Fondazione Critica Liberale   'Passans, cette terre est libre' - Abbiamo scelto come logo la fotografia d'un autentico 'Albero della Libertà ancora vivente. È un olmo che fu piantato nel 1799 dai rivoluzionari della Repubblica Partenopea, Luigi Rossi e Gregorio Mattei, a Montepaone Superiore, paese dello Jonio catanzarese. La scritta &lequo;passans ecc.» era qualche volta posta sotto gli 'Alberi della Libertà' in Francia.
 
Direttore: Enzo Marzo

Dal 1969 la voce del pensiero laico e liberale italiano e della tradizione politica che difende e afferma le libertà, l'equità, i diritti, il conflitto.

"Critica liberale" segue il filo rosso che tiene assieme protagonisti come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini ed Ernesto Rossi, Einaudi e il "Mondo" di Pannunzio, gli "azionisti" e Bobbio.

volume XXIV, n.232 estate 2017

territorio senza governo - l'agenda urbana che non c'è

INDICE

taccuino
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67. paolo bagnoli, la nostra preoccupazione
68. coordinamento democrazia costituzionale, appello alla mobilitazione per una legge elettorale conforme alla Costituzione
106. comitati unitari per il NO al “rosatellum”, l’imbroglio degli imbrogli
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territorio senza governo
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69. giovanni vetritto, l’italia del “non governo” locale
73. pierfranco pellizzetti, alla ricerca del civismo perduto
79. antonio calafati, le periferie delle metropoli italiane
84. paolo pileri, molta retorica, pochi fatti
86. giovanni vetritto, post-marxisti inutili
88. valerio pocar, primo comandamento: cementificare
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astrolabio
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89. riccardo mastrorillo, finanziare sì, ma come?
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GLI STATI UNITI D'EUROPA
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93. sarah lenderes-valenti, la risorsa più grande
94. luigi somma, le democrazie invisibili
97. claudio maretto, la discontinuità paga
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castigat ridendo mores
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100. elio rindone, basta con l’onestà!
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l'osservatore laico
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103. carla corsetti, il principio di laicità
107. gaetano salvemini, abolire il concordato
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terrorismo e religione
109. pierfranco pellizzetti, jihad combattuta alla john wayne
114. alessandro cavalli,quattro cerchi
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lo spaccio delle idee
117. gianmarco pondrano altavilla, cari liberisti, chi conosce un buon medium?
118. luca tedesco, savoia o borbone? lo storico è un apolide
119. gaetano pecora, ernesto rossi, “pazzo malinconico”
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78.92.102. spilli de la lepre marzolina
116. la lepre marzolina, di maio ’o statista
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Critica liberale può essere acquistata anche on line attraverso il sito delle Edizioni Dedalo con transazione crittografata e protetta.
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comitato di presidenza onoraria
Mauro Barberis, Piero Bellini, Daniele Garrone, Sergio Lariccia, Pietro Rescigno, Gennaro Sasso, Carlo Augusto Viano, Gustavo Zagrebelsky.

* Hanno fatto parte del Comitato di Presidenza Onoraria: Norberto Bobbio (Presidente), Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Giancarlo Lunati, Italo Mereu, Federico Orlando, Claudio Pavone, Alessandro Pizzorusso, Stefano Rodotà, Paolo Sylos Labini. Ne ha fatto parte anche Alessandro Roncaglia, dal 9/2014 al 12/2016.
 
05.02.2018

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Lo spazio dei lettori.
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Ssss! la Carta dice “NO”. L’illegittima revisione della “forma repubblicana” del Senato, oggetto nascosto del referendum costituzionale.

giovanni incorvati

1 commento
Abstract  - Questo lavoro si propone di mostrare l’importanza che rivestono l’art. 139 della Costituzione (“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”) e i principi fondamentali che esso richiama, rispetto al voto sul referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. È proprio questo art. 139, insieme con l’art. 54 su cui esso si riverbera, che viene violato dal disegno di legge Renzi-Bossi, mentre i cittadini che sono chiamati a pronunciarsi vengono istigati a diventarne complici, attraverso un atto di alienazione della libertà e dei propri diritti contrario alla “forma repubblicana”, difesa dagli articoli citati. Il senso dell’espressione “forma repubblicana” è stato chiarito in modo definitivo dalla Corte Costituzionale nel 1988 e trova il suo fondamento nei lavori dell’Assemblea costituente. L’espressione definisce l’unità inscindibile che esiste tra i principi presenti nella prima parte della Carta e le istituzioni della seconda parte, che ne traggono la loro forma. La revisione Renzi-Boschi investe in pieno, in modi distruttivi, il principio di eguaglianza che presiede tanto all’esercizio dei diritti politici quanto ai suoi riflessi sulle istituzioni. La loro forma da repubblicana diventa oligarchica. Inoltre, attraverso il controllo asimmetrico esercitato sulla nomina dei giudici costituzionali, questo stravolgimento della forma tende a diventare irreversibile.

