[22] Intendo chiarire una questione su cui sicuramente poco si è voluto riflettere, ma di cui forse non si parlerà mai abbastanza. Essa riguarda le norme che stabiliscono le cause di ineleggibilità dei candidati al Parlamento, e in particolare le cause di ineleggibilità legate a situazioni economiche.
L’articolo 10 del d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361 (“Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati”) stabilisce tra l’altro che non sono eleggibili coloro che “in proprio” risultino vincolati con lo Stato per concessioni di notevole entità economica. In applicazione di questa norma la Giunta delle elezioni della Camera, che conta 30 componenti, si è pronunciata tre volte, in tre diverse legislature, sui reclami presentati contro l’elezione di Berlusconi in quanto beneficiario di concessioni radiotelevisive di prima grandezza.
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Vincolati in nome proprio?
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La prima volta, nel 1994 (12. legislatura), la Giunta, presieduta da un componente della maggioranza (contro la prassi che la vuole assegnata a un deputato dell’opposizione), rigettò i ricorsi con un solo voto contrario, quello di Luigi Saraceni (del gruppo dei progressisti federativi, ossia Pds e alleati). Degli altri rappresentanti dell’opposizione, Antonio Soda (progressisti federativi) si schierò contro l’ineleggibilità, insieme con la maggioranza. Per il resto Alfonso Pecoraro Scanio e Francesco La Saponara (entrambi del gruppo progressista federativo, il primo anche vice-presidente della Giunta) si limitarono a avanzare “perplessità sulla legislazione vigente in materia di ineleggibilità”, mentre i rimanenti, ossia i due del gruppo Rifondazione comunista-progressisti, gli ultimi due di quello progressista federativo e i due dei democratici, non si sa se preferirono rimanere silenti o assenti.
Nel 1996 (13. legislatura) la nuova Giunta, questa volta a maggioranza di centrosinistra, si pronunciò di nuovo per la “manifesta infondatezza” dei ricorsi e per l'eleggibilità di Berlusconi (p. 10-12 del resoconto). I due componenti di Rifondazione Comunista, Maria Carazzi e Angelo Muzio, si opposero blandamente (in quanto prima bisognava ragionare sulla locuzione “in proprio” contenuta nell’articolo di legge e distinguere tra le diverse situazioni), e comunque le loro voci risultarono debolissime e assolutamente non raccolte per le dovute conseguenze, né dal partito, né dal resto della "sinistra", invischiata anch'essa in simili conflitti.
Lo stesso Massimo D’Alema, che nel 1994, all’epoca della prima decisione, era segretario del Pds, si ostinò nel 2001 a negare la realtà dei fatti (in tale seduta - scrisse su "l'Unità" in una sua lettera - “i deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come gli altri parlamentari progressisti”). Tuttavia subito dopo nel 2002 (14. legislatura) la Giunta, presieduta da Antonello Soro del gruppo della Margherita, e composta tra gli altri da sette deputati dei DS, tre della Margherita, e uno ciascuno dei Comunisti Italiani, dei Verdi e degli Ecologisti Democratici, archiviò di nuovo, come nelle due occasioni precedenti, i reclami, “ritenendoli infondati”, ma questa volta all’unanimità (p. 9-11 del resoconto).
In nessuno di tali casi perciò la discussione approdò in Assemblea, come pure previsto dal regolamento. Quel che più conta è che, contro una prassi consolidata, solo un estratto succinto e del tutto insufficiente dei loro verbali è stato reso pubblico. L’unica motivazione che ancora oggi risulta giustificare le decisioni di rigetto è quella iniziale del 1994, resa nota, in forma lapidaria, solo nel 1996 dal successivo presidente della Giunta: la quale Giunta, nel prenderne nota, la faceva propria.
Secondo la motivazione così riportata (p. 10 del resoconto), nell'articolo 10 del testo unico “l'inciso «in proprio» doveva intendersi «in nome proprio», e quindi non applicabile all'onorevole Berlusconi, atteso che questi non era titolare di concessioni radiotelevisive in nome proprio e che la sua posizione era riferibile alla società interessata solo a mezzo di rapporti di azionariato”. Infatti, si aggiungeva, “l'espressione «in proprio», di cui alla norma di legge, non si riferisce al fenomeno delle società e tantomeno può essere richiamato nei casi di partecipazioni azionarie indirette”.
