[da Critica liberale vol. XVI n. 164 giugno 2009]
[28] I fatti di sapore boccaccesco di recente narrati dalla stampa, ma forse anche i comportamentimeno recenti sottoposti più volte al vaglio dell’autorità giudiziaria, non permettono di considerare lo stile di vita dell’attuale presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, particolarmente coerente con la morale cattolica. Da questo punto di vista, e giudicando evidentemente le azioni e non le coscienze, appare indubbiamente più in sintonia con l’etica tradizionale il tenore di vita dell’ex presidente del consiglio Romano Prodi. Si capisce, quindi, perché molti cattolici, che ricordano le dure prese di posizione delle gerarchie vaticane nei confronti del governo Prodi, non nascondano il loro stupore e la loro indignazione di fronte alle critiche sfumate e piene di garbo rivolte dall’autorità ecclesiastica al governo Berlusconi. Ora, mentre l’indignazione mi pare assolutamente condivisibile, specialmente se si traduce in azioni conseguenti, lo stupore mi sembra invece del tutto ingiustificato, dato che l’atteggiamento vaticano non è affatto frutto di una scelta estemporanea: si muove al contrario nel solco di una lunga tradizione. Come ha giustamente osservato VittorioMessori, «In quanto rappresentanti dell’istituzione ecclesiale il segretario di Stato e il presidente della Cei non hanno ruolo di direzione spirituale. La Chiesa ha firmato Concordati con Napoleone, Hitler, Mussolini, non proprio cristiani esemplari. [...] Se la Chiesa giudicasse i vizi privati non potrebbe collaborare, come fa, con politici dalla vita privata condannabile e censurabile» (“Corriere della sera”, 26-5-09).
Ma se da secoli la gerarchia ecclesiastica ha sempre cercato l’intesa con i detentori del potere, purché questi promuovessero anche per via legislativa la sua influenza sulla società, è evidente che la situazione attuale non è un incidente di percorso. La questione, in effetti, è molto più grave: si tratta di una scelta che non dipende da questo o quel papa ma ha un ben preciso
fondamento teorico. Se si ripercorrono le tappe di tale sviluppo dottrinale, infatti, la politica vaticana appare perfettamente coerente e tutt’altro che imprevedibile.
Stando ai vangeli, Gesù non aveva una buona opinione delle autorità politiche: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi» (Matteo 20, 25-26). E i vangeli presentano i capi religiosi addirittura come i più accaniti avversari di Gesù: «I sommi sacerdoti e le guardie gridarono: Crocifiggilo, crocifiggilo! » (Giovanni 19, 6). L’annuncio originario, in effetti, appare come un messaggio pericoloso per tutti coloro che gestiscono una qualche forma di potere: il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato amani vuote i ricchi» (Luca 1, 52-53). Infatti, nel corso dei primi secoli i cristiani saranno rifiutati dai capi religiosi di Israele e subiranno varie persecuzioni da parte dell’impero romano. E nel potere di Roma, la nuova Babilonia, garante di un ordine che giudicano intollerabile, le prime comunità cristiane vedono la fonte di ogni corruzione: «La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in
mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra» (Apocalisse 17, 4-5). L’atteggiamento dei cristiani nei confronti del potere, però, cambia radicalmente nel IV secolo quando l’impero legalizza, con Costantino, la loro professione di fede e addirittura, con Teodosio, la rende obbligatoria. Come non collaborare con imperatori che si pronunciano a favore del cristianesimo? Se usano il loro potere a vantaggio dell’istituzione ecclesiastica e dei suoi valori, sembra inevitabile fornire loro ogni appoggio, quale che sia la loro condotta privata. Del resto, è sempre possibile trovare nella Scrittura passi che possano giustificare l’obbedienza all’autorità. In proposito il testo più utilizzato sarà quello di Paolo nella Lettera ai Romani: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (13, 1).
Non stupisce, quindi, che Agostino d’Ippona (354-430), che ha vissuto buona parte della sua vita sotto un impero divenuto cristiano, nel De civitate Dei elogi, senza accennare ad alcun loro comportamento riprovevole, i politici che
hanno protetto la Chiesa.Anzitutto Costantino: «Il buon Dio [...] colmò Costantino, che non propiziava i demonima adorava lo stesso Dio vero, di tanti favori terreni quanti non si oserebbe desiderare. [...] Egli [...] fu sempre vittorioso nel dirigere e condurre le operazioni belliche, ebbe successo sotto ogni aspetto nell’eliminare gli usurpatori, morì già avanti negli anni di malattia
e di vecchiaia e lasciò l’impero ai figli» (V, 25); e poi Teodosio, che «dall’inizio dell’impero non cessò di soccorrere con leggi giuste e clementi contro i miscredenti la Chiesa travagliata. [...] Diede ordine che gli idoli dei pagani fossero abbattuti in ogni parte dell’impero perché capiva che anche i valori terreni non sono posti in potere dei demonima del veroDio» (V, 26,1).