L’art. 139 della Costituzione è rimasto del tutto ignorato non solo dalla discussione parlamentare sulla legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi, ma anche dal più ampio dibattito pubblico sui contenuti del relativo referendum. In effetti l’attenzione generale è stata concentrata in modo quasi esclusivo sugli articoli della seconda parte della Costituzione modificati in via formale.
Di conseguenza la tesi sostenuta insistentemente dal presidente del Consiglio, secondo la quale la revisione non toccherebbe né i principi fondamentali, né la prima parte della Costituzione, non è stata oggetto di esame a livello di sistema, ma al massimo è stata contrastata semplicemente riaffermando ciò che i promotori della legge negavano 1).  Tuttavia, proprio questo modo di porre la questione nasconde i termini reali del problema, l’oggetto principale del tentativo di revisione costituzionale in corso, che è illegittimo in quanto viola proprio l’art. 139, “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, e i principi fondamentali che esso richiama.
È ovvio il fatto che, per quanto riguarda la seconda parte della Costituzione, si sia molto discusso anche dell’applicazione dell’art. 138, che stabilisce le forme, le procedure della revisione costituzionale. Ma non si comprende come mai sia rimasto occultato l’articolo che lo segue e che con esso chiude il sistema, in quanto pone i limiti materiali al potere di revisione. Questi due ultimi articoli costituiscono, insieme con i due commi dell’art. 1, le colonne portanti che non solo sono poste ai limiti della Costituzione, ma anche li fissano in modo definitivo. Vorrei mostrare come esse ne sorreggano l’intero arco e portino al centro, a eguale distanza dagli estremi che qui si incrociano, la chiave dell’art. 70: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. È un punto che col suo peso mantiene in equilibrio dinamico tutta la simmetria costituzionale, perciò è soprattutto qui che si esercita a non finire la violenza devastatrice, il furore iconoclasta della legge di revisione.
La “forma repubblicana” dei diritti politici
Senza dubbio è vero che nessun articolo della prima parte risulta modificato, ma è anche vero che la revisione di numerosi articoli della seconda parte è stata condotta in violazione di principi e di valori fondamentali contenuti nella prima. Ora, l’Assemblea costituente, nel formulare l’art. 139 ha definito con l’espressione “forma repubblicana” il nesso che lega tali principi e valori al resto della Costituzione, definizione che non ha niente a che vedere con la contrapposizione formale tra monarchia e repubblica, quale si era prospettata con il referendum del 2 giugno 1946 2) .
Tra quella data e l’entrata in vigore della Costituzione il 1° gennaio 1948 il concetto giuridico di “repubblica” cambiò radicalmente. Rispetto alla scelta referendaria tra la figura di un monarca ereditario e quella di un presidente elettivo come simbolo dell’unità politica del paese, il termine indicava ormai un ordinamento politico di carattere democratico e non oligarchico, incentrato sulla sovranità del popolo e solo del popolo. Questo passaggio non era in discussione, anzi, costituiva il presupposto essenziale del referendum stesso, sottolineato dall’introduzione del suffragio universale, ossia della prima forma di esercizio della sovranità e dei diritti politici dei cittadini. Comunque la sovranità del popolo, in quanto uno dei valori supremi del nuovo ordinamento, non sarebbe stata toccata in nessun caso da un esito del referendum favorevole alla monarchia. Al contrario, dopo il voto referendario l’Assemblea costituente, istituendo un legame indissolubile tra la prima e la seconda parte della nuova Carta, avrebbe dovuto rendere stabile la “forma repubblicana”, espressione che va riferita in primo luogo all’inscindibile unità che lega la titolarità della sovranità e dei diritti politici alle forme e ai limiti del loro esercizio (art. 1 c. 2) 3).
Questa unità risalta in modo inequivocabile dai lavori della Costituente. Quello che nella redazione definitiva sarà l’art. 139 fu presentato inizialmente da Togliatti, con l’appoggio di Moro, alla Prima Sottocommissione, che si occupava della prima parte della Costituzione. Esso doveva inserirsi tra il primo e il secondo comma del futuro art. 1, e in particolare doveva indicare l’impossibilità di separare la forma repubblicano-democratica dalle forme di esercizio della sovranità del popolo. Ma poi, alla fine di quella sessione di lavoro, si convenne che da un punto di vista sistematico sarebbe stato meglio fissare da un lato, ex ante, il quadro generale dei diritti politici con i loro limiti, e dall’altro, ex post, il divieto della loro revisione come sigillo dell’intera Costituzione 4).  In effetti, con l’approvazione dell’art. 139 da parte dell’Assemblea costituente il 3 dicembre 1947 5),  il divieto di revisione fu inteso nel senso che la forma repubblicana di titolarità e di esercizio della sovranità e dei diritti politici non può essere modificata introducendo ulteriori limiti oltre quelli già posti dalla Costituzione stessa.
Tuttavia nei quaranta anni successivi, un’epoca in cui il problema era quello di dare attuazione alla Costituzione piuttosto che di modificarla, è prevalsa un’interpretazione assai riduttiva di questo articolo, che insisteva sulla sua irrilevanza giuridica o sulla sua inutilità pratica. Esso infatti presterebbe  il fianco a un’obiezione che era già stata fatta durante il dibattito alla Costituente, anche se allora fu subito confutata. Secondo tale tesi, nella sua attuale formulazione l’art.139 conterrebbe un’incongruenza: nulla vieterebbe al legislatore di sopprimerlo con la procedura prevista dall’art. 138. Perché dunque i costituenti non hanno adottato una formulazione del tipo: “Il presente articolo e la forma repubblicana non sono soggetti al procedimento di revisione costituzionale”? 6)
