Nell'ultimo quindicinale "criticaliberalepuntoit" abbiamo pubblicato, a firma di Giovanni Vetritto, un'analisi in più punti sulla situazione che si è venuta a creare dopo il voto referendario. In conclusione, Vetritto ha scritto un poscritto, che qui riportiamo, sull'iniziativa politica di Civati. Il quale così ha risposto.
<Poscritto. Una finestra di opportunità
L’ultimo punto della disamina di scenario suggerisce una considerazione a parte, non più obiettiva ma propositiva, volta ad aggiungere al quadro una ipotesi di possibile leva da attivare nel panorama dei ceti medi riflessivi, dei settori non massimalisti della reazione al disagio sociale, e della borghesia colta e riformista.
L’unico documento politico, ormai da molti anni a questa parte, esplicitamente e sinceramente attento ai contenuti e ai valori da ultimo descritti resta il Patto Repubblicano lanciato nel 2014 da Pippo Civati.
In quanto giovane e post-ideologico, e immune dai rancori della Prima Repubblica, resta lui il più plausibile federatore di un’area ampia di riformisti, capace di animare il dibattito a sinistra, riaggregare le identità dei vecchi laici delle diverse parrocchie liberali, repubblicane e socialiste, farle aprire a un moderno ambientalismo non ostruzionistico, mettertele in contatto con generazioni più giovani di idee, professioni e interessi, con domande di politica di progresso in parte inediti ma nella loro sostanza innovativa affini alle tradizioni del riformismo laico.
Borghese e laico a sua volta, perfino nello stile, nella figura e negli atteggiamenti, colto, ricercatore di filosofia e quindi conscio della storia delle culture politiche, problemista e attento a una costruzione informata delle politiche, Civati pare fatto apposta per tentare di mettere insieme un settore oggi inesistente di offerta politica, non sedotto dalle sirene neocentriste (quando non apertamente conservatrici) del renzismo, estraneo ai singulti della storia ex comunista, ma nemmeno soddisfatto di una testimonianza radicalizzata. Un cuscinetto elettorale posto tra le crisi amletiche del PD e i sogni palingenetici della sinistra radicale; magari per offrire all’uno e all’altra un ponte programmatico pensato e razionale, ma orientato sul piano valoriale nel senso della democrazia laica e liberale. Con l’obiettivo vantaggio di sistema, se si vorrà davvero voltare pagina rispetto alle recenti logiche di selezione della domanda e restrizione della rappresentanza, di potere riassorbire una parte almeno dell’ormai debordante astensionismo elettorale (non a caso non verificatosi nel referendum, con il 70% degli aventi diritto che ha espresso il proprio voto).
Civati, oscurato mediaticamente dopo la sua uscita dal PD, ha avuto anche le sue colpe in questi mesi. Dando per scontata la deriva neocentrista del PD, ha dato l’impressione di tentare una impossibile aggregazione alternativa di tutta la sinistra possibile (che aveva le sue case, i suoi voti e i suoi santini) ed ha mancato perciò di costruirsi una identità nel senso magari più limitato, ma elettoralmente più riconoscibile, di sponda per i soliti happy five million di italiani colti, laici democratici, riformisti, liberali, socialmente sensibili.
Molte sono le incognite che sono state illustrate rispetto alla possibilità di porre rimedio ora; ma nell’incoraggiante momento di confusione dell’intero quadro politico, e di conseguente velo d’ignoranza, si apre anche per lui, come per tutti i potenziali soggetti federabili, una ulteriore finestra di opportunità, a parere di chi scrive solo a condizione di muoversi nel senso dianzi descritto.
Può darsi che non ce ne sia nemmeno il tempo.
Ma muovendosi immediatamente, con una operazione non identitaria, ma politicamente colorita, chiara e riconoscibile (e non velleitariamente ecumenica) potrebbe chiamare a raccolta i dispersi, per dar loro uno spazio a sinistra nell’ipotesi che l’attuale crisi lasci spazio non a una ricomposizione di interessi di corto respiro, ma a una vera nuova fase della politica italiana, come dopo il 1993.
Si tratta di una prospettiva, come detto, in sé non certa, e forse nemmeno probabile. Ma possibile sì.>
Più delle parole gentili, per cui ringrazio, mi interessano due cose. La critica, a cui mi piace rispondere con umiltà. E la proposta, che si può sviluppare insieme.
