[e.ma.: In questo momento così drammatico per il nostro paese alla deriva occorre ripensare tutto e adoperarsi più che mai a stringere legami ed elaborare proposte. Queste considerazioni di Giovanni Vetritto sono sulla scia di tutti i tentativi di Critica liberale di superare settarismi e recinti storici che hanno portato sempre l'"altra sinistra" all'impotenza politica. Offriamo a tutti i lettori, soprattutto a coloro che aderirono all'iniziativa di "Spazio libero", questa riflessione e sollecitiamo un nuovo sforzo di impegno e di chiarezza. Attendiamo risposte]
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Dal 2012 chi scrive ha cercato di smuovere un dibattito sulla “scomparsa del riformismo borghese”, ovvero di quel modo storicamente ben radicato e fruttuoso di lavorare alla trasformazione del Paese in una prospettiva di maggiore equità, uguaglianza dei punti di partenza, libertà, laicità e autonomia degli individui, che coincide largamente con la storia della “altra sinistra”. Quella che ha radice probabilmente principale in Gaetano Salvemini, e si sviluppa attraverso l’azionismo, il liberalsocialismo, il liberalismo di sinistra, il socialismo non massimalista, il repubblicanesimo, nelle diverse forme partitiche storicamente determinate e nel pensiero di tanti cani sciolti ascrivibili alla medesima matrice (i pannunziani, Ernesto Rossi, Sylos Labini, fino a Federico Caffè e a tanti altri).
Il filo rosso che collega tutte queste esperienze si è spezzato nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica; nei diversi pezzi scritti per questa e altre testate si è cercato di darne conto.
Il mondo che ostinatamente a quella tradizione continua a riferirsi ha cercato almeno di continuare a ragionare, nel disinteresse della politica, e a condurre battaglie civili.
Cosa ha chiesto a gran voce in questi anni? Pur nelle evidenti differenze, alcuni punti paiono comuni e centrali nelle rivendicazioni di tutti.
Primo, un’attenzione alle dinamiche della società, per ricostruire circuito democratico e rappresentanza per tanti ceti e tanti frammenti di una società sempre più disarticolata, superando l’autoreferenzialità delle caste non solo partitiche, ma anche sociali, imprenditoriali, sindacali, clericali che si stanno spartendo le ultime spoglie di un Paese stremato.
Secondo, una opera di riscrittura delle regole della democrazia, non nel senso battuto dai tempi della “grande riforma” craxiana (verticalizzazione, verticismo, semplificazione, decisionismo, leaderismo), ma in quello opposto del controllo del potere e della riqualificazione ella delega politica, per riaffermare controllo della delega democratica fondante, corroborata da istituti di democrazia diretta.
Terzo, laicità rigorosa, non punitiva, che si concretizzi nella riaffermazione dell’autonomia delle scelte di vita degli individui (sulla vita e i suoi stili e sulla morte), della concorrenza dei punti di vista degli individui e dei gruppi nella società e nel dibattito pubblico, senza protezionismo di Stato per alcuni e finanziamenti impropri di quelle che devono restare libere scelte individuali.
Quarto, ricostituzione di minime basi di legalità in un Paese che ha costruito nel tempo un vero e proprio diritto derogatorio per le caste che lo spolpano, lasciando un terribile diritto senza sconti a sudditi sempre più indifesi davanti a una forza pubblica (poliziesca, fiscale e giudiziaria) praticamente senza limiti.
Quinto, rifondazione di un welfare innovativo e societario, che senza contrabbandare impossibili ritorni a meccanismi puramente redistributivi (del tutto spiazzati dalle dinamiche generazionali e attuariali) ricucia pazientemente una rete di protezione fatta di diritti e di servizi sostenibili, per affrontare la “lotteria delle nascite” e le ingiustizie prodotte dai casi della vita.
Sesto, a questo fine superamento del burocraticismo delle vecchie istituzioni statali, eredità pesante dell’assolutismo premoderno, attraverso la valorizzazione di tutte quelle forme di civic engagement che sono la frontiera di ricostruzione di uno Stato “catalitico” e non autoritativo in corso di sperimentazione in tutto il mondo avanzato.
Settimo, liberazione delle energie non solo concorrenziali ma anche collaborative della società, per rimettere in moto la capacità dei cittadini di creare crescita economica, da una parte, e inclusione sociale, dall’altra.
Ottavo, in questo sforzo di innovazione (che non vuol dire solo tecnologia) tornare a valorizzare il differenziale competitivo dei luoghi del nostro Paese, attivando filiere economiche virtuose sui temi della difesa del suolo, delle attività economiche amiche dell’ambiente, delle nuove fonti di energia, della valorizzazione dello specifico territoriale in termini di ricchezze naturali e antropiche, assaltate dalla speculazione e dalla rendita senza freni.