La risposta non è difficile. Il fatto è che la forma repubblicana contiene già in sé il concetto di limite ragionevole, in particolare il divieto di creare disparità e situazioni privilegiate. Quando l’art. 1 c. 2 parla di “limiti della Costituzione” all’esercizio della sovranità, intende che i limiti posti dalla “forma repubblicana” della Costituzione del 1948 all’esercizio dei diritti politici dei cittadini operano anche, ex art. 139, come un “controlimite” interno, che argina ogni estensione indebita di tali limiti. Tale funzione di “controlimite” non può essere annullata o modificata, perché ciò comporterebbe un abuso della sovranità, in violazione dei primi articoli della Costituzione. Infine, al termine di tutto questo periodo, la Corte costituzionale ha pienamente riconosciuto la vera funzione dell’art. 139, accrescendone notevolmente l’importanza. Con la Commissione Bozzi (1983-1987) le prime avvisaglie della cosiddetta “seconda Repubblica” ormai si annunciavano minacciose e si trattava piuttosto di difendere la forma repubblicana dai tentativi di aggredirla dall’interno .
Nel 1987 il costituzionalista Gaetano Silvestri scriveva: “sarà compito del giudice costituzionale accertare in concreto la consistenza del fine, anche mediante la rappresentazione degli effetti ulteriori della legge di revisione. (…) Un controllo rigoroso deve essere in grado di distinguere le innovazioni da quei mutamenti che si risolvono in vere e proprie restaurazioni di ordinamenti del passato. Così, ad esempio, l’attenuazione delle garanzie individuali e collettive; la diminuzione del grado di indipendenza dei giudici dagli altri poteri dello stato; l’adozione di tecniche rappresentative che limitino la sovranità popolare; l’inserimento di deroghe ingiustificate all’eguaglianza dei cittadini; la relativizzazione del ripudio delle guerre non difensive: sono tutte ipotesi di revisione che non potrebbero mai essere riguardate come innovazioni, perché introdurrebbero princìpi e istituti ‘già visti’, non suscettibili di cambiare natura, qualunque possa essere il ‘nuovo’ contesto in cui verrebbero ad inserirsi” 7).
Questo parere, alquanto innovativo nella sua nettezza, che riconosceva nell’architettura del  Contratto sociale la struttura portante della Costituzione 8),  ha avuto una chiara influenza su tutta la fase successiva. Infatti subito dopo, a troncare qualsiasi dubbio in merito all’inclusione o meno della sovranità, con le sue forme e i suoi limiti, nella previsione dell’art. 139, la Corte costituzionale è intervenuta con la storica sentenza n. 1146 del 1988. Qui essa ha affermato che la Costituzione italiana “contiene alcuni princípi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale. Tali sono tanto i princìpi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i princìpi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” 9).
Da allora questa sentenza, che riafferma con forza il principio dell’unità inscindibile della Costituzione, costituisce una sorta di spauracchio, una mina vagante per tutti i tentativi di introdurre limitazioni ai diritti dei cittadini attraverso modifiche della sua seconda parte. A meno che…
Dal Senato della Repubblica al Senato delle oligarchie
L’idea base della legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi è in primo luogo di rendere inefficace tanto il suffragio universale quanto l’iniziativa popolare delle leggi; in secondo luogo, l’obiettivo è provocare uno squilibrio totale nel procedimento legislativo, in modo da blindare definitivamente il nuovo assetto costituzionale. In particolare, si tratta di mettere il Senato nelle mani di un’oligarchia che, dopo essersi impossessata dei diritti politici dei cittadini, arrivi a condizionare la composizione della Corte costituzionale, dato che prima o poi questa sarà chiamata a giudicare su tali trasformazioni.
La soluzione non è nuova, dato che era stata al centro delle preoccupazioni dell’Assemblea Costituente quando si era trattato di regolare le modalità di elezione del Senato. In proposito i lavori preparatori presentano due fasi nettamente contrapposte. La prima fase, nella discussione all’interno della Seconda Sottocommissione, che si occupava dell’ordinamento della Repubblica, vide prevalere l’idea di un’elezione per lo più di secondo grado dei senatori, affidata ai consigli regionali e comunali. Sembrava naturale preservare in una certa misura la continuità storica di un organismo di lunga tradizione, sostituendo un Senato delle Regioni, selezionato con tale modalità, al Senato del Regno la cui scelta, rimasta nei primi anni affidata al re, poi (dal 1876) era passata al governo. Ci si voleva  anche ricollegare alla proposta della Commissione  Greppi-Ruffini del 1919. Questa, incaricata di presentare un progetto di riforma del Senato, aveva optato per modalità di ingresso diversificate, che ammettevano solo per metà dei senatori l’elezione diretta con il suffragio universale (maschile), introdotto per la prima volta nel 1912 per le elezioni alla Camera. Ma, come riconosciuto dalla  relazione della stessa Commissione – nella sua franchezza, oggi sconosciuta, illuminante rispetto ai problemi attuali –, il progetto era apparso fin dall’inizio inefficace nel proporre soluzioni ai conflitti che inevitabilmente si sarebbero creati tra Camera e Senato, causati dalle molte difformità operative, a cominciare da quelle tra i rispettivi sistemi di scelta dei propri membri.10)
