1. Aderisco all’invito dell’ambasciatore Antonio Armellini, nostro relatore, di mettere il punto di domanda al titolo del nostro convegno per stimolare di più dialogo e confronto. Non lo metto, certamente, sul claim “La nostra parte” perché almeno su questo non riteniamo di dover dubitare.
2. Ci incontriamo attorno a una proposta che mette al centro la prospettiva europea e che riapre per l’Italia la via maestra di un riformismo pragmatico misurato sulla sostenibilità di un rapporto possibile tra equità e crescita (Andrea Boitani e Pier Virgilio Dastoli ci aiuteranno a declinare meglio il tema). Sono tuttavia ancora vivi gli echi di una rappresentazione “per piazze” di due poli del centrosinistra forse ancora prigionieri delle divisioni personali, in questa fase entrambi piuttosto lontani dai contenuti, con la presa (per quel che si è sentito fin qui) staccata dall’Europa, con il rischio di un artificiale rottura del patto generazionale.
3. Tuttavia quel che è reale ha la sua spiegazione, ovviamente. Ma si può anche non essere festanti. Volere altro. Pensiamo che ci siano storie che servirebbero a orientare meglio alcune rotte. E a prevenire oggi - con più attenzione alle lezioni del passato – una delineata revanche della destra. Lascio volentieri agli autorevoli relatori - che ringrazio enormemente per essere qui - il diritto di puntualizzare meglio il contesto. E provo solo a fornire qualche spunto al tentativo che oggi campeggia nel titolo scelto – “La nostra parte” - di riprendere in mano una storia in parte interrotta, in parte emarginata che non ha tuttavia interrotto la sua missione: quella di coniugare la parola “sinistra” con la parola “altra”. Perché mettendo anche superficialmente mano alla storia d’Italia noi sappiamo che un’altra sinistra c’è.
4. Dall’inizio degli anni novanta – storia, questa, nota a tutti ma temo non ai millennials - la politica italiana, formatasi nel rinnovamento costituzionale post-bellico è entrata nella sindrome di cambiare pelle. “Pelle” vuol dire soprattutto forma esteriore, involucro, apparenza. Anche quel vento, che ha cominciato a soffiare in quegli anni, veniva da nord, in questo caso da Berlino. In cui, poco prima, la caduta incruenta ma fragorosa del muro che divideva comunismo e occidente aveva lanciato il tema del superamento delle ideologie. Tema sentito innanzi tutto dal ceto politico più legato alla forma ideologica della politica che, intendendo sopravvivere alla bufera, anche nelle forme personali e individuali, salvo qualche eccezione, trovò rapidamente idonea la via di non associare più l’indirizzo della politica a vincoli ideologici, cercando rappresentazioni del posizionamento delle idee e dei valori in termini magari più confusi, più allusivi, meno a ricalco dei profili in cui teoria e propaganda avevano incarnato lo storico passaggio di consegne tra ‘800 e ‘900. E in cui gli scontri radicali del ‘900 (due guerre mondiali) avevano scolpito nel marmo e nel bronzo le statue di un pensiero che pareva eterno. Una vicenda complessa, fatta anche di dolori e sofferenze. Ma anche di spregiudicatezze e certe dosi di cinismo. In particolare il comunismo, sotto accusa mondiale, sentiva in occidente (e beninteso nei paesi rivoltatisi finalmente al radicamento delle forme ormai peggiori di quella storia) il bisogno di promuovere e aderire alla cancellazione delle forme per salvare, ove possibile delle sostanze.
5. In Italia l’applicazione del maggioritario, in quegli anni, ha reso necessario il recupero senza remore di tutti i soggetti rappresentati parlamentarmente. Ciò ha agito anche sulla destra di tradizione fascista e neo-fascista che, restando legata ad un’altra ideologia sconfitta, rischiava l’evaporazione anagrafica o il riformarsi con caratteri giovanili virulenti poco indicati alla piega perbenista delle esigenze del nuovo marketing elettorale. Anche da questa parte, così, il camuffamento formale ha preso piede facilmente consegnandoci forme di moderato nazionalismo che dovevano bilanciare l’insorgente localismo leghista nel quadro di alleanze composite ma corrispondenti ad una umoralità conservatrice forte della società italiana e, per questo, elettoralmente competitiva.
