[23] Sport come esempio estremo, e del vivere e del morire.
Il cuore, i muscoli, come parti di un meccanismo complesso, fortissimo e fragile, che è il corpo.
In un’epoca di grandi malattie ed altrettanto grandi illusioni di invulnerabilità l’individuo si scopre colpito quando meno se lo aspetta; e allo stesso tempo, però, capace di guarire, di reagire al destino, grazie all’evoluzione medico-scientifica.
A volte però l’aggressione della patologia è troppo violenta perché vi si possa resistere, in qualunque modo.
E davanti all’inevitabile all’uomo senziente non resta che la scelta di un’opposizione orgogliosa e talora vana, quando opporsi sia almeno teoricamente possibile.
Se questo ci impressiona nella vita quotidiana, ci impressiona ancora di più laddove accada in ambiti speciali, o in qualche modo privilegiati, o addirittura – per così dire – insospettabili.
Fino a pochi anni fa il mondo dello sport rappresentava uno di questi ambiti di insospettabilità.
Atleti invincibili, senza limiti, forti principalmente nella propria volontà di primato, di vittoria, risultavano tuttavia capaci di trasfondere quella eccezionalità di spirito e disciplina nel corpo.
Corpo che si è però progressivamente scoperto, con il passare del tempo, esposto a rischi e fragilità assai meno straordinarie del destino agonistico di molti campioni.
Negli ultimi anni non pochi atleti sono morti in modo più o meno traumatico, ma sempre certamente doloroso e scioccante per il terribile contrasto che emerge tra la vitalità e l’energia della prestazione sportiva, e la caducità dell’esistenza; di qualsiasi esistenza.
Sui perché di una fragilità divenuta progressivamente più frequente (perché più frequenti sono le malattie e i decessi in ambito sportivo) da tempo esiste un dibattito serrato, in cui si confrontano diverse scuole di pensiero. C’è chi è convinto che le abitudini farmacologiche consolidatesi negli ultimi trent’anni possano aver inciso sulle statistiche, e chi pensa invece che nessun reale nesso causale sia stato (o addirittura possa essere, allo stato) comprovato.
Questo non toglie che in proprio questi giorni, in cui cadeva la ricorrenza del decimo anniversario della scomparsa di Marc Vivien Foe, calciatore camerunese morto ventottenne, in campo (nel corso di un match di Confederations Cup, a Lione) sia venuto a mancare uno dei calciatori che più avevano commosso – con la propria storia – il pubblico italiano: Stefano Borgonovo, ucciso a 49 anni dalla sclerosi laterale amiotrofica.
Sono casi che nulla hanno, evidentemente, in relazione; eccetto appunto l’essere loro calciatori e la quasi perfetta coincidenza delle date in cui questi episodi cadono. Uno a dieci anni dall’altro. Ebbene, nei dieci anni che trascorrono dalla morte di Foe (che fu il primo episodio di morte in campo dopo diversi lustri in cui la miglior prevenzione e – generalmente – i progressi della medicina sportiva, avevano assai limitato l’incidenza di analoghi fenomeni) e l’addio a Borgonovo (ennesima vittima di un male che colpisce i calciatori con frequenza assai superiore alla media) molti sportivi, non solo nel calcio, hanno perso la vita durante lo svolgimento della prestazione agonistica, o comunque ancora in giovane età, o per malattie – appunto – più frequenti tra gli ex atleti di quanto non siano normalmente.
In questi dieci anni (forse anche da un po’ prima, considerando i casi di fine anni ’90, tra cui quello, clamoroso, della Joyner) l’aura di invulnerabilità che circondava gli uomini e le donne di sport, e – almeno per noi europei – particolarmente i calciatori, si è enormemente ridotta, fino a non farci più avvertire differenze significative, tra il destino di pochi e quello di tutti.
Le imponderabilità dell’esistenza cadono trasversali sulle esistenze di ciascuno di noi, assai più di prima. In difetto di spiegazioni scientifiche plausibili si potrebbe ritenere che la velocità dei tempi, unita alla presunzione di poter esorcizzare il rischio – come naturale condizione umana – siano elementi, se non sufficienti, certamente concorrenti a motivare una maggiore precarietà percepita del nostro essere uomini.
Oggi nulla sfugge alle nostre lenti di ingrandimento mediatiche, alla nostra curiosità di spettatori e – talora – ad un vero e proprio voyeurismo che la comunicazione contemporanea consente, quando addirittura non sollecita.
Così scopriamo, con una qualche sorpresa, che si vive e tuttavia si muore di più. Quel che, vero o meno, diventa un fatto percepito, un convincimento che è portato della maggior comunicazione di cui disponiamo, esattamente come la possibilità di acquistare qualsiasi tipo di prodotto, lecito o illecito (anche medico o alimentare), via internet.
Insomma, conseguenze assai diverse di una nuova, comune, civiltà dell’informazione, che è più veloce in tutto.
Dalla cognizione dei fatti alla loro interpretazione, dalla formulazione di ipotesi allo stesso doping (come ipotesi illecita, che parimenti più velocemente può concretarsi).
Che le vite stesse, su questa vera e propria pista che diventa la società moderna, risultino o siano – allo stesso modo – più veloci, non può stupirci.
Ma non inganniamoci, né cerchiamo strade eccessivamente semplici o comode. Malattie come quelle di Borgonovo colpiscono da secoli, e la morte improvvisa per arresto cardiaco non è certo una patologia recente. Oggi però noi sappiamo di più di queste vicende, come di molte altre. Conosciamo più e meglio di prima gli agenti patogeni, e conosciamo anche le cure. Non ci sfugge che i casi siano in crescita, ma in qualche modo possiamo abituarci all’idea che tutto ciò dipenda, in qualche modo, anche dai tempi.
Da quei tempi che abbiamo descritto, poco più sopra, come generatori di accessi incontrollati: tanto alle informazioni – esatte o meno che siano – quanto a pericolosi principi attivi, quanto ad una cattiva coscienza di noi medesimi.
Giusti o sbagliati che li vogliamo considerare, questi tempi, in essi si muore o si vive, o si sopravvive, con la velocità che li contraddistingue.
E’ spesso un lampo, buono o cattivo che la sorte lo riservi - come tale - al destino di ciascuno.
Poi è evidente che una diagnosi più approfondita – lo si è scoperto successivamente – avrebbe potuto salvare Foe, e vogliamo sperare con ragione che la ricerca farà sì che tra 10 anni la Sla possa essere più efficacemente contrastata.
Ma è altresì indiscusso che nuove insidie continueranno a costellare una vita sempre più travolgente in ritmi, quantità di dati, accessi, immagini, azioni, tensioni, impegni e – in ultimo – anche malattie.
Questo è il rischio cui siamo socialmente esposti, che Altan con cinico disincanto descriveva in una vignetta di qualche anno fa.
Un paziente allettato guarda il medico e dice: “Dottore, non voglio morire”.
Il medico lo osserva con sguardo freddo e gli risponde: “Non si può fermare il progresso”.
Anche questa, se vogliamo, una lettura illuminante – per quanto cinica e dolorosa – di quell’ipotesi di democrazia che stiamo in qualche modo azzardando.
{ Pubblicato il: 07.07.2013 }