Precisamente per non correre rischi di conflitti istituzionali nella seconda fase dei lavori della Costituente, col passaggio della discussione all’assemblea plenaria, le precedenti ipotesi vennero rigettate. Il fatto è che nei  mesi trascorsi si erano venuti affermando i principi generali della Costituzione, a partire dall’art. 1, approvato il 22 marzo 1947. Ciò aveva cambiato radicalmente il quadro generale del dibattito sulla seconda parte della Costituzione. Suffragio universale e voto eguale in un sistema bicamerale erano ormai aspetti essenziali della forma repubblicana e non ammettevano eccezioni o disparità di sorta, che avrebbero significato un ritorno a situazioni dimostratesi impraticabili e obsolete.
Il 7 ottobre 1947 l’assemblea respinse l’ordine del giorno Perassi favorevole a un sistema indiretto di votazione per la scelta dei senatori, mentre approvò l’ordine del giorno Nitti a favore dell’elezione diretta 11).  Era il frutto di una scelta razionale di principio e di funzionalità obiettiva, che determinava un cambiamento storico, e non di un’episodica convergenza tattica tra comunisti, socialisti e liberali12).  I principi di sovranità popolare, di eguaglianza e di prevenzione del rischio di conflitti venivano posti alla base del Senato della Repubblica 13) e contrapposti alle altre soluzioni prospettate, considerate irrimediabilmente superate 14).  Il rigetto riguardava in particolare una serie di aspetti che vi erano implicati: il carattere corporativo e privilegiato, fonte di corruzione, che avrebbe creato uno squilibrio nel rapporto con la Camera dei deputati, e la possibilità di equilibri di natura unicamente oligarchica 15).
Nella nuova architettura l’art. 58, c. 1 (“I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.”) si collocava sulla scia dell’art. 56, c. 1 (“La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto”) e in equilibrio con esso  per stabilire e mettere in opera, alla fonte, la forma repubblicana di esercizio dei diritti dei cittadini e della sovranità del popolo. A valle, poi, in modo omogeneo e unitario, l’art. 70 estendeva la stessa forma repubblicana all’esercizio collettivo della funzione legislativa da parte delle due Camere.
Con la revisione di tali articoli il disegno Boschi di revisione costituzionale invece dà a un’oligarchia in primo luogo il potere di cooptare i propri membri attraverso elezioni di secondo grado, sottraendosi così al voto dei cittadini e sottraendo loro il diritto di votarli. In secondo luogo frantuma il precedente equilibrio della funzione legislativa, senza tenere in nessun conto i rischi di conflitti, ma anzi creando le condizioni per uno stato di eccezione permanente. Infine dà alla stessa oligarchia il diritto di decidere sulle regole che mantengono questo potere. È soprattutto attraverso questo triplice intervento che viene spezzata (o “rottamata”) l’unità della seconda parte della Costituzione con la prima 16).  In particolare si dà ai senatori il diritto di votare le leggi costituzionali e questo loro voto sarà sicuramente decisivo per imporre a tutto il parlamento il punto di vista dell’oligarchia 17).  Ogni futura proposta di una legge costituzionale che restituisse ai cittadini i diritti politici che loro erano stati sottratti andrebbe incontro a difficoltà insormontabili. La sua approvazione sarebbe resa impossibile dagli inevitabili conflitti tra Camera e Senato, che il disegno di legge Renzi-Boschi ignora totalmente, perché nel momento stesso in cui ne crea le condizioni, non ne auspica neanche lontanamente la soluzione. È con un simile congegno che un’oligarchia può blindare per sempre il proprio sistema di potere 18).
Con la sentenza n. 1146 del 1988, già ricordata, la Corte costituzionale  ha sottolineato la  propria legittimazione a giudicare, alla luce del chiarimento di carattere generale dato dalla sentenza stessa, sui casi specifici di violazione dell’art. 139 19).  Tuttavia l‘attuale legge di revisione si è data il compito di aggirare preventivamente questo ostacolo posto dalla Corte sulla sua strada, dando al futuro Senato (con cento membri) il potere di nominare due giudici della Corte: un numero al di fuori di ogni ragionevole proporzione con quello dei giudici della Corte nominati dalla Camera dei deputati (tre giudici eletti da 630 membri).
Dalla “forma repubblicana” della partecipazione a quella oligarchica dell’esclusione
Il forte rischio di conflitto e di immobilità che inficia in partenza il procedimento di revisione costituzionale, come previsto dal disegno Boschi, è destinato a segnare i diversi e numerosi tipi di procedimento legislativo che vengono istituiti col nuovo art. 70, e fin dall’iniziativa delle leggi, regolata dall’art. 71. Sotto tale profilo appare evidente la volontà di disintegrare la possibilità stessa di dare attuazione all’attuale comma 2. Qui i costituenti hanno ripreso la formulazione dell’art. 1, c. 2, per indicare con chiarezza le principali “forme e limiti” entro cui il popolo “esercita” la sovranità, ossia proponendo progetti di legge redatti in articoli. Ora, visto che in parlamento c’è una forza politica che sta predisponendo un sistema operativo (la piattaforma “Rousseau” del M5s) in grado di sbloccare finalmente il funzionamento di tale comma, il disegno di revisione Boschi si affretta a inserire un’aggiunta che sembrerebbe proseguire nella citazione dell’art. 1, c. 2: “la discussione e la deliberazione conclusiva” su tali progetti “sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti dei regolamenti parlamentari”.
