Il caso Cabras (la nomina più che annunciata del senatore membro
della nomenklatura a presidente di una fondazione bancaria) assomiglia
a molte altre vicende remote e recenti, ma con una variante che merita
segnalazione: il silenzio.
In silenzio – nelle stanze ovattate della Fondazione Banco di
Sardegna – avvenne a dicembre la designazione (in palese sostanziale
violazione della regola etica che vieta ai parlamentari ancora in
carica simili scalate); in silenzio in marzo, a legislatura appena
scaduta, si posero le firme sotto l’atto di cooptazione in consiglio;
in perfetto silenzio, ora, trapela la nomina ineludibile alla
presidenza.
Un silenzio assoluto, assordante, connivente. Che contrasta con le
poche critiche ad alta voce. Che risponde con una arrogante scrollata
di spalle alla breve ma motivata campagna di stampa e persino alla
dissociazione dell’allora responsabile economico democratico Stefano
Fassina (“inopportuna”, fu definita la nomina).
In altri tempi e soprattutto in altri paesi, di fronte alle
obiezioni si sarebbero avute delle speculari reazioni. I membri dell’
organo cooptante, innanzitutto, avrebbero sentito il dovere di
giustificare e magari difendere la propria scelta; l’autorità bancaria
avrebbe detto la sua (esiste un codice etico delle fondazioni, come ha
ricordato Arturo Parisi); la società politica nel suo complesso, al di
là di poche voci isolate, avrebbe espresso il suo parere. Pro o contro,
in un pubblico dibattito alla luce del sole.
Può darsi che esistano ottime ragioni, persino esigenze di
interesse pubblico, perché Antonello Cabras debba diventare a tutti i
costi il presidente della più importante fondazione bancaria della
Sardegna. Ci sarebbe piaciuto conoscerle. Forse avremmo persino potuto
aderirvi, modificando il nostro parere contrario. Ma, appunto, il
silenzio non ammette dialettica. “Sopire, troncare, padre reverendo”,
diceva un passo famoso del Manzoni. Tacere e attendere che passi la
bufera. Senza spiegare, né dare giustificazioni, né controbattere.
Nella società dell’effimero tutto, anche la sacrosanta indignazione di
chi ha ragione, dura lo spazio di un solo mattino. Poi tutto tornerà
alla normalità e si potrà fare, in silenzio appunto, quel che in
silenzio si era deciso di fare.
C’è una triste morale in questa piccola, alquanto squallida vicenda
sarda. E la morale è quella, molto italiana, del muro di gomma, del
potere opaco che non risponde che a sé stesso. Il dramma italiano non è
che prevalgano la cattiva politica, l’uso personale delle istituzioni,
l’arrogante occupazione del potere da parte dei soliti noti. Non solo
questo, almeno. E’ invece che tutto ciò accade, sì, ma nell’
indifferenza e nel silenzio generale. Perché in fondo lo fanno e lo
hanno sempre fatto tutti, perché tanto le cose non cambieranno mai,
perché poi potrà capitare anche a me di chiedere un contributo a quella
banca o a quella fondazione e sarà stato meglio allora non avere
irritato chi la presiede. Perché in fondo chi ce lo fa fare…Il silenzio
dovrebbe essere l’inno nazionale, campeggiare nel tricolore come il
nostro motto perenne. Il motto della nostra irresolutezza morale. La
palla al piede di questo disgraziato Paese, nel quale l’opinione
pubblica conta praticamente zero.
Peccato, però: perché che da tutto, anche da vicende decentrate e
forse minori come questa sarda, la politica esce se possibile ancor più
delegittimata. Ci sarà una ragione se la gente non va più a votare. Ma
per lorsignori questo dissenso (silenzioso, anch’esso) non conta.
Contano le poltrone, le nomine dei soliti noti, le spartizioni. Che
volete farci? Loro sono fatti così. Continuano, come per coazione, a
fare quello che hanno sempre fatto, l’unica cosa che sanno veramente
fare bene.
Immagino che da qualche parte si brinderà in queste ore, alla
Fondazione Banco di Sardegna. Del resto anche sulla tolda del Titanic
ballavano spensierati e felici, qualche istante prima del naufragio.
[28 giugno 2013 su SARDINIAPOST]
{ Pubblicato il: 01.07.2013 }