[11] Il documento per un partito nuovo della sinistra scritto da Fabrizio Barca merita attenzione e discussione per un coraggioso cambio di prospettiva rispetto al deludente dibattito attuale sul tema della crisi dei soggetti politici: quello che invita a individuare come centrale anche per la ridefinizione del ruolo delle forze politiche il tema della conoscenza, ovvero di quell’elemento che, nel mondo globalizzato, ha cambiato processi e strutture delle organizzazioni complesse, dinamiche sociali, prototipi di tante forme del vivere civile.
In un importante articolo del 2011 sul Regional Outlook dell’OCSE Barca aveva già posto la questione della conoscenza al centro di una riflessione sulle diverse ricette di politica economica accreditate per sottrarre i territori svantaggiati alle trappole del sottosviluppo.
Oggi con questo suo sforzo di riflessione vuol dirci che, in quella che non a caso chiamiamo la “società della conoscenza”, proprio quello di integrare, confrontare, far confliggere in maniera “ragionevole” (con il suo amico Amartya Sen) convinzioni e orientamenti degli individui e dei gruppi sociali è ormai divenuto il ruolo fondamentale del partito in quanto organizzazione di raccolta e mobilitazione del consenso.
Dopo il “partito scuola di vita” e oltre il “partito liquido” e il “partito di occupazione dello Stato”, Barca propone dunque un “partito palestra”, nel quale la società civile torni a riconoscersi e impegnarsi per trovare soluzione ai problemi collettivi, sempre più complessi e articolati.
Si tratta di una prospettiva largamente condivisibile sul piano metodologico e funzionale; che, va sottolineato, propone una convincente via d’uscita alla critica del liberismo più intelligente (ma intransigente, à la Von Mises) a qualsiasi interventismo pubblico, a qualsiasi politica riformista “di sinistra”: l’affermazione dell’impossibilità del pianificatore centrale di operare per il meglio non avendo le conoscenze necessarie, che sono disperse nella società. Metodi di “sperimentalismo democratico”, di progettazione reticolare, condivisa, deliberativa, bottom up possono far giustizia di questa pur corretta semplificazione, utilizzando l’organizzazione politica per compiere quella operazione euristica e di “mobilitazione cognitiva” che può legittimare quel tanto di costruttivismo sociale implicito in qualsiasi riformismo, dandogli una speranza di efficacia.
Ciò detto sul metodo e sul ruolo immaginati per il partito, bisogna però concludere che lo sforzo di Barca, in definitiva, non convince.
E ciò non per una qualche astrusità di linguaggio, che pure gli è stata rimproverata soprattutto da alcuni che si indignano per una citazione di Mattioli (il “catoblepismo”), dando mostra di voler difendere il diritto di comprendere della casalinga di Voghera, ma che in realtà sono interessati a mantenere il dibattito pubblico nel vuoto pneumatico che sta legittimando l’imporsi dell’oclocrazia imperante.
E nemmeno per diversi aspetti di dettaglio, sui quali pure si potrebbe discutere, ma sui quali non conviene, in prima approssimazione, soffermarsi.
È proprio sul contenuto fondamentale del documento, sulla sua articolazione, che conviene piuttosto concentrarsi, affondando la critica con grande franchezza e senza troppe remore, come si conviene nei confronti di un uomo che ha dimostrato nella sua azione di governo apertura, credibilità e assenza di cinismo.
Dal punto di vista di chi si riconosce nella tradizione liberale cui si ispira Critica, tutto lo sviluppo logico del documento soffre di almeno tre vizi di fondo che ne compromettono la fondatezza. E che lasciano non colmata una distanza.
Il primo. Nella concezione stessa del “partito” adottata da Barca, proprio ontologicamente, pare di scorgere un pesante misunderstanding da grand commis che approccia la politica con una qualche naiveté.
Il partito è prima di ogni altra cosa “pars”. È l’erede delle sette e delle ecclesie della Riforma protestante, come insegnava De Ruggiero. È sintesi tra persone che si riconoscono in una storia comune. In un pacchetto di valori e idealità e interessi, che convincono se sono escludenti, se individuano un perimetro. Perimetro che, però, nel documento Barca, non si scorge con sufficiente nettezza. Tutto il ragionamento evita il tema dei valori e delle convinzioni politiche “escludenti”, per confinarle in un addendum; nel quale però, in maniera troppo generica, da high civil servant e non da politico, Barca si limita e far riferimento quasi solo alla Costituzione, e dunque a valori a valori troppo inclusivi per definizione, troppo “di tutti” per fondare una “pars”.
Il dubbio che ne deriva si rafforza laddove Barca ribadisce che alla “mobilitazione cognitiva”, che è la funzione qualificante del “partito palestra”, possa partecipare chiunque sia interessato alla soluzione dei problemi, e non soltanto chi al partito appartiene.
Così non si salda una “pars”, e quindi non si fa un partito. Questo fraintendimento deriva forse da un vizio di origine, per così dire professionale, del Barca politico. Esistono infatti, nel dibattito pubblico e nella complessità delle interazioni sociali, due livelli di sintesi cognitiva: quella parziale (da “pars”) che fa il partito nel recinto del “sentiment” che lo caratterizza e quella inclusiva, “neutrale” da art. 97 della Costituzione, che deve fare la pubblica amministrazione “sussidiaria” che anima le dinamiche amministrative delle forme della governance moderna. Barca non sembra fare differenze tra questi due livelli: se ne ha contezza, non la fa emergere con sufficiente chiarezza; se non ne ha, sbaglia.