In realtà i progetti di legge di iniziativa popolare, che attualmente la Costituzione pone su un piano di parità con gli altri tipi di iniziativa (essenzialmente del governo o delle Camere), vengono declassati rispetto a questi ultimi, per i quali invece si prevede, come  aggiunta all’attuale c. 1 dell’art. 71, che, quando il Senato ne faccia richiesta, “la Camera dei deputati procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi”. Mentre qui si predispongono corsie preferenziali in Costituzione, là, sul versante dell’iniziativa popolare, forme e limiti non sono più quelli repubblicani della Costituzione del 1948, ma quelli, assai realisticamente oligarchici, di futuri, immaginifici regolamenti parlamentari.
Ben altra era stata a suo tempo la proposta di Mortati, sulla base del fatto che l’istituto dell’abrogazione diretta delle leggi da parte del popolo, mediante referendum (art. 75), è, nella forma repubblicana, in una posizione di “simmetria” rispetto a quello contiguo e parallelo dell’iniziativa popolare delle leggi. Mortati allora suggeriva di “introdurre un correttivo di automatico ‘innesto’delle procedure di effettuazione di apposito referendum, qualora a fronte di una proposta iniziativa legislativa popolare il parlamento, entro un ragionevole arco di tempo, non fosse in grado di intervenire legiferando nel senso indicato dal progetto popolare” 20).
Invece di procedere fin d’ora lungo la linea integratrice proposta da Mortati, il disegno Boschi va in direzione opposta.  Con il nuovo comma 4, l’ultimo di un articolo 71 ridotto ormai a informi brandelli, viene annunciato che “la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione”. Questa mirabolante estensione della sovranità popolare, tenuta completamente avulsa dai commi precedenti, dovrebbe essere approvata nelle situazioni di più acuto conflitto e di effettiva blindatura oligarchica che si prospettano. In forme ben più concrete  e immediate, invece, la soglia di cinquantamila firme, ora necessarie per presentare progetti di iniziativa popolare, viene innalzata subito del 200%, in modo da mettere a più dura prova e far rallentare o inceppare i sistemi operativi di democrazia diretta. In uguale misura si restringono perciò le possibilità di esercizio della sovranità del popolo 21).
Il regime dei referendum all’art. 75 subisce un analogo sdoppiamento. Le regole attuali rimangono  in vigore per le minoranze, mentre un nuovo regime con quorum mobile viene istituito per un’oligarchia di maggioranza che abbia il potere di raccogliere ottocentomila firme. Sdoppiamento che, a posizioni invertite, viene annunciato anche dai modi di effettuazione dell’attuale referendum costituzionale.
L’oligarchia di governo conosce a fondo origini, struttura e obiettivi della legge di revisione, perché ne è essa stessa la fonte. Sa quindi di violare l’art.139, ma, al fine di istigare gli altri a fare la stessa cosa con lo strumento del referendum, deve convincerli della bontà di tutta l’operazione. Sa inoltre che con tale comportamento sta violando anche l’ultimo comma dell’art. 54: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Articolo che chiude la prima parte della Costituzione e su cui si riverbera il divieto dell’art. 139. Il governo nella scorsa primavera aveva già dato prova di quanto poco rispetto portasse per questa disposizione, quando, in violazione del testo unico sulle leggi elettorali, invitava i cittadini a astenersi dal partecipare al referendum 22)
Oggi il comportamento è ancora più grave per il fatto che la propaganda per il “Sì” istiga i cittadini a farsi complici, col voto referendario espresso in questo modo, di una duplice violazione della Costituzione. Non solo dell’art. 139 (attraverso gli ultimi due commi dell’art. 138 sul referendum costituzionale), ma, con perfetta simmetria, anche dell’art. 54 c. 1: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Solo che in grande maggioranza essi ignorano quel che l’oligarchia conosce, anzi vengono indotti a credere che la prima parte della Costituzione sia perfettamente separabile dalla seconda, e dunque possono facilmente essere istigati a comportamenti illegittimi senza saperlo.
Questo art. 54, uno dei pochissimi della Carta in cui compare, e per ben due volte, il termine “dovere”, è sempre sembrato contenere una carica soprattutto di natura morale. In realtà, di fronte alla prospettiva concreta di una violazione dell’art. 139, assume una valenza squisitamente giuridica, come norma di prevenzione primaria, rivolta anzitutto ai cittadini. Con questo referendum essi devono opporsi non solo al tentativo oligarchico di violare la costituzione repubblicana, ma anche e soprattutto a quello, esiziale per l’identità e la dignità di ciascuno, di indurli a alienare, in modo probabilmente irrevocabile, la propria libertà e i propri diritti.
NOTE