Egli stesso, d’altronde, come vescovo si era reso conto di quanto fosse importante godere dell’appoggio del potere politico. Terminata, infatti,
la persecuzione scatenata nel 303 da Diocleziano, tanti credenti che avevano abbandonato la loro fede erano tornati al cristianesimo, e ciò aveva provocato, soprattutto inAfrica, una profonda divisione tra chi era disposto al perdono e
chi chiedeva la loro definitiva esclusione dalla Chiesa. Questi ultimi, chiamati ‘donatisti’ dal nome di un loro leader, il vescovo Donato, non riconoscevano, perciò, i sacerdoti e i vescovi consacrati da chi aveva tradito la fede e ritenevano che i sacramenti non fossero validi se non amministrati da persone degne.
La situazione era complicata anche dal fatto che ilmovimento donatista si diffondeva a macchia d’olio perché sosteneva le rivendicazioni dei contadini in lotta contro i grandi proprietari terrieri, protetti da Roma, i quali, pur dicendosi
cristiani, continuavano a sfruttarli: i credenti, affermavano infatti i donatisti, hanno il diritto di giudicare anche i comportamenti delle autorità terrene alla luce del vangelo. In Africa, quindi, accanto a centinaia di vescovi cattolici
ce ne erano altrettanti donatisti e tra le due fazioni la convivenza non era affatto facile: le violenze erano anzi all’ordine del giorno ed era urgente porvi fine. Ebbene, Agostino si impegna a fondo nella lotta contro le idee dei donatisti,
che a suo parere, attribuendo ai fedeli il diritto di giudicare la condotta delle autorità politiche e religiose, e perciò di rifiutare obbedienza a chi
fosse ritenuto indegno, renderebbero impossibile una società ordinata e pacifica.
I laici cristiani, invece, secondo Agostino non possono rifiutare l’autorità di vescovi e sacerdoti debitamente consacrati perché l’efficacia della loro azione non dipende dalla loro dirittura morale ma da Dio stesso, che si serve di
loro come di semplici strumenti: un sacramento amministrato da un prete indegno ha perciò gli stessi effetti per chi lo riceve di quello amministrato da un prete dalla condotta esemplare.
E non è diversa la situazione per quanto riguarda le autorità terrene: bisogna prestare obbedienza anche a sovrani o a padroni ingiusti. Agostino sa bene, infatti, che in genere i detentori del potere politico agiscono per brama di dominio e di ricchezza, tanto che ciò che distingue i governanti dalle bande di briganti spesso è solo l’entità delle loro rapine: «Se la bandamalvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell’ambizione di possederema da una maggiore sicurezza nell’impunità» (De civitate Dei IV, 4).Ma questo non è unmotivo sufficiente per non riconoscerne l’autorità perché ribellarsi ai superiori – lo afferma esplicitamente Paolo – significherebbe opporsi «all’ordine stabilito da Dio [... e quindi attirarsi] addosso la condanna» (Romani 13, 2).
Del resto Agostino sta elaborando una visione sempre più pessimistica della natura umana, segnata dal peccato originale: non ci si può illudere di creare una società giusta in un mondo di peccatori. Se le ingiustizie sono inevitabili, l’accettazione delle sofferenze terrene accresce i nostrimeriti e ci prepara al premio celeste. La bibbia, infatti, non invita alla ribellione ma alla rassegnazione: una lettera attribuita a Pietro, per esempio, esorta i servi a restare sottomessi ai padroni anche quando questi fossero ‘malvagi’ (e non ‘difficili’, come suona l’attuale traduzione ufficiale). Ecco il testo, nella versione latina usata da Agostino: «Servi, subditi estote in omni timore dominis, non tantumbonis et modestis sed etiam pravis» (1 Pietro 2, 18).