6. Meno chiara appare ancora oggi la ragione per cui l’area politica diciamo riformista dello schieramento politico (liberali, democristiani, repubblicani, socialisti e socialdemocratici) avrebbero dovuto seguire questo schema trasformista. Non lo suggeriva l’Europa dove, anzi, in questi ambiti continuava ad esprimersi una parte importante dei consensi organizzati. Non lo suggeriva la storia in cui la connessione tra ‘800 e ‘900 aveva prodotto qui filiere di pensiero continuamente rigenerato connesso tutto sommato a un quadro di azioni virtuose (dal Risorgimento alla Resistenza, dalla costruzione teorica e pratica del Welfare alle scelte di campo più coerenti con la sostanza dell’idea di libertà dell’occidente).
7. L’unico piccolo partito che, fermo nella sua storia e nei suoi valori, non cercò di trasfigurarsi formalisticamente fu il Partito Radicale, anche se ormai con un consenso elettorale diventato marginalissimo. Quando scrissi con Marco Pannella un intenso viaggio attorno alla sua vita di ottantenne era molto fiero di questa solitaria sopravvivenza, ma volle intitolare quel libro “Le nostre storie sono i nostri orti, ma anche i nostri ghetti”.
8. Si è scritto che, con pensiero corto, la stagione di crisi di una certa etica pubblica e quindi il coinvolgimento diffuso con un finanziamento illecito dei partiti aveva generato – attraverso il bull-dozer di Tangentopoli – una scossa distruttiva che appariva simile a quella della caduta del muro di Berlino. E che suggeriva ai gruppi dirigenti di questa area di seguire la moda del camuffamento, in questi casi per lo più nemmeno eseguita con successo, ma semplicemente capace di generare forme di auto-annullamento. La verifica a posteriori di questo suicidio viaggia con pari argomentazione del racconto del penoso tentativo (tutto italiano, più che europeo) di dare forme più emotive che teoriche, più antropologiche che sociali, più comunicative che elaborative, ai soggetti politici più importanti della seconda Repubblica: i dem e i berl.
9. Caduto, in generale, il vincolo ideologico (dato per scontato da quasi tutti come un “aquis” e mai discusso per paura di passare per passatisti, vetero-qualcosa, remotisti, eccetera), si sono viste storie di partiti emozionali (nei caratteri comunicativi) che però avevano il compito sostanziale di traghettare ceti politici di ben precise caratteristiche; in particolare nella sinistra, quelli legati al sogno incompiuto del compromesso storico nel difficile e anch’esso mai compiuto tentativo di tenere insieme le nomenclature berlingueriana e dossettiana).
10. E dall’altra parte, cioè a destra, si è profilato – a corrente alternata – un pressapochistico liberalismo che doveva amalgamare per convenienza una complessità ben maggiore: forza vendita di Mediaset, leghismo vecchio e nuovo, trasformismo post-fascista, CL e la parte di Compagnia delle Opere a favore comunque di chi governa, socialisti trasmigrati con posizioni politiche viscerali, il grosso del personale politico della DC del territorio interessato principalmente a poco cambiamento di regole e poteri.
11. Comunque gli inarrestabili processi descritti hanno schiacciato tutto l’orto. Operazione diventata assoluta con la formazione più recente di un terzo polo: reattivo, giovanilistico, giustificato ma anche molto demagogico, sollevatosi al suono di un pifferaio comunicativo e irriverente come rivolta generazionale a volte strampalata ma la cui sensibilità all’equità non va sottovalutata. Rivolta comunque contro un’offerta politica ormai ancora più strampalata.
