felice mill colorni
Nessun commentoSarebbe stato difficile arrivare al centocinquantenario dell’unità italiana in condizioni civili più deplorevoli. Manca tuttora la consapevolezza dell’entità spaventosa del disastro in corso, con l’eccezione delle solite minoranze, che il continuo sprofondamento rende soltanto meno esigue. Questo è per il momento il solo segno di speranza, assieme – a questo ci siamo ridotti – al patetico scandalo sessuale che sembra il solo ad aver aperto gli occhi a molti in Italia e ad aver colmato la misura all’estero: nella migliore delle ipotesi, potrà forse avere un effetto analogo a quello che ebbe per Al Capone l’accusa di evasione fiscale.
Ma neppure se, in un modo o nell’altro, B dovesse finalmente lasciare, diciotto anni di imbarbarimento e degrado spariranno con il loro principale protagonista, per quanto egli sia stato potente e privo di oppositori credibili e all’altezza della sfida. Oppositori cui è sempre stato capace di imporre la propria agenda politica.
Al troppo lento apprendistato della democrazia liberale, che dopo quasi mezzo secolo era evidentemente ancora incompiuto e lontano dall’avere messo radici robuste, ha lasciato così il campo la proliferazione dell’inverosimile paccottiglia seminata dal nuovo ceto politico di potentissimi semianalfabeti civili – potentissimi perché lasciati crescere come una metastasi dalla classe politica precedente, così come dalla componente non politica di quella che dovrebbe essere la classe dirigente.
Tutte le stupidaggini più inverosimili e le più ruspanti fissazioni del populismo hanno così avuto libero campo: dal razzismo al clericalismo estremista, dall’eurofobia all’omofobia, dal patetico gallismo anni Cinquanta all’esaltazione acritica di vernacoli e campanili. E libero campo ha avuto l’azzeramento della memoria storica.
Si è cominciato, quando uno degli azionisti principali della maggioranza era ancora apertamente erede del fascismo, con l’apologia dei “ragazzi di Salò”: confondendo il “lato umano” con il giudizio etico-politico, riducendo lo scontro mortale fra nazifascismo e democrazie liberali al tema delle esperienze umane individuali per lo più inconsapevoli di adolescenti o postadolescenti necessariamente sprovveduti degli anni Quaranta, e cancellando al contempo ogni memoria dell’antifascismo e della Resistenza non comunisti. Far piazza pulita dei freni e contrappesi liberali nella Costituzione è più facile attribuendone la paternità ai “comunisti” (che vi si erano opposti nell’Assemblea costituente con gli stessi argomenti “giacobini” oggi utilizzati dalla destra televisiva).
Poi, per compiacere sia la componente leghista sia il clericalismo estremista (ed entrambi assieme, quando, dopo il 2000, la Lega, da modernista ed europeista, è diventata di colpo tradizionalista), si è assaltato il Risorgimento. Errore, anzi, peccato mortale, avere costruito l’Italia in contrapposizione anziché in sintonia con i sentimenti religiosi delle masse: l’unificazione si sarebbe anche potuta fare, ma sotto l’egida della Chiesa del Sillabo piuttosto che con carbonari, repubblicani, garibaldini e piemontesi; non per promuovere la libertà religiosa e di coscienza assieme alla modernizzazione del paese e al suo sviluppo economico e civile, ma per ridurre il Risorgimento a mera unificazione territoriale. Per corroborare la tesi, i clerical chic sono capaci, anzi ormai abituati, a dipingere per contrasto Thomas Jefferson come un bigotto bushista (e i pellegrini del Mayflower come antesignani della tolleranza e della libertà di religione – e i rivoluzionari puritani della metà del Seicento inglese, invece, più sessuofobi e antisemiti dei cattolici!). Il Risorgimento sarebbe andato bene a braccetto con la Restaurazione, sotto il Papa Re, e quindi, se le tesi hanno un senso, senza diritti civili e politici per ebrei e valdesi, senza libertà individuali, senza un Parlamento libero, senza libertà di stampa, senza libertà religiosa, senza laicità delle istituzioni, continuando a delegare l’istruzione al clero. Per aprire i ghetti e abolire, o meglio allentare, la censura preventiva, avremmo dovuto attendere almeno il Vaticano Secondo.