La coscienza della fragilità dell’uomo di fronte alla seduzione del peccato induce, poi, Agostino a rivedere le sue posizioni riguardo all’opportunità di imporre la fede con l’aiuto dello stato. Infatti, mentre prima riteneva che «nessuno dovesse essere condotto per forza all’unità di Cristo, ma si dovesse agire solo con la parola» (Lettera 93, 5,17), cambia idea in seguito ai brillanti risultati conseguiti col ricorso alla repressione. Le conversioni ottenute con le minacce e con le punizioni si moltiplicano e anche tanti contadini tornano alla Chiesa grazie alle frustate dei loro padroni, come accade per esempio a Tagaste, la sua «città natale, che mentre prima apparteneva interamente al partito donatista,
s’era poi convertita alla Chiesa cattolica per paura delle sanzioni imperiali» (ivi). Questa esperienza ha, quindi, rafforzatoAgostino nella convinzione che bisogna obbedire sempre, anche se fossero colpevoli dei peggiori delitti, non solo
ai responsabili religiosi ma anche a quelli politici, il cui sostegno è di grande vantaggio per la Chiesa nell’adempimento della sua missione: guidare gli uomini all’eterna salvezza, l’unica cosa che conti assolutamente.
Come in altri campi, anche per quanto riguarda la concezione del potere le idee di Agostino avranno enorme successo e diventeranno dottrina ufficiale della Chiesa. Pochi anni dopo la sua morte infatti, il vescovo di Roma Leone I (440-461) elabora una ecclesiologia di tipo monarchico che si consoliderà nel corso dei secoli, tanto che il suo autore per certi versi può essere considerato il primo vero e proprio papa della storia: la Chiesa è una società gerarchica al cui vertice c’è il successore di Pietro, responsabile di tutta la cristianità, poi i vescovi, responsabili delle chiese locali, infine il clero e da ultimo i semplici fedeli.
Questi ultimi non possono esercitare alcun controllo sull’autorità perché il potere non viene dal basso ma dall’alto. Attraverso i suoi successori è «Pietro [... che] non abbandona il governo della Chiesa» sicché, afferma Leone, è giusto che «si onori nella mia umile persona colui nel quale persevera la sollecitudine di tutti
i pastori e la cura delle pecore che gli sono state affidate, e la cui dignità non viene meno neppure nell’indegno successore» (Terzo Discorso di S. Leone nel suo giorno natalizio, tenuto nell’anniversario della sua consacrazione). Ispirandosi al diritto romano, Leone sostiene quindi che, come l’erede acquista lo stesso status del defunto, così il papa eredita la pienezza dei poteri di Pietro. Grazie a questa distinzione tra la dignità delministero apostolico e l’eventuale indegnità di chi ricopre quella carica, la Chiesa ha così assicurato la stabilità di un’istituzione che ha resistito nei secoli nonostante la presenza di tanti pastori davvero indegni.
Se questa teoria ha rafforzato l’istituzione ha però privato i credenti del diritto di giudicare l’operato delle autorità ecclesiastiche alla luce dei criteri evangelici e li ha trasformati in un gregge la cui fedeltà va misurata col metro dell’obbedienza. E non va sottovalutato il fatto che il primato del vescovo di Roma teorizzato
da Leone è stato imposto per legge. Nel 445, infatti, l’imperatore d’Occidente Valentiniano III (425-455) emana un editto che afferma che, in virtù deimeriti di Pietro e della dignità di Roma, il suo vescovo ha sempre avuto tale primato e
che ogni decisione della Chiesa di Roma ha in tutta la cristianità valore di legge, la cui violazione costituisce reato di lesa maestà. Si capisce che in tale contesto Leone non possa preoccuparsi troppo dei delitti commessi da Valentiniano,
come del resto Agostino non si era preoccupato di quelli commessi da Onorio (393-423), predecessore e zio dello stesso Valentiniano. Nel medioevo, il potere della sede romana si rafforza progressivamente: se nel Natale dell’800 è il papa Leone III che dà la corona imperiale a CarloMagno, nel 1075 GregorioVII
proclama che al papa spetta il diritto di giudicare l’operato dell’autorità politica e perciò a lui «è lecito deporre l’imperatore» (Dictatus Papae, 12), mentre il papa, «santificato dai meriti del beato Pietro» (ivi, 23), «nessuno lo può giudicare
» (ivi, 19).Alla fine delXII secolo Innocenzo III arriverà ad affermare con un’immaginemolto efficace che «come la luna riceve la sua luce dal sole […] similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità» (Lettera Sicut universitatis conditor).