12. Ugo Finetti dirige una rivista storica del socialismo italiano Critica Sociale e mantiene finezza di giudizio costruita in tanti anni di attività politica. Dice sinteticamente che l’attuale assetto tripolare della politica italiana leaderistica si fonda sulla cancellazione delle due leve della politica fondata sulla cultura politica: la dialettica (cioè discutere nel merito con tutti) e la storia (cioè tenere i piedi piantati nelle radici e nelle evoluzioni). Credo davvero che si abbia il dovere di testimoniare l’inevitabilità di questa prospettiva, anche se in condizioni minoritarie e anche non arrendendosi a chi asserisce che la politica – nel senso soprattutto elettorale - o è leaderistica o non è.
13. Malgrado il peso di questo scenario, i nuclei di cultura politica a cui facciamo riferimento – oggi affidati a poche fondazioni, qualche buona rivista e qualche circolo culturalmente vitale ma politicamente in condizioni annichilite – sono riusciti a rimettere in ordine un pensiero. Quello che parte dal fatto che le buone letture (quelle di gioventù e anche quelle più recenti) che riguardano queste storie non sono riconducibili alla muffa delle letture ideologiche alimentate dalle diverse forme di propagandismo sconfitte nella storia del ‘900, ma anzi contengono analisi del passato (e del loro presente) e soprattutto capacità di immaginare e progettare il futuro che tuttora esprimono reale lucidità e reale valore. Temo che molti di questi soggetti non vogliano andare al di là della difesa del “patrimonio ideale”. Anche nel nostro cantiere – l’avrebbe spiegato meglio Giovanni Vetritto nella discussione, ma è stato obbligato a trattenersi al lavoro al Ministero degli Affari Regionali per le improvvise dimissioni del ministro Costa – abbiamo rivisto antiche ritrosie. E tuttavia quel “patrimonio” quel “pensiero”, valgono soprattutto perché non hanno mai perso di vista anche “l’azione”. Connessione che in Italia, a fronte di un’Italia più disunita, con una riacutizzata “questione meridionale” (ne parlerà Luigi Mascilli Migliorini, valentissimo storico e presidente della Fondazione “Francesco De Martino”), vale come e più di prima.
14. Di Rivoluzione liberale di Piero Gobetti non si butta via nulla oggi. Lo stesso vale per il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni. Vale per le profezie politiche e parlamentari di Filippo Turati (a cominciare dal suo sogno di “Rifare l’Italia” mettendola in prevenzione idro-geologica) che sollevarono l’ironia, anzi lo scherno, di comunisti di ogni tempo, refrattari soprattutto alla parola “riformismo”. L’elenco delle fonti è molto vasto. Tiene conto, nella tradizione italiana, di un arco articolatissimo dell’amor di Patria, che comprende la lezione socialista-liberale che va dai fratelli Rosselli a Norberto Bobbio al pensiero cattolico-liberale giobertiano e rosminiano, va dalla religione della Patria di Mazzini alle innumerevoli “postille” di Salvemini, va dall’idea nittiana di democrazia alle “prediche inutili” di Einaudi. Non dimentica soprattutto il coraggio progettuale degli azionisti (da Calamandrei a La Malfa, da Lombardi a Lussu, da Rossi Doria a Parri) con i loro “sette punti” costitutivi ancora di quasi intatta vitalità e con alle spalle l’eroismo di Giustizia e Libertà nella guerra di liberazione dal nazi-fascismo. Vi è poi una più recente letteratura economica di matrice anglosassone che esprime quel “liberalismo radicale” che sta nutrendo un pensiero di convergenze tra istanze che, per semplificare, sono state siglate come “lib-lab” (mi riferisco a (Keynes, Beveridge, Sen, Stiglitz, Tony Judt, Michael Sandel, eccetera).