1) Andrea Pertici, La Costituzione spezzata. Su cosa voteremo con il referendum costituzionale, Torino, Lindau, 2016, p. 14-17, osserva, al seguito di Alessandro Pizzorusso, La Costituzione ferita, Roma-Bari, Laterza, 1999, come il problema dell’unità della Costituzione si sia posto soprattutto con la cosiddetta “seconda Repubblica”. Mentre per il centro-destra la Costituzione è rivedibile sia nella prima che nella seconda parte, per il centro-sinistra essa lo è solo in quest’ultima e senza che vi possano essere ripercussioni sulla prima. Pertici rileva invece a ragione il meccanismo di  feedback che non solo lega la seconda parte alla prima, ma fa anche dipendere dall’organizzazione istituzionale “il grado di effettività e di tutela dei diritti”. Poi però, nel corso della sua analisi del progetto di revisione in corso, si sofferma soprattutto sui “rischi di rottura della coerenza interna (…) nell’ambito della stessa parte (seconda) e dei singoli titoli”, tralasciando alquanto la rottura che viene effettuata tra la prima e la seconda parte.
2) Tra le moltissime conferme in proposito, ricordo quella di Massimo Villone, “Di riforme e riformatori” in Costituzionalismo.it, 2012, 1, § 3.5: procedere a tale assimilazione creerebbe “una palese assurdità. Per l’Italia, una lettura dell’art. 139 limitata  al divieto di reintrodurre una successione dinastica sarebbe poi la più datata storicamente, come dimostra la parziale abrogazione in anni recenti della XIII Disposizione transitoria. E l’argine più forte della assoluta intangibilità verrebbe posto a difesa di ciò che non è più in pericolo.” http://www.costituzionalismo.it/articoli/416/
3) Marcello Piazza, I limiti alla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, Padova, Cedam, 2002, p. 29-35. Francesco Paolo Casavola, “I principî supremi nella giurisprudenza della Corte costituzionale”, in Foro Italiano, 1995, parte V, col. 153-161, in part. 159: “Il primo articolo e l’ultimo della Carta si corrispondono come in un unico sintagma, fungendo il primo da oggetto e l’ultimo da predicato”.
4) I Sottocommissione, sedute del 28 e 29 novembre 1946, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1970, v. VI, p. 727-743.
5) La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, cit., v. V, p. 4344 e sg. Nel Progetto di Costituzione del 31 gennaio 1947, elaborato dalla commissione detta dei 75, l’art. 131 (ultimo) aveva questa formulazione: “La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
6) Vittorio Mathieu, “L’infallibilità e il problema dell’autofondazione dei sistemi giuridici”, in Archivio di filosofia, 1970, 2-3, p. 45-48, in part. 47-48.
7) “Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale”, in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, t. II, Milano, Giuffrè, 1987, p. 1183-1208, in part. 1206-1207.
8) Va ricordato per la precisione che il sottotitolo del Contratto sociale di Rousseau, che nella versione finale suona Principi del diritto politico (ovvero dei diritti politici), nella versione precedente (il cosiddetto Manoscritto di Ginevra, che si limitava a considerare la forma fisiologica dello Stato legittimo, e non ancora quella patologica delle usurpazioni dei diritti da parte del governo) figura come Saggio sulla forma della repubblica. Rousseau dà alla revisione costituzionale non solo il limite formale di una procedura legislativa rafforzata, ma anche il limite materiale del principio di eguaglianza: “proprio perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l'eguaglianza, la forza della legislazione deve sempre tendere a conservarla” (Contratto sociale, II, 11, 3). Per quanto riguarda l’influsso esercitato dal pensiero di Rousseau sulla nascita del concetto di “forma” e del connesso principio di eguaglianza nel diritto costituzionale, sono fondamentali i lavori di due tra i maggiori allievi di Carré de Malberg: Georges Burdeau, Essai d'une théorie de la révision des lois constitutionnelles en droit positif français, Mâcon, Buguet-Comptour, 1930, p. 23-44, e Pierre Duclos, La notion de constitution dans l’œuvre de l’Assemblée constituante de 1789, Paris, Dalloz, 1932, in part. p. 206-219 e 233-244. I costituenti italiani hanno tenuto conto di questa influenza nella redazione dell’art. 139, che riprende formule analoghe delle costituzioni francesi. Sulla sovranità del popolo come principio e come valore supremo della Costituzione derivante direttamente da Rousseau si veda Gianni Ferrara, “La sovranità popolare e le sue forme” in Valori e principi del regime repubblicano. 1.I. Sovranità e democrazia, a c. di Silvano Labriola, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 251-276.
9) Si veda in tal senso il commento di Franco Modugno, “Il problema dei limiti alla revisione costituzionale” in Giurisprudenza costituzionale, 37, 1992, 2, p. 1649-1703, in part. 1675: da una parte, “secondo il significato che il termine ha costantemente ricevuto nella lunga tradizione storica del pensiero politico moderno, ‘repubblica’ (…) è il regime in cui le istituzioni politiche supreme ricevono una investitura di potestà derivante dal basso, dal popolo, poiché quest’ultimo è l’originario detentore della sovranità come somma delle potestà supreme. L’inversione della formula della monarchia (assoluta) come forma di regime politico derivante dall’alto (il re è tale per grazia di Dio, poiché omnis potestas a Deo) è di tutta evidenza. D’altra parte la ‘forma repubblicana’ è già positivamente definita, o meglio: descritta, dall’art. 1 Cost.” Così anche Alessandro Pace, “Problemi della revisione costituzionale in Italia: verso il federalismo e il presidenzialismo?”, in Studi parlamentari politici e costituzionali, 1995, p. 5-19, in part. 14-15: il limite della forma repubblicana è “da intendere in senso riassuntivo di ciò che evoca l’idea di ‘repubblica’”, vale a dire in primis “eguaglianza formale e sostanziale; diritto di voto”.