Ma questa classe politica di semianalfabeti sa di che cosa parla quando vaneggia di un Risorgimento senza scontri con i clericali? Ha idea di quale fosse lo stato dell’Italia della Restaurazione? È stata mai resa vagamente edotta, dalla scuola dell’obbligo, se non dai libri o dai media, di quale fosse il pensiero politico della gerarchia cattolica nell’Ottocento – anzi, fino a oltre la metà del Novecento? Sa che per quegli italiani si trattava di riscattare la rottura con la modernità civile e politica europea consumata fin dalla Controriforma? Forse anche lo sa, e forse le starebbe bene vivere con quelle regole ancor oggi, visto l’inverosimile mercato che dei diritti degli italiani (oltre che ulteriormente del loro denaro) questa classe politica si appresta a fare, per ottenere l’ennesima assoluzione di cui necessita il suo capo, in materia di testamento biologico e di fine vita come ieri in materia di fecondazione assistita e famiglie di fatto; e visto che ormai è moneta corrente, per compiacere l’oscurantismo di Papa Ratzinger, imputare ogni nostra disgrazia all’età dei Lumi e ai suoi germi “relativistici”: fino all’esaltazione (è accaduto ad Arezzo) delle insorgenze sanfediste responsabili di stermini e pogrom antisemiti.
Quel che fa specie è che nessuno sembra neppure più tenere alla propria reputazione intellettuale, se ne possono derivare vantaggi politici, di manovra o di posizionamento. Uno dei primi eventi per le celebrazioni di questo centocinquantenario si è così tenuto il 6 dicembre presso la Pontifica Università Gregoriana (peggio che celebrare a Buckingham Palace l’indipendenza degli Stati Uniti). E lì abbiamo udito Giuliano Amato – non Sandro Bondi – affermare che il contrasto fra Chiesa cattolica e Risorgimento avrebbe avuto ragioni essenzialmente geopolitiche: anzi, si sarebbe trattato in sostanza di una mera disputa territoriale. Bel modo di celebrare il centocinquantenario: il Risorgimento ridotto a conquista sabauda. Borghezio non avrebbe potuto dir meglio.
Il dibattito sul federalismo interno, di cui in linea di principio potrebbe essere più che ragionevole e perfino virtuoso discutere, si ammanta così di un segno regressivo, che si somma al metodo sconsiderato con cui fu introdotto dal governo D’Alema nel 2001, creando il devastante precedente di una riforma costituzionale imposta a colpi di risicata maggioranza. Oggi viene proposto come un raddrizzamento ortopedico del mostriciattolo risorgimentale.
Nel concreto, ci sono ottime ragioni per l’entusiasmo federalista quasi unanime che si registra da alcuni anni nella classe politica: di quel che nelle regioni è accaduto finora è buona guida il volume di Emilio Fuccillo “La Casta delle Regioni” (Editori Riuniti 2010).
È una pietosa bugia, ripetuta fin da quando furono istituite con un ritardo più che ventennale le regioni a statuto ordinario, che il potere politico sia tanto più controllabile dai cittadini quanto più è loro vicino geograficamente. La prossimità della politica non dipende dalla distanza fisica ma dai media. E i media più influenti e potenti si strutturano al più alto livello geografico utile alla politica e consentito dalla raccolta della pubblicità: nel caso italiano, dall’area di diffusione della lingua italiana, ancor oggi miglior veicolo pubblicitario dei vernacoli locali. Il potere politico nazionale un minimo di visibilità è quindi pur sempre obbligato a sopportarla.
Il potere regionale in genere no. Le regioni sono il più potente canale di redistribuzione di risorse pubbliche sottratto nei fatti a un vero controllo e dibattito pubblico democratico e diffuso: una redistribuzione delle risorse che, per conseguenza, tende a funzionare a vantaggio di clienti, postulanti, potentati e amici della politica. Considerate le spese assai minori, perfino il trattamento economico dei politici è superiore a quello dei parlamentari. E ad essere al corrente delle loro attività sono essenzialmente lobbies, corporazioni e gruppi di potere o di pressione direttamente beneficiari delle loro decisioni.
Vale per i quattrini come per i soprusi: è proprio in alcune regioni che sono state introdotte le ripugnanti discriminazioni contro i figli di coppie non sposate, cui sono stati sottratti benefici per punirne i genitori.
È facile prevedere che, nell’Italia di B, il federalismo fiscale costituirà l’occasione per rinnovare su larga scala redistribuzioni clientelari. E nuove ruberie e discriminazioni.
{ Pubblicato il: 07.03.2011 }