Nono, puntare sulla scuola e sull’università non solo e non tanto per il pur indispensabile investimento sui giovani a servizio delle dinamiche della nuova economia della conoscenza, ma per fare nuovamente di queste infrastrutture vitali della democrazia i luoghi di coltivazione di un sapere critico, di una coscienza civile in grado di preparare i cittadini alle sfide di una modernità che è soprattutto complessità.
Sulla scorta di questo minimo tessuto comune di fini e temi si è anche attivata, negli scorsi mesi, una convergenza di gruppi e associazioni in un soggetto politico culturale, chiamato Spazio Libero, che ha prodotto alcune prese di posizione pubbliche, alcuni dossier tematici, ma sempre nella irrilevanza nel dibattito pubblico e nella totale sordità della politica.
Oggi però c’è una novità, in sé piccola ma tendenzialmente grande.
La novità è rappresentata dal Patto Repubblicano promosso a dicembre scorso da Civati, che la recente fuoriuscita dal PD del giovane politico lombardo rende base programmatica di un progetto politico totalmente nuovo.
In un anno buono di confessioni pubbliche attraverso il suo blog, nel testo del Patto stesso, nelle dichiarazioni pubbliche successive al suo passaggio al gruppo misto della Camera, Civati ha detto chiaramente (adottando atti sempre conseguenti) di non voler entrare nella galassia della sinistra radicale, intellettualmente ferma a ricette anni ’70 (e di recente incapace di intercettare il flusso di voti in uscita dal PD, evidentemente desiderosi di un sano riformismo possibile e non di sogni di palingenesi politica); di non avere intenzione di lavorare al rassemblement di spezzoni partitici esistenti; di voler costruire una proposta politica sanamente (ma rigorosamente) riformista che bilanci la deriva a destra del PD da una parte e quella onirica della “sinistra rosso antico” dall’altra. E questo rivolgendosi al tessuto ormai maggioritario di cittadini astensionisti che non trovano ormai da anni nella politica alcuna risposta alle loro idealità e ai loro interessi.
La sfida è ambiziosa. L’uomo è stato a lungo insolentito per il paziente tentativo di opporsi a misure francamente di destra da dentro il PD, prima di verificare l’impossibilità di permanervi, e per questo è ancora guardato da molti con legittimo sospetto. L’opera di costruzione di radicamento ex novo di una nuova proposta politica è immane. Il background di saperi e relazioni su cui costruire, finalmente e di nuovo, dossier solidi per la decisione pubblica e la definizione delle politiche è tutto da scoprire.
Una cosa però pare fuori discussione. La gran parte (se non praticamente tutto) di ciò su cui Civati sta chiamando a raccolta è esattamente ciò che i “pazzi malinconici” salveminiani (un po’ più liberali, un po’ più socialisti, un po’ più azionisti, un po’ più repubblicani) andavano predicando al vento da anni.
Da anni mancava sulla scena politica italiana qualcuno che, pur con tutti i limiti, proclamasse la volontà di costruire ex novo qualcosa di riformista, definendosi laico senza mezze misure, combattendo battaglie di libertà civile ed economica, battendosi sulle regole democratiche senza sconti al ribasso, riparlando, addirittura, di suolo e di costruito, proponendo misure inclusive di cittadinanza, rinnovando la battaglia sopita da anni per i diritti civili (tutti), combattendo misure protezioniste in nome di una sana concorrenza e misure classiste in nome della democrazia economica, senza sbandamenti onirici né tatticismi.
È poco? Forse.
Ma chi per anni si è arrovellato sull’ottocentesco “che fare” ha oggi una occasione da valutare. Per primi le donne e gli uomini di “Spazio libero”.
Se coglieranno le convergenze di metodo, temi e valori con questa inedita chiamata all’impegno nei confronti di cittadini e non di spezzoni di apparati potranno contribuire e modellare la proposta politica nel modo più ambizioso e coerente rispetto a tutto quello che c’è di consonante con la loro cultura nel Patto repubblicano, nella proposta tematica, nel percorso di metodo e soprattutto nei comportamenti di chi chiama a raccolta.
Potranno decidere di non farlo, e non sarebbe generoso bollare una tale scelta come mero tatticismo, come chiusura settaria, come superiorità snobistica, come cinica ignavia.
Ma il momento è di crisi profondissima, per la democrazia prima ancora che per le singole policies. Per impegnarsi, un prossimo treno potrebbe non passare per decenni.
{ Pubblicato il: 10.05.2015 }