10. Relazioni della Commissione speciale per la riforma del Senato, Roma, Tip. Delle Mantellate, 1919, p. 37: “Di suprema importanza è [il problema] di stabilire i rapporti fra le due Camere e di disciplinare l’argomento, fra tutti il più spinoso, degli eventuali conflitti fra di esse.(…) Difficilissimo certo e il più delicato (…) era quello di escogitare un sistema atto a dirimerli. Quello che la Commissione propone parte dal presupposto di una perfetta uguaglianza fra i due rami del Parlamento: uguaglianza che viene scrupolosamente osservata in tutte le fasi successive dell’eventuale conflitto e della sua risoluzione” (corsivo mio).
11) La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, cit., v. IV, p. 3086.
12) È invece quest’ultima la tesi, assolutamente non condivisibile, di Rocco Ermidio, Le seconde Camere nel diritto comparato. Ipotesi di riforma del Senato italiano, Roma, Aracne, 2015, p. 33-35.
13) Nitti, 24 settembre 1947 (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, cit., vol. IV, p. 2098 e 3001-3002): al Senato come alla Camera “le fonti della sovranità devono essere le stesse: il popolo intero, tutti devono essere elettori se si trovano nelle condizioni generali richieste. Quindi, nessun privilegio (…), dato che il nostro Paese non ha ancora una struttura politica, dopo tante vicende, che assicuri contro le cattive influenze e contro la corruzione. Credo quindi che si debba escludere ad ogni modo l’elezione a doppio grado”. Preti (ivi, p. 3005-3006): il Senato “non deve alterare l’equilibrio politico della Camera dei deputati. Anche il Senato deve esprimere il più genuinamente possibile la volontà popolare”. Carpano Maglioli (ivi, p. 3006): “Noi riteniamo che a fondamento di ogni formazione di assemblea legislativa deve sempre concorrere il sistema del suffragio universale diretto, perché noi pensiamo  che le elezioni di secondo grado presentino pericoli di deviazioni attraverso interferenze, che allontanano l’eletto dalla volontà diretta degli elettori. E su questo punto io credo non sia più il caso di spendere una sola parola.”
14) Laconi, 24 settembre 1947 (ivi, p. 3008): “Per quanto riguarda le proposte di elezione indiretta (…) è una soluzione provvisoria, adottata allo scopo di eludere il problema (…). Nessuno in Italia potrebbe comprendere un tale sistema”. Nobili Tito Oro (ivi, p. 3011-3012): il nostro gruppo considera  il “suffragio universale come unica, legittima espressione della sovranità popolare”, mentre secondo il progetto in esame “la Regione dovrebbe sostituire, almeno in parte, il potere regio nella partecipazione alla costituzione del Senato”.
15) Lami Starnuti (ivi, p. 3005): “L’onorevole Nitti ha già fatto presente all’Assemblea Costituente quali sono i pericoli di affidare ad un ristretto numero di elettori una nomina tanto importante come quella del Senato della Repubblica.  Quando vi sono in gioco interessi politici così notevoli e così cospicui, un ristretto collegio di elettori può subire tutte le influenze e tutte le tentazioni”.
16) Come scrive Federico del Giudice, Costituzione rottamata? Commento alla riforma costituzionale (Gazzetta Ufficiale 15 aprile 2016, n. 88), Napoli, Simone, 2016, p. 21-22: § Revisione della Costituzione e principi fondamentali, “una modifica della composizione del Senato, pur riguardando la Parte Seconda della Costituzione, restringe, di fatto, alcune prerogative fondamentali del cittadino, prima fra tutte la sua capacità di partecipare, attraverso il voto, alla formazione della volontà statale”.
17) Sul potere che la legge di revisione dà alle oligarchie si leggano le efficaci considerazioni di Roberto Scarpinato, “La riforma di Renzi è oligarchica e antipopolare”, http://temi.repubblica.it/micromega-online/scarpinato-%E2%80%9Ctutte-le-ragioni-per-votare-no-a-una-riforma-oligarchica-e-antipopolare%E2%80%9D/
18) È quanto paventa Stefano Rodotà, Democrazia e Costituzione. Perché dire no alla riforma Boschi e costruire una politica costituzionale, Roma, Castelvecchi, 2016, p. 36, che fa riferimento a quella che viene chiamata la “serrata del Maggior Consiglio” nella Repubblica di Venezia nel 1297, quando un’oligarchia sottrasse la sovranità al popolo e si arrogò un diritto di voto esclusivo nell’elezione dei Dogi, che poi si protrasse lungo l’arco di esattamente 500 anni. “La riforma proposta – conclude Rodotà – è una Serrata del Maggior Consiglio”. Rousseau nel Contratto sociale (III, 10, n.) considera l’esempio di Venezia, anche per la sua durata, paradigmatico degli esiti a cui conducono l’“abuso del governo e la sua tendenza a degenerare” (come suona il titolo di questo suo capitolo).
19) Su questo aspetto si è soffermato Franco Bile, “Le riforme costituzionali e il dovere della prudenza”, in Questione giustizia, 2011, 2, p. 85-92, in part. 88.
20) Su tale proposta si veda Enrico Cuccodoro, Il diritto pubblico della transizione costituzionale italiana, Bologna, Monduzzi, 2007, p. 147-148.
21) Esaminano alcuni di tali aspetti Michele Della Morte, Bruno De Maria, “Gli istituti della partecipazione nella riforma Renzi-Boschi”; Carlos Ernesto Herman Rodriguez, “Brevi note sull’iniziativa legislativa popolare. Sviluppi, arretramenti e delusioni costituzionali”, in Alberto Lucarelli, Francesco Zammartino (a c. di), La riforma costituzionale Renzi-Boschi. Quali scenari? Torino, Giappichelli, 2016, p. 75-87 e 88-96.
22) Ho esaminato questo aspetto nell’articolo “Perché sul referendum Renzi viola la legge” in Critica liberale (online), 12 aprile 2016, http://www.criticaliberale.it/news/235246.