Tale interpretazione della norma è stata poi ripresa e accettata pedissequamente fino a oggi, anche da giuristi influenti, a parte il caso del magistrato di Cassazione Vincenzo Marinelli, in particolare nel corso della manifestazione a Roma del 23 marzo 2013 (h. 18:34). Questi ha mostrato come la riduzione della locuzione “in proprio” all’altra “in nome proprio” sia del tutto abusiva, anche perché, se si fosse voluto introdurre una restrizione in tal senso, non si vede perché il legislatore non avrebbe dovuto usare la seconda formula. Ma vale la pena approfondire.
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Personalmente vincolati
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La via migliore per capire il significato dell'espressione in proprio rimane sempre quella di consultare l'autorevole parere di chi l'ha scritta, ossia l'Assemblea Costituente, anche se questa strada non è stata mai battuta nemmeno dagli specialisti. Prima però occorre risalire più indietro nel tempo, agli albori dell’Italia unita, quando per la prima volta si era cominciato a parlare di ineleggibilità politica per motivi economici. Già nel 1862 lo scandalo della Società delle ferrovie meridionali, titolare di una importante concessione dello Stato, aveva posto al centro dell’attenzione il fatto che 14 membri del consiglio di amministrazione e diversi azionisti della società si erano fatti eleggere come deputati al fine di favorire politicamente la società stessa.
La relazione del 15 luglio 1864 dell’apposita commissione d’inchiesta della Camera aveva quindi proposto di “stabilire per legge le incompatibilità delle funzioni di deputato colle funzioni di amministratore di imprese sovvenute dallo Stato e con qualunque altra ingerenza che implichi conflitto col pubblico interesse”. Ma poi la legge 13 maggio 1877 n. 3830 "Sulle incompatibilità parlamentari” all’art. 4 dichiarerà non eleggibili in fatto di concessioni solo “coloro i quali siano personalmente vincolati collo Stato”. In tal modo si restringeva il campo di applicazione della norma a coloro che erano titolari di concessioni “in nome proprio” e si escludeva ogni “altra ingerenza”. Mentre i piccoli concessionari erano ineleggibili, non lo erano in effetti i più grandi.
Tale formulazione si trasmise inalterata alle leggi elettorali successive, compresa quella del 1919. Il fascismo, portando a compimento il sistema maggioritario della legge Acerbo, oltre a abolire, con legge 17 maggio 1928 n. 1019 "Riforma della rappresentanza politica", la facoltà per gli elettori di scegliere i candidati proposti dalla lista o dalle altre liste di regime (articoli 6 e 9), eliminò anche qualsiasi limite alla eleggibilità politica (art. 11). Veniva portato così a regime e fatto prosperare quel circolo vizioso affaristico-istituzionale di cui il sistema di ineleggibilità meramente formale dell’Italia post-unitaria aveva costituito una delle basi più solide.
Era proprio questo circolo che, con la fine del regime fascista e con l’elezione dell’Assemblea Costituente, si volle sradicare dando l’avvio a un sistema del tutto opposto. I primi passi in direzione di un simile circolo virtuoso sarebbero stati mossi con la nuova legge elettorale della Costituente, con la composizione stessa di tale assemblea, con le prime pronunce della Giunta delle elezioni, e con la discussione e il varo di una legge per l’elezione dei futuri parlamenti. Per questo motivo i cambiamenti che furono apportati alla legislazione pre-fascista, in particolare in tema di ineleggibilità, non furono “assai marginali”, come ritiene un’opinione corrente in materia.
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Cambiamenti non marginali
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L'art. 11 del decreto legislativo 10 marzo 1946, n. 74 “Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea Costituente”, utilizzando la formula: "Non sono eleggibili coloro che siano vincolati con lo Stato per concessioni”, riprendeva apparentemente la vecchia norma. In realtà con una mossa strategica introduceva un’innovazione decisiva. Con l’eliminazione dell’avverbio “personalmente” essa includeva anche vincoli di tipo indiretto, non ad personam. Esponendo le ragioni di tale emendamento alla Consulta Nazionale, Amedeo Moscati, del gruppo liberale, chiarì che con esso si “voleva che tutti coloro che avessero una carica eminente nelle funzioni dello Stato non avessero con lo Stato rapporti di interessi che potevano dar luogo a sospetti” (seduta del 19 febbraio 1946, p. 817-818 del resoconto). Attraverso questo decreto legislativo (quello stesso che introduceva per la prima volta il voto femminile) il sistema elettorale di riferimento veniva a mutare in modo radicale.