Ormai è fuori discussione che il potere viene dall’alto e che c’è una sola autorità suprema, quella del papa, da cui dipendono anche i sovrani, i cui poteri possono eventualmente essere limitati dal papama non dai sudditi. E infatti nel 1215
Innocenzo III annulla la Magna Charta libertatum con cui Giovanni Senza Terra accettava restrizioni al suo potere imposte dal basso: i baroni inglesi, che con quel documento avevano strappato al re una serie di diritti, vengono scomunicati
appunto perché hanno usurpato una prerogativa che spetta solo al pontefice.
Le autorità politiche, in sostanza, agiscono solo su delega del papa, come agli inizi del ‘300 dichiarerà esplicitamente Bonifacio VIII: «in questa unica e sola Chiesa ci sono un solo corpo e una sola testa, non due, come se fosse un mostro [... e quindi] sono ambedue in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella
materiale [simboli dell’autorità spirituale e temporale]; una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo la volontà e col permesso del clero, perché
è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale» (Bolla Unam sanctam).
In questa prospettiva, se non resta alcuna autonomia agli imperatori, è evidente che a maggior ragione i sudditi possono solo obbedire al papa e ai sovrani, sempre che costoro siano da lui approvati. Questa obbedienza, proclama con
lamassima solennità BonifacioVIII, è infatti condizione imprescindibile per la salvezza: «Pertanto noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo e affermiamo
che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al romano pontefice» (ivi). Privati del diritto di giudicare l’operato delle autorità politiche, e ancor più di quelle religiose, e obbligati a
un’obbedienza incondizionata, i fedeli sono così ridotti alla condizione di eterni minorenni.
Quando comincia ad affermarsi la modernità, queste vecchie idee vengono evidentemente messe in discussione e alla fine del Settecento
nei Paesi all’avanguardia dal punto di vista economico e culturale si diffondono quei principi di libertà e uguaglianza che sono incompatibili con la teoria tradizionale secondo la quale il potere viene dall’alto e i sudditi debbono
solo obbedire. Si comprende quindi come, da poco scoppiata la rivoluzione francese, nel 1791 Pio VI ritenga necessario intervenire subito per
ribadire che, perché gli uomini possano vivere in società, i diritti di libertà debbono essere «vincolati dalle leggi e dalla suprema potestà dei Regnanti;
da ciò consegue direttamente ciò che insegna Sant’Agostino dicendo: È un patto generale della società umana ubbidire ai propri Re. Pertanto, questa potestà non deriva tanto dal contratto sociale, quanto da Dio stesso, autore del retto e del giusto. Ciò pure affermò l’Apostolo nella lettera ai Romani, cap. 13, 1» (Quod aliquantum). E segue, come era facile prevedere, la famosa citazione di Paolo secondo la quale ogni potere proviene da Dio e chi si ribella si avvia alla dannazione.
Gli interventi pontifici non valgono ovviamente ad arrestare la progressiva presa di coscienza dei valori di libertà e uguaglianza. Invano, infatti, Pio IX riassume nel Sillabo del 1864 lemolteplici condanne già pronunciate, rigettando tutte le nuove idee e proclamando che il Romano Pontefice non può né deve riconciliarsi
e venire a composizione col progresso, col liberalismo e colla moderna civiltà» (LXXX). Eppure, alla fine dell’Ottocento, sebbene l’idea della sovranità popolare trovi sempre nuovi sostenitori e la tesi dell’origine divina del potere appaia un relitto del passato, Leone XIII torna a ribadire la concezione tradizionale e anzi ne offre la formulazione più compiuta. Essendo nella sua ottica fuori discussione
l’autorità religiosa, il papa si preoccupa di ribadire che i detentori del potere politico – che lo abbiano ottenuto permotivi dinastici o in seguito al voto popolare o a un colpo di stato coronato da successo – in ultima analisi lo ricevono da
Dio: perciò, poiché «l’autorità di chi governa proviene da Dio», per i cittadini «è giusto e doveroso seguire i dettami dei Principi e tributare loro ossequio e fiducia con quella sorta di devozione che i figli devono ai genitori. [...] Spregiare il potere legittimo, in qualsiasi persona esso s’incarni, non è lecito più di quello che sia l’opporsi alla volontà divina: chi si oppone a questa, precipita in volontaria rovina» (Immortale Dei, 1885).