Della prima, dirò che quando sono uscito dalla maggioranza ho proposto una formula completamente diversa dal passato, ovvero la creazione di comitati locali di tutti coloro che non si riconoscevano nella maggioranza e nel pensiero allora ritenuto unico (quello del «non ci sono alternative»). Una formula che superasse sigle e recinti, che purtroppo chi aveva sigle e recinti non ha voluto cogliere, tanto che ancora permangono gli stessi partiti e movimenti di un anno e mezzo fa. Possibile non voleva aggiungersi, voleva sciogliere e coagulare. Non ci siamo riusciti perché non lo si è voluto fare.
Se è poi diventato un partito autonomo è per la ragione che spiegherò tra un attimo, non prima di avere precisato per la milionesima volta che non si tratta di formare un soggetto a sinistra del Pd, perché il concetto è insieme residuale e vago. A sinistra del Pd, che ha scelto di abbandonarla, c'è moltissimo, essendosi il Pd spostato altrove, per stessa convinzione di chi lo guida e ne fa parte. E però non è una solo una collocazione geografica che ci interessa, ma una scelta antica e modernissima insieme, che rinnovi i valori e le sfide, con soluzioni che valgano per oggi e soprattutto per domani.
David Hume scrisse, aprendo un suo celebre libro:
Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi princípi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni.
Se scorriamo le interviste di questa settimana, di questi mesi e forse di questi anni, chiediamoci: contengono scelte chiare in campo economico e sociale, con una chiara prospettiva sul futuro? Contengono risposte all'enorme questione costituzionale – sovranità, democrazia, rappresentanza – che si è aperta, ben prima dell'orrido referendum? Contengono parole di responsabilità verso il futuro, fatte di numeri e di diritti? O, piuttosto, contengono fumose strategie di alleanze, contro qualcuno, per evitare che vincano gli altri, circa il meno peggio, per vincere assolutamente anche a costo di perdere assolutamente?
Molte persone vivono nel peggio, senza lavoro, senza casa, altre senza prospettive. Quando sentono parlare di «meno peggio», a loro, giustamente, non basta. Vogliono una prospettiva forte, impegnativa dal punto di vista indivuale, e di senso collettivo. Non vogliono il compromesso, vogliono la decisione. Non di uno solo, una decisione che maturi, che rappresenti, che provi a risolvere. Non una scorciatoia, uno slogan, un tweet. Un'idea di Paese e di democrazia. E parole che seguano alle cose.
Perciò ci vuole un profilo di governo, radicale e libero. Repubblicano, nel senso di rispettoso della cosa pubblica, di ciò che unisce. Costituzionale, nel senso dei principi da attuare. Laico, perché sarebbe ora. Autonomo, ovvero non condizionato dalla compatibilità con questo o con quello.
Lo scrivevamo già nel Patto repubblicano, nei principi che ci uniscono e nei programmi che dovrebbe esserne diretta conseguenza, come nella politica italiana capita sempre più raramente. Lo scrivevamo pensando alla ricchezza e al pluralismo delle tradizioni politiche del nostro Paese, annullate in una logica di governo incentrata soprattutto, quando non esclusivamente, sul potere, nel potere. Lo scrivevamo pensando che dobbiamo procedere, verso obiettivi politici condivisi con la società, non solo quella «civile» (espressione politicistica anch'essa). Lo scrivevamo pensando a una dimensione europea di un messaggio che se rimane solo nazionale ha poco senso e non tutela nemmeno gli interessi della comunità che vorrebbe rappresentare e tutelare.
Dicevo: se Possibile è diventato un partito è per due ragioni, che rispondono alla domanda di Critica liberale. Per fare politica, ci vuole un'organizzazione e soprattutto un luogo politico e democratico. Quindi un partito, anche se come Possibile varrebbe l'iconografia di Magritte, perché non è certo un partito classico, né burocratico. E, seconda ragione ancora più significativa, perché Possibile è una formula, che corrisponde a quel progetto originario. È cioè interessato a fare le cose che avete letto qui sopra con tutti coloro che vorranno farle. Senza alcuna urgenza di primazia, senza alcuna volontà di imporsi, in uno schema aperto, leale e però concreto, perché di convegni non se ne può più.
A noi interessa «l'eterno ritorno dell'uguale», ma non quello del ceto politico o della nostalgica identità, quello del simbolo che abbiamo scelto: quello che ci ricorda che superare le disuguaglianze è urgente e tutt'altro che contraddittorio con la necessità di rendere le persone più libere.
Non ci siamo, quindi. Con umiltà, come consiglia Stephen Hawking. A cui aggiungerei e approfondirei: condivisione. Profonda. Della realtà. Delle cose che riguardano la vita delle persone. Non gli schemi politici astratti.
{ Pubblicato il: 11.12.2016 }