La linea che si intendeva seguire venne poi esplicitata, tra il settembre e il dicembre 1946, dalla Giunta delle elezioni della Costituente al momento di affrontare il primo ricorso della nostra storia repubblicana - un episodio centrale che rivela la qualità di quella assemblea e che la stacca da tutte quelle che le sono succedute. Si trattava di esaminare la posizione dell’ingegnere Guglielmo Visocchi, come eletto all’Assemblea per l’Unione Democratica Nazionale nella Circoscrizione di Roma. Questi da una parte si era trovato a godere di concessioni per l’utilizzazione di cospicue quantità di acque pubbliche a fini idroelettrici, che poi aveva ceduto a una società anonima (o per azioni) di cui era socio, e dall'altra parte era presidente e azionista per la metà del capitale di una società anonima titolare di una concessione per lo sfruttamento di una miniera di manganese.
La Giunta incaricò il proprio vicepresidente Ruggero Grieco, che ricopriva anche il ruolo di vicepresidente del gruppo comunista, di svolgere in Assemblea la relazione nel merito. In essa Grieco fece risaltare il fatto che “questa società (a cui l’ingegnere Visocchi chiese che fosse intestata la concessione e che egli costituì appositamente a quel fine, sottoscrivendo metà del capitale e riservandosi la carica di presidente) è stato semplicemente un mezzo per sfruttare più comodamente la miniera”. Visocchi insomma aveva disposto le cose in modo che tale società figurasse come la “titolare formale [sottolineato nell’originale] di un affare sostanzialmente suo.” Di qui la conclusione di Grieco: “i molteplici rapporti di concessioni statali in cui l’ingegnere Visocchi entra, o in una veste o in un’altra, dimostrano quanto siano estesi gli interessi personali del Visocchi, in contrasto con quelli dello Stato”, e quindi la fondatezza di una pronuncia di ineleggibilità. Infine lo stesso Grieco confutava la tesi di una presunta abrogazione per desuetudine di una norma che nella prassi parlamentare del passato non aveva trovato applicazione: “nessuno vorrà sostenere che l’efficacia di una norma imperativa di diritto venga meno soltanto perché in una o più occasioni non è stata osservata.”
Nel corso della discussione in Assemblea si sottolineò come l’articolo 11 della legge elettorale mirasse appunto a spezzare il circolo vizioso che aveva portato al fascismo e che lo aveva alimentato. In nessun modo il socio di una società avrebbe più potuto “farsi schermo della teorica distinzione fra le persone fisiche dei soci e la personalità giuridica della società” (Enrico Molè, p. 808 del resoconto). Per questi motivi l'Assemblea confermò l'ineleggibilità di Visocchi.
Tuttavia la norma di legge, così come era formulata, appariva incompleta e prestava il fianco a interpretazioni cavillose. Perciò Sandro Pertini, come relatore della Giunta in un'altra seduta, sollecitò l'approvazione di "una nuova legge elettorale più drastica in questa materia": occorre - concluse - rendere "ineleggibile chiunque sia vincolato da interessi con lo Stato” (p. 2 del resoconto). Aderendo a tale invito e per sventare il tentativo del governo di reintrodurre l'avverbio "personalmente" nella formulazione della norma sull'incompatibilità in materia di concessioni (art. 15 del suo d.d.l.), la Costituente dette l'incarico a una commissione apposita di redigere un nuovo disegno di legge per l'elezione della Camera da applicarsi poi anche al Senato, d.d.l. il cui articolo 2-quinquies che qui interessa fu discusso e approvato nella seduta del 16 dicembre 1947 (p. 3254 del resoconto).