Se il potere ‘in qualsiasi persona esso s’incarni’viene dall’alto, è evidente che i sovrani «tra i loro più sacri doveri devono porre quello di favorire la religione, difenderla con la loro benevolenza, proteggerla con l’autorità e il consenso
delle leggi, né adottare qualsiasi decisione o norma che sia contraria alla sua integrità» (Ivi). In tutte le questioni attinenti alla religione devono quindi sottomettersi al magistero della Chiesa, perché «Tutto ciò che nelle cose umane
abbia in qualchemodo a che fare col sacro, tutto ciò che riguardi la salvezza delle anime e il culto di Dio, che sia tale per sua natura o che tale appaia
per il fine cui si riferisce, tutto ciò cade sotto l’autorità e il giudizio della Chiesa» (ivi). Promuovere l’influenza della Chiesa sulla società – Leone XIII ci tiene a sottolinearlo – è nell’interesse stesso del potere politico: infatti, «le ragioni della religione e dell’impero sono così strettamente congiunte che di quanto
viene quella a scadere, di altrettanto diminuiscono l’ossequio dei sudditi e la maestà del comando» (Quod apostolici muneris, 1878), mentre l’obbedienza alle leggi è favorita «dalla religione, la quale con la sua forza influisce sugli
animi, e piega le stesse volontà degli uomini affinché obbediscano ai reggitori non soltanto con l’ossequio, ma altresì con la benevolenza e con la carità» (Diuturnum, 1881).
Nel Novecento, con l’eccezione della breve parentesi del ConcilioVaticano II, la concezione del potere, non solo quello religioso ma anche quello temporale, non cambia. Certo, avanzando il processo di secolarizzazione e diffondendosi
i regimi democratici, diventa più difficile pretendere che le leggi siano conformi ai dogmi della religione cattolica. Occorre, quindi, trovare un escamotage che consenta dimantenere la propria influenza sulla società. Ed ecco la soluzione: al magistero spetta il compito di valutare l’operato dei governanti se non alla luce
di una fede particolare, quella cattolica, almeno sulla base della ragione, capace di stabilire principi universali fondati sulla natura umana.
La democrazia intesa nell’accezione corrente, e cioè come attuazione della volontà di una maggioranza formatasi in seguito a libere elezioni, non sarebbe infatti un valore assoluto. L’opera del legislatore, per essere davvero democratica, deve attenersi, sostiene Giovanni Paolo II, ai principi della legge naturale: «la democrazia non può essere mitizzata [...]. Fondamentalmente,
essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. […] il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove […].Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli
«maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto “legge naturale” iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile» (Evangelium vitae n. 70, 1995).
Ma della legge naturale la Chiesa romana ovviamente si proclama infallibile custode, e perciò la sostanza non muta perché ancora oggi la gerarchia ecclesiastica continua a rivendicare il diritto di richiamare i parlamenti al rispetto
di quell’insostituibile ‘punto di riferimento normativo’, anche se, con abile svolta terminologica, i giudizi espressi dal magistero sulla legislazione degli stati sono presentati non come esercizio di potere ma come forma di servizio.
È evidente, quindi, che il Vaticano si sentirà tanto più in sintonia con un governo quanto più esso simostrerà disposto ad accettare la sua supervisione
e su ciò nessun ripensamento sarà possibile per le eventuali critiche di associazioni cattoliche e di singole personalità del laicato o del clero, verso cui si mostrerà tuttavia comprensione come nei confronti delle proteste di ragazzi
un po’ ingenui e indisciplinati. Le scelte della gerarchia ecclesiastica infatti – è ancora questa la teoria vigente – non possono essere giudicate da nessuno, mentre ad essa e non ai semplici fedeli spetta il compito di giudicare l’operato dei governanti.
Se questa è la dottrina, non ci si può quindi stupire affatto del sostegno delle gerarchie vaticane al presidente Berlusconi che, poco prima di recarsi in Vaticano, alla trasmissione di Canale 5 Panorama del giorno dichiara: «L’attività
del governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa. Siamo dalla parte della Chiesa. Crediamo nei valori della tradizione cristiana, nel valore irrinunciabile della vita, nel ruolo della famiglia e nella difesa dei diritti umani» (6-6- 2008). Tanto più che alle parole seguono i fatti: difesa della famiglia tradizionale, tutela della vita dal concepimento al suo termine naturale,
finanziamento della scuola cattolica... Il precedente governo, invece, non solo
aveva proposto di riconoscere alcuni diritti alle coppie di fatto, anche se omosessuali, ma addirittura il presidente Prodi formulava una tesi di
carattere generale: i cattolici adulti, anche se laici, devono assumersi la responsabilità di decidere autonomamente seguendo la propria coscienza
e i governanti devono avere come punto di riferimento non i diktat vaticani ma la costituzione repubblicana. Per le gerarchie ecclesiastiche si tratta evidentemente di una tesi inaccettabile perché mette in discussione la loro pretesa di modellare per mezzo di docili governanti – sinceri credenti o atei clericali, poco importa – i costumi della società.