15. Restiamo convinti che le divisioni, l’antagonismo, le conflittualità di cui la storia di queste idee lasciano traccia, illanguidiscono rispetto all’esigenza di ricomporre riferimenti all’Italia migliore e all’esigenza di sollecitare chi oggi pensa di dare risposte politiche a crisi e opportunità in atto (soprattutto pensando ai giovani senza cui non ci sarebbe comunque vitalità politica) e di non aver paura a rimettere mano alla continuità di un rapporto tra azione e pensiero nella progettazione politica. Aderire a un pensiero già pensato – quando autorevole, verificato storicamente, in grado di raccordare fenomeni e soluzioni, non solo non è un delitto ma è anche la condizione per produrre nuovo pensiero e per mettere i problemi e non se stessi al centro dell’iniziativa politica.
16. Queste sono le annotazioni di cornice che ritengo giusto trasferire per spiegare il senso dell’iniziativa di oggi. Vi è chi è in cammino su questo progetto (non sto traducendo esattamente “En marche!”, anche se lì leggo un’ipotesi da discutere), vi è chi sta cercando di ricomporre iniziative, tensioni, potenzialità. Noi prima di compiere passi decisivi abbiamo ritenuto di far maturare alcune occasioni per dare una embrionale forma di proposta, grazie a figure in grado di ribaltare la diceria che le proposte le devono fare gli incompetenti che passano per caso per strada.
17. Non sarà sfuggito a chi ha solo dato una scorsa al programma di quest’incontro che abbiamo cercato di riportare l’intera questione dentro l’alveo della cornice europea. Per tre ragioni:
- perché lì c’è un insieme di riferimenti identitari e di soglia delle condizioni competitive entro cui l’Italia o si allinea da protagonista o perde l’ultimo treno per mettere al riparo democrazia e possibile crescita;
- perché - pur mettendo a confronto due sostanziali schieramenti pro o contro l’attuale carattere dell’Unione – lì stanno prendendo forma vecchie e nuove forme del “far politica” in un sistema tenuto insieme da valori civili omogenei;
- perché – ora con segnali dalla Francia, ma non escludendo altre convergenze – lì si stanno per verificare scomposizioni e ricomposizioni delle aree politiche socialista e liberale che sono parte del nostro assunto, ovvero del rapido necessario interrogarsi (titolo di questo convegno) su quale sia la nostra parte in questo processo che può avere accelerazioni.
18. Circa la questione del metodo di far crescere proposta:
- oggi ascoltiamo pareri competenti; rinviando la prevista tavola rotonda politica a settembre e ringraziando ancora l’on. Valdo Spini per la sua disponibilità a introdurla.
- da oggi lavoriamo per avvicinare cittadini che hanno requisiti morali e culturali per aiutarci nel merito e nella collocazione delle priorità circa queste e altre proposte;
- con questo metodo siamo pronti a discutere, dopo questo convegno, se un soggetto di iniziativa politica potrebbe mettere a obiettivo le aspettative che nei precedenti mesi di ascolto e dialogo promosso dal “Cantiere delle Ragioni” abbiamo provato ad intercettare; abbiamo trovato un’Italia che magari ha alimentato l’astensionismo ma che non ha alimentato né il qualunquismo né il rinunciatarismo; non è ancora del tutto evidente lo spirito di superamento della marginalità.
19. Il posizionamento di questo progetto non è un apriori. La collocazione progressista del nostro ragionamento è parte delle storie a cui ci onoriamo di appartenere. Ma la confusione di sistema resta abbastanza ampia per non avere pregiudiziali. Che con l’autunno e dunque con la partecipazione, soprattutto aperta al civismo territoriale e alle esperienze valoriali di chi ha tenuto duro negli anni attorno certi convincimenti, contiamo di mettere meglio a fuoco – come dice un’aspirazione che viene da lontano – il modo di “passare all’azione”.
20. La gratitudine a tutti coloro che hanno accettato il nostro invito per esporre spunti progettuali o per confrontare il punto nodale della questione che ci ha ispirato è grande e sincera.
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Cantiere delle Ragioni
Seminario programmatico – Roma, Hotel Valadier - 19 luglio 2017
Introduzione di Stefano Rolando - La nostra parte
{ Pubblicato il: 19.07.2017 }