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Vincolati nel proprio interesse economico
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In generale, sia la Commissione che l'Assemblea ritenevano acquisito il principio che era stato fatto proprio dalla Giunta delle elezioni secondo cui, nell’esaminare la posizione delle persone, non ci si deve arrestare al livello formale dei rapporti. Ciò che rileva è in primo luogo il rapporto materiale degli interessi, il loro profilo economico sostanziale, che, per poter essere preso in considerazione, deve essere di "notevole entità". Perciò l’avverbio “personalmente” fu cancellato dal lessico dell'ineleggibilità. Al suo posto, con l'inserimento nel nuovo art. 2-quinquies di due frammenti, venne dato rilievo alla tensione che si stabilisce tra il proprio interesse di coloro che hanno rapporti d’affari con lo Stato e il pubblico interesse che dovrebbe essere tutelato da quest’ultimo.
In nessun momento della discussione risulta che qualcuno dell'Assemblea abbia voluto dare alla locuzione "in proprio", che in tali contesti veniva utilizzata per la prima volta, un senso neanche lontanamente riconducibile a "in nome proprio". Tutto all'opposto, nel corso del dibattito fu sottolineato che, nel caso di concessioni o autorizzazioni di notevole entità economica, a entrare in conflitto con il pubblico interesse non è il nome, ma l’interesse di chi risulta vincolato in proprio (interventi di Umberto Grilli e di Vito Reale, p. 3246 e 3250 del resoconto). La norma presentata riguardava infatti coloro "i quali hanno rapporti di affari di milioni con lo Stato o hanno ottenuto concessioni che fruttano loro milioni" (intervento di Ludovico Sicignano, p. 3244). Come si faceva notare, in tali casi si tratta di impedire "la possibilità che il deputato adoperi, a proprio beneficio o a beneficio della società che rappresenta, la propria influenza" (intervento di Umberto Nobile, p. 3245). Tra coloro considerati ineleggibili non vi sarebbero più stati i piccoli concessionari vincolati personalmente, ma i grandi, a qualsiasi titolo essi si trovino vincolati.
Fu soprattutto l’intervento di Mauro Scoccimarro, presidente della commissione incaricata del d.d.l. (e, insieme con Grieco, vicepresidente del gruppo comunista), che chiarì il pensiero comune della Commissione e indicò nell'ineleggibilità fondata su un legittimo sospetto il principio generale a cui il disegno di legge si ispirava: “quando l’esercizio, l’uso od usufrutto di determinate concessioni od autorizzazioni possono far nascere il legittimo sospetto che servono a conquistare posizioni elettorali che altrimenti non si conquisterebbero, allora si afferma un principio di ineleggibilità.” Ma tale principio si afferma attraverso la duplice valutazione dell’esistenza di fatto e dell'entità economica dei vincoli e dei relativi obblighi, indipendentemente dalla loro formulazione giuridica:
"non si possono avere rapporti di affari con lo Stato che importano miliardi, qualunque sia la formula giuridica del rapporto, e sedere in quest'Aula! (...) Gli affaristi facciano pure i loro affari ma non pretendano di assumere anche il compito della direzione della cosa pubblica. Non mescoliamo le due cose, come troppo ha fatto il fascismo, e come taluni, pare, pensano di continuare a fare anche oggi, continuando così il costume fascista."
Per questo occorreva considerare il fascismo come un fenomeno di più lunga durata rispetto a quanto si riteneva abitualmente, il cui nucleo più forte era dato dal nesso economico-istituzionale: “dopo venticinque anni di fascismo durante i quali in quest’Aula hanno seduto i più loschi affaristi (…) c’è ancora in Italia chi pensa che è possibile servirsi degli affari per conquistare una posizione politica e servirsi poi della conquistata posizione politica per potenziare i propri affari” (p. 3247 del resoconto).
La nuova norma, nella formulazione approvata dalla Costituente e senza essere più cambiata, entrò prima nella legge 20 gennaio 1948 n. 6 (art. 7), poi nel d.p.r. 5 febbraio 1948, n. 26 "Testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei Deputati" (art. 8), e infine nel d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361 (art. 10). Quello che invece venne a modificarsi fu l'atteggiamento delle forze parlamentari, in particolare di quelle formalmente d'opposizione: una causa essenziale dell'involuzione successiva, così vistosa nell'ultimo ventennio.