Ma senza la collaborazione dello stato il magistero ecclesiastico non riuscirebbe a imporre i propri valori. Lo si è visto già nell’Ottocento:
la secolarizzazione della società europea è stata una conseguenza dello stato liberale, che teorizzava la separazione tra sfera politica e religiosa. Ben a ragione Pio IX aveva condannato tempestivamente la tesi per cui «è da separarsi la Chiesa dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa » (Sillabo LV). Ed essendo l’uomo oggi, ancor più che ai tempi di Agostino, incapace di resistere alla forza di seduzione del peccato, privare i principi morali iscritti nella stessa natura
umana del sostegno della legge e affidarli al semplice convincimento interiore significherebbe operare per la scristianizzazione di una società che diverrebbe al contempo sempre più disumana. Ecco perché tra i due uomini politici il Vaticano non può che preferire Berlusconi. L’ha spiegato con tutta la chiarezza desiderabile l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga: «Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati.Ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà unamano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine» (“La Stampa”, 8-5-2009).
Verissimo: il patto d’acciaio che vincola ilVaticano all’attuale governo nasce da un insegnamento plurisecolare, efficacemente sintetizzato, come abbiamo ricordato, da Leone XIII: il cristiano ha il dovere di obbedire al ‘potere legittimo,
in qualsiasi persona esso s’incarni’ e la Chiesa a buon diritto apprezza tanto più un governo quanto più esso è docile al suo magistero, perché ‘tutto ciò che riguarda la salvezza delle anime [...] cade sotto l’autorità e il giudizio della
Chiesa’. D’altronde, se la gerarchia si permettesse di contestare i governanti corrotti, sarebbe facile rinfacciarle l’obbedienza richiesta anche nei
confronti dei papi responsabili delle condotte più scandalose. Una critica esplicita alle feste di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa potrebbe risvegliare lamemoria, per esempio, della corte di Giovanni XII (955-964) che da papa continuò a vivere tra sfrenati piaceri, tanto che «il palazzo del Laterano divenne un vero e proprio bordello, per come il papa amò circondarsi di belle donne e bei
ragazzi, in una vita depravata e completamente estranea agli interessi ecclesiastici» (C.Rendina, I Papi Storia e segreti, Roma 2001, p. 328).
Potrebbe magari far venire l’idea di divulgare la condotta di Innocenzo VIII (1484-1492), che ebbe sette figlima, poiché erano troppi per attribuirli a una sola amante, ne riconobbe solo due, mentre «gli altri passarono per nipoti
alla sua corte» (ivi p. 594); aveva perciò «una famiglia a cui pensare e, trascurando la riforma della Chiesa, si preoccupò esclusivamente di accumulare
denaro in qualsiasimodo per sistemare i suoi problemi domestici» (ivi p. 595).
E si potrebbe richiamare l’attenzione anche sul pontificato di Leone X (1513-1521), che fu una festa continua. Mascherate carnevalesche, spettacoli ispirati alla mitologia classica, banchetti fastosi e battute di caccia: «è indiscutibile
che lussuria e corruzione dei costumi giunsero sotto Leone X alle forme più abiette» (ivi p. 616).
In conclusione, nell’ottica della gerarchia sono più che giustificati sia gli attacchi al governo Prodi sia i toni felpati usati nei confronti di Berlusconi. Ma se questa linea, che appare a molti scandalosa, non è una sbandata dell’attuale gruppo dirigente vaticano, non ci si può certo aspettare dal ricambio di esso un mutamento di rotta. Smettendola di stupirsi di fronte a comportamenti
assolutamente prevedibili, la giusta indignazione dovrebbe piuttosto indurre i credenti a trovare il coraggio di porre in discussione la concezione cattolica del potere e la stessa struttura gerarchica della Chiesa così come si è consolidata da quando essa si è alleata con l’impero di Roma. È infatti evidente che i cattolici,
finché accetteranno di essere trattati dalla gerarchia comeminorenni in campo religioso, non potranno poi pretendere che essa riconosca loro il diritto di agire da persone adulte in campo politico!
{ Pubblicato il: 15.09.2013 }