{ Pubblicato il: 01.12.2016 }




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Argomenti correlati: evidenza, referendum, no - Un commento


Commento inserito da antonio caputo il 02.12.2016:
Ho sempre dal primo momento sostenuto, insieme con pochi altri, tra cui il Prof.Pace . e lo stesso Ferrajoli e anche Dogliani, che la riforma proposta dal Governo Renzi non abbia soltanto finalita', ma anche contenuto eversivo dei principi del costituzionalismo, che nella Costituzione repubblicana del 48 si sostanziano in specie negli artt.1,2,3,5,48, i principali.Questo costituisce la "forma repubblicana". La riforma pertanto viola l'art.139 che il Costituente pose come limite ai poteri di revisione. Occorrerebbe studiare in ipotesi, sperando che prevalga il No, ma sono molto preoccupato, una possibile azione giudiziaria per potere interpellare la Corte costituzionale, in un percorso processuale reso improbo dall'impossibilita' di ricorrere direttamente alla stessa, ricorso precluso dalla legislazione vigente . IL carattere rigido della Carta con simili espedienti legislativi e' stato chiaramente bypassato e di rigidita' non rimane piu' nulla. Siamo in piena Weimar. E stiamo subendo un colpo di stato ad opera di un parlamento abusivo ormai da tre anni.