Se pensa di riportare ogni dibattito pubblico, ogni sintesi cognitiva all’interno di una organizzazione politica, non costruisce un partito di democrazia liberale, quanto, piuttosto (si passi l’accentuazione polemica in riferimento all’antropologia politica da cui il ministro proviene) un soviet di un sistema a partito unico.
C’è poi una seconda perplessità che sorge spontanea in chi, legato a una precisa tradizione politica liberale, legga il documento. Il disegno di un modello funzionale convincente (il “partito-palestra”, come detto) si conclude infatti su una sfilza di domande sulle regole di organizzazione del modello stesso, ma senza precisare i termini in cui queste domande devono porsi.
Pare di scorgere nel nuovo Barca politico un profilo da sostanzialista, coerente con la sua provenienza familiare comunista, ma che proprio per questo, sul tema delle regole, respinge i liberali, che hanno delle forme della democrazia una concezione ben più rilevante. Pare di scorgere il profilo di chi ritiene le regole magari utili, ma alla fin fine secondarie; tornano alla memoria le memorabili schermaglie tra Bobbio e Roderigo di Castiglia in “Politica e cultura”.
La questione delle regole interne ai partiti è una questione cruciale che i partiti italiani non hanno mai voluto affrontare: né alla Costituente dove la pose Calamandrei, né negli anni ’50 quando emerse la “proposta Sturzo”, né negli anni ’60 quando venne ribadita con forza senza precedenti da tutta la riflessione di Giuseppe Maranini, né a cavallo tra anni ’70 e anni ’80, quando venne avanzata dallla Commissione Bozzi una ragionevole proposta di riscrittura dell’art. 49 della Costituzione. Poi la questione è sparita colpevolmente, durante tutti gli anni ‘70 (nei quali, secondo la lettura di Simona Colarizi, i partiti hanno finito di sfasciarsi), per poi scaricare impropriamente, a partire dagli anni ’80, sulla “grande riforma” delle istituzioni (soprattutto per l’opera di Craxi) una serie di problemi che derivavano dalla mancata soluzione di disfunzioni e mancanza di regole sui partiti.
Insomma, il tema delle regole e delle forme, del tasso di formalismo che fa antropologicamente parte del percorso che porta ad abbracciare filoni liberaldemocratici e non massimalisti, nel documento resta irrisolto. E non è un bene. La questione dello “statuto pubblico” da Kelsen in poi è parte sostanziale della riflessione liberale di sinistra. È stata avversata nella storia politica italiana dal sostanzialismo del mondo comunista; e spiace non vederla affrontata nel documento.
Il terzo e principale punto di dissenso, dal versante liberale, sul documento di Barca è però tutto politico. C’è una storia enorme in Italia, che è la storia del conflitto tra la sinistra di ascendenza salveminiana (chiamiamola azionista, radicale, liberale, liberalsocialista, democratica, repubblicana) e quella di ascendenza socialcomunista. E la politica, i partiti, non si possono ricostruire in un paese senza fare i conti con storie come questa. E Barca non li fa.
Nel documento conduce una serrata critica del “minimalismo (che non chiama liberismo, forse per non ridurre tutto a una contrapposizione rispetto al mainstream) e della “socialdemocrazia”, ma della storia dell’altra sinistra non fai mai cenno. In quasi 50 cartelle, che si trova a dover continuamente puntellare con il meglio della letteratura liberale (da Hirschman a Sen), Barca non usa una sola volta l’aggettivo liberale, nemmeno restringendo il riferimento alle sole correnti di progresso. Ed è, quella della sinistra salveminiana, una storia ormai senza patria che interroga fortemente la politica organizzata; una storia che, dopo lo snaturamento dei radicali e la scomparsa dei vecchi partitini laici, avrebbe dovuto porsi all’interno del partito dei vecchi “nemici a sinistra”, dal quale invece è stata ancora e sempre respinta.
Che quella storia venga rimossa anche da Barca in un documento nel quale si accetta pienamente l’idea che la socialdemocrazia sia in crisi non è un buon punto di inizio. Che ci riporta all’inizio: la debolezza dell’addendum. L’individuo è solo un focus reso necessario nella società laicizzata e globalizzata o è un valore? Dopo la socialdemocrazia il destino della sinistra è il funzionalismo tendenzialmente onnicomprensivo (che invece secondo me deve fare, come detto, l’amministrazione pubblica della governance) o si vuol fare i conti con quella “altra sinistra”? Qual è il “sentiment” che circoscrive la “pars”? C’è la consapevolezza e la voglia di rifare la tavola dei valori, delle idealità e degli interessi che qualificano questo ”sentiment” col coraggio di staccarsi dall’aggancio costituzionale neutro?
Fabrizio Barca ha una storia, come alto dirigente pubblico, politico e intellettuale, molto chiara: sobrietà etica e appartenenza ideale comunista, contenuti e azioni fortemente nutriti da una cultura liberalsocialista mai però apertamente abbracciata. In conclusione del suo documento, chiede sullo stesso un dibattito acceso, in maniera che non pare rituale.
Queste, da un liberale, sono prime critiche che aspettano una risposta.
{ Pubblicato il: 14.04.2013 }