora agricolo non si sa dove cadranno e quale sarà il loro valore. È un’operazione complicata e rischiosa perché è probabile che le aree di recapito non siano tutte uguali. Suggerisco all’Amministrazione di curare questo delicatissimo passaggio dei diritti edificatori nella banca dei volumi che dovrà istituire.
Se obietto che non c’è bisogno di quei volumi mi sento dire che in questo modo si mette al sicuro il terreno che diventa definitivamente pubblico, ma ogni giorno abbiamo la prova della facilità con la quale il patrimonio pubblico viene venduto per fare cassa: perché dovrebbero fare eccezione questi terreni che compriamo oggi?
Andrebbe poi verificata la legittimità della perequazione su aree che nelle schede sono identificate, come al Catasto terreni, con le categorie dell’agricoltura. E il fatto che molte fossero già standard nel PRG non attribuisce al proprietario un diritto acquisito.
C’è anche un argomento di grande densità teorica e suggestione poetica. Molti dei terreni di perequazione sono residui anche interstiziali di comparto. Secondo Gilles Clément intellettuale paesaggista di fama internazionale sono il “terzo paesaggio”. Tutti i frammenti di paesaggio e di verde hanno solo un punto in comune: sono il rifugio per le diversità.
Ma l’argomento politicamente più forte e direi più attuale è che quei terreni sono beni comuni, una risorsa in fase di esaurimento, che realizza nel cambiamento epocale che stiamo vivendo una dimensione economica, sociale, culturale e politica.
Non sto dicendo che consumiamo suolo, anzi. Il saldo di consumo di suolo in questo PGT è positivo. La cosa è certamente apprezzabile e la previsione di questo PGT è in controtendenza rispetto al PGT di quei 753 comuni lombardi che hanno ipotecato nei prossimi anni una quantità di suolo superiore a quella consumata nel periodo 1999/2007 da tutti i comuni lombardi. Per un’attesa di crescita demografica praticamente nulla, Saronno non ha bisogno di inventare diritti edificabili che in ogni caso sottopongono un ambiente gia stressato a ulteriore carico.
Insomma dobbiamo aver fiducia che quel 56% di cittadini che ha votato per l’acqua pubblica sappia difendere con il voto anche un bene comune come il suolo agricolo.
Nel PGT c’è uno squilibrio tra il sapere e la tecnica impiegati per regolare l’assetto fisico e il sapere delle scienze umane e sociali per pianificare secondo principi di razionalità, di urbanità, di sostenibilità, di bellezza, di mescolanza funzionale e sociale. Nello staff è mancata la figura professionale del sociologo urbanista, nel senso che era prevista in contratto ma che è evaporata alla prima difficoltà.
I modi di uso della città da parte degli abitanti e degli utenti non residenti sono complessi, intensi e in continua trasformazione: trascinano temi strategici quali sicurezza, stili di vita, comportamenti, interessi, bisogni, tutta la fragilità della città.
Il fantomatico sociologo doveva interloquire per il Piano dei Servizi nel quale giustamente si lamenta “l’inadeguatezza del metodo di indagine rispetto alle dinamiche abitative ed al modo di vita odierni, nonché rispetto alle aspettative diffuse, improntate ormai da una concezione del benessere sociale abbastanza poliedrica”. Una frase che contiene tutta la discussione sulla natura degli scenari di trasformazione urbana, dove le dimensioni meramente quantitative degli insediamenti e la rigidità della classificazione degli standard, devono essere una componente ma non la più importante.
Se fosse solo questione di indici e di volumetrie che predeterminano la famosa fattibilità degli interventi parleremmo più di marketing che non della prefigurazione degli assetti urbani che vengono generati.
L’estensore del PdS ha lanciato un segnale d’allarme scrivendo che “il valore sociale di certe funzioni è sempre più spesso implementato dal fatto di appartenere ad un circuito di attività più che dall’adeguatezza della singola struttura che dette funzioni accoglie”. Certo avremmo avuto indicazioni significative per comprendere la complessità degli aspetti sociali coinvolti (a cominciare dal tema della sicurezza) e le distorsioni del modello di sviluppo fondato sulla crescita infinita a spese del territorio. Le responsabilità delle passate amministrazioni per un luogo come Piazza De Gasperi sono lì da vedere. È l’esempio da non ripetere, che ha portato a un impoverimento delle relazioni sociali, a un luogo senza significato, svuotato di memoria e di identità, che crea problemi per la sicurezza e probabilmente danneggia la stessa appetibilità immobiliare. Potremo mettere telecamere a circuito fisso dappertutto ma non avremo mai una città, anzi le telecamere sono la prova dell’assenza di città.
Il PdS ha passato in rassegna l’offerta delle attrezzature pubbliche esistenti o potenziali; ne ha indicato i requisiti (qualità fruibilità e accessibilità) e ha esaminato la domanda espressa o inespressa dei bisogni. Nel concetto di regia per un disegno unitario di città sarebbe stato del tutto pertinente il “Piano strategico della qualità urbana”, per dare a ogni parte della città non solo adeguata dotazione funzionale di attrezzature di servizio, ma anche la risposta ai bisogni sociali diffusi, quelli che costruiscono il senso di appartenenza a una comunità e sono legati al benessere ambientale, che discende a sua volta dal livello di sostenibilità urbanistico-ambientale. Mi si potrà obiettare che si farà luce sull'impatto sociale al momento delle singole operazioni. Peccato che quando se ne presenterà una sarà difficile contrastarla con discorsi tipo carico urbanistico e impatto sociale da verificare. Il rischio è di cedere… magari con fermezza.
In conclusione, io annuncio qui che voterò tutte le osservazioni che scaricano il Piano e ne riducono il dimensionamento, potrebbe anche essere che talvolta sia disallineato rispetto alla mia maggioranza, ma in un’ occasione come questa lo considero un’opportunità, e se sarò il solo a toccare un certo registro, sarà anche una risorsa. Il mio è un invito a valutare, come ammoniva Secchi, l’urgenza di un patto sociale diverso da quello costituzionale e che nel patto deve entrare la città.
Il Piano dopo le osservazioni e fatta salva l’attività del Consiglio Comunale di questi giorni che mi auguro proficua è sì meno peggio di quello adottato, ma sempre insufficiente, perché non forza il cliché dei valori dominanti, omologanti, ma superati dalla crisi strutturale e dall’emergenza ambientale. Sottovalutare questo fatto mette la città in posizione di retroguardia, riapriamo dopo 18 anni gli scenari del futuro tra sogni e concretezze, tra realismo e utopia.
{ Pubblicato il: 